Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
domenica 29 gennaio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 11. Camera con vista. A Firenze in tre.
Romano Monterovere fece la sua proposta di matrimonio a Elisa Lanni durante una gita a Firenze, nel 1937.
Elisa era incinta.
Molti anni dopo, quando il figlio nato da quella gravidanza si apprestava ad andare a Firenze per la prima volta, Elisa gli avrebbe detto "Non è la prima. Ci sei già stato".
Romano era un tipo taciturno, per cui Elisa sapeva ben poco di lui, nonostante si frequentassero da più di un anno.
<<Accetto, ma a condizione che tu risponda a tutte le domande che ti farò>>
Non era una condizione facile, ma Romano Monterovere accettò, perché in fondo sapeva che, se non si vuole dare una risposta, è sufficiente dire una mezza verità.
Glielo aveva ripetuto spesso suo nonno Ferdinando, quello morto all'Orma del Diavolo: "Il vero mentitore non dice bugie, ma soltanto mezze verità".
Le domande incominciarono.
Tra le più singolari ce ne furono alcune che rimasero impresse nella mente di entrambi:
<<So che sei nato quando ancora la tua famiglia abitava in montagna, in mezzo ai boschi. Ti mancano quelle montagne e quei boschi?>>
Lui annuì:
<<Non passa giorno in cui non ne senta la mancanza. Ah, com'era verde la mia valle ...>>
Verde e infestata di spiriti, ma questa era una storia troppo incredibile per essere raccontata, pur essendo vera.
<<Ed è vero che quando eri in Africa hai avuto una storia con una ragazze etiope>>
Lui sorrise:
<<Se avessi voluto nasconderlo, non mi sarei portato dietro una sua fotografia. Ma era soltanto una storia senza futuro. I matrimoni misti non sono certo incoraggiati nell'Impero Italiano>>
Non le disse che aveva lasciato una parte del suo cuore ad Asmara, ma lei lo aveva capito comunque.
Elisa lo incalzò:
<<Hai fatto molti errori nella tua vita?>>
Romano tornò ad annuire:
<<Tantissimi, ma tutti necessari. Senza certi errori non si può imparare a vivere>>
<<E adesso hai imparato?>>
<<Non del tutto. Ti avverto: non sarà facile convivere con me>>
Elisa aveva capito anche questo.
Le asperità del carattere del suo futuro marito le erano chiare, tranne una cosa:
<<E tu? Come fai a convivere con te stesso?>>
Gli occhi di lui si persero in una nube di pensieri, mentre rispondeva a voce bassa e roca:
<<Non lo so>>
Era difficile: la sua personalità era ossessivo-compulsiva, abitudinaria, perfezionista, fin troppo prudente.
<<Ti aiuterò io>> disse Elisa.
Si sposarono pochi mesi dopo.
Fintanto che Elisa ebbe vita, mantenne la sua promessa.
Vite quasi parallele. Capitolo 10. La Signorina De Toschi
Ospite fissa agli eventi mondani dell’Alta Società,
la signorina Mariuccia De Toschi era un’attempata nubile di buona famiglia e, per parte di padre, di
ostentate origini fiorentine (anche se tutti sapevano che era nata e cresciuta
a Forlì), unica figlia ed erede del glorioso generale Ardito De
Toschi e della compianta nobildonna Violetta Orsini di Casemurate, sorella del defunto
Conte Alberico.
Di Violetta Orsini quasi nulla si sapeva, essendo morta di tisi
poco dopo aver dato alla luce la figlia Mariuccia. Del resto la stessa Violetta aveva sempre sostenuto che una donna onesta di buona famiglia compare solo tre volte nei giornali: quando nasce, quando si sposa e quando muore.
Del generale De Toschi, invece, erano note tutte le gesta, decantate dalla moltitudine di attendenti succedutisi al suo servizio, per poi elevarsi verso luminose carriere
nei più svariati ambiti dell’Alta Società.
Ardito De Toschi, nato a Firenze nel 1865, era stato in
gioventù allievo ufficiale all’Accademia di Modena, poi tenente nella Guerra di Eritrea e Somalia, capitano nella guerra di Libia, colonnello durante la Grande Guerra, Cavaliere di Vittorio Veneto (medaglia d’oro,
secondo le leggende più accreditate). Generale nella Guerra d'Etiopia, comandante della spedizione spagnola a fianco
dei sostenitori di Francisco Franco (“il babbo salverà la Spagna dai comunisti” soleva rammentare sua figlia), aveva da poco ottenuto il grado di generale di corpo d'armata.
Di ritorno dalle imprese iberiche, carico di gloria in seguito ad una ferita alla gamba destra, si era congedato dal servizio alla Patria e aveva preso dimora a Forlì, la città vicino al Feudo della defunta moglie Violetta Orsini. E proprio a Forlì sua figlia Mariuccia aveva studiato e ottenuto l’incarico di
docente di Latino e Greco presso il Liceo Classico.
A tal proposito, nella città della bassa romagnola si narra ancora
questo simpatico aneddoto.
Laureatasi a 23 anni in Lettere Classiche a Bologna nel 1913,
la signorina Mariuccia aveva sostenuto a Roma il concorso per la docenza
superiore: in tale occasione, agli orali, ella sarebbe stata accompagnata “dal
babbo” in alta uniforme e decorazioni militari, che con aria cupa e vagamente
minacciosa avrebbe così apostrofato (con spiccato accento toscano) la
commissione d’esame: «Chodesta è la mi’ unicha figliola! Che Dio la benedicha! Trattatemela
bene o chonoscerete la lealtà degl’atthendhenti del cholonnello De Toschi!»
Inutile dire che la “cara figliola” passò l’esame col
massimo dei voti.
I suoi primi studenti giuravano che la signorina Mariuccia all’inizio
della carriera fosse bellissima: si elogiavano le sue lunghe trecce bionde
acconciate sul capo, gli occhi color acquamarina, e il fisico prosperoso.
Eppure Diana Orsini, che andava a ripetizione di latino e
greco da lei, (non che ne avesse bisogno, ma la Signorina ci teneva, in quanto Diana era figlia di suo cugino, il Conte Achille) nei primi anni Trenta, la ricordava già obesa, gonfia,
catarrosa, afflitta da raffreddori perenni e accanita fumatrice (“con una mano
teneva la sigaretta e con l’altra il fazzoletto da naso”).
Che fosse una mangiatrice da competizione era cosa nota: in
particolare era ghiotta di salumi e insaccati, e tra i regali più graditi che
potesse ricevere vi erano prosciutti, mortadelle, cotechini, zamponi e salsicce,
o, come lei diceva: “salcicce”.
Diana l’aveva imparato a sue spese. Una volta infatti,
pensando di farle cosa gradita, le aveva regalato per Natale alcuni libri di
cultura letteraria e classica. La signorina Mariuccia, gelida e quasi offesa,
non aveva neppure scartato i pacchi. Il Natale successivo alcuni giurarono di avere
ricevuto gli stessi pacchi in regalo dalla signorina.
Per Pasqua, Diana le aveva regalato una spilla: questa
volta la signorina aveva mostrato un qualche segno di apprezzamento, ma subito,
quasi in lacrime, aveva dichiarato che, onde evitare che il regalo portasse
sfortuna, c’erano solo due soluzioni: o lei stessa avrebbe dovuto dare 5 lire
a Diana, oppure avrebbe dovuto farsi pungere dalla spilla.
Preferì farsi pungere.
Diana, che aveva capito l’antifona, il Natale successivo le
regalò un cesto pieno di salumi e formaggi, e la signorina la baciò e
l’abbracciò più volte, piangendo a dirotto per la gioia.
A scuola era il terrore dei suoi studenti, mentre con quelli
di ripetizione privata soleva mostrarsi materna, specialmente se erano figli di
medici, avvocati, notai, dentisti, ma anche, non si sapeva mai, di idraulici,
elettricisti, muratori e altri professionisti di comprovata utilità.
Teneva le ripetizioni tutto il pomeriggio in uno stanzino a
piano terra della sua villetta, freddissimo e scomodo.
Nessuno mai ebbe accesso al piano nobile, il “sancta sanctorum”,
dove l’anziano generale-padre trascorreva la sua dignitosa vecchiaia.
Alle 5 in punto del pomeriggio la governante, signora
Gelsomina, madre del parroco locale, le portava il tè e le sigarette.
Ogni mattina la signorina Mariuccia e la signora Gelsomina
si recavano a messa alle 6, con la carrozza di proprietà dei Conti Orsini, mandata
apposta quotidianamente dalla loro Villa di Casemurate, poiché
la signorina, pur essendo benestante, non possedeva mezzi di trasporto e tantomeno andava in bicicletta, cosa disonorevole per una persona del suo rango e comunque non compatibile con i suoi mai del tutto definiti problema alla vista.
Dopo la Santa Messa, le due pie donne si recavano al
cimitero, a portare fiori sulla tomba della defunta madre della signorina.
Poi, con l’anima monda dai peccati e il Corpo di Cristo in
petto, la signorina si recava al lavoro, al Liceo Classico a terrorizzare i malcapitati studenti con interrogazioni a tappeto sulla consecutio temporum.
Se prendeva in antipatia uno di questi, per lui era finita.
Tartassato, rimandato, bocciato, costretto a cambiare istituto, quasi sempre lo
sventurato finiva per abbandonare gli studi.
Se al contrario prendeva uno studente in simpatia, costui si
diplomava a pieni voti, e gli si apriva un avvenire florido, sostenuto dai vari
“attendenti del babbo” infiltrati in ogni angolo dell’Alta Società.
Esempio di tale simpatia era l’Onorevole Avvocato Everardo Meloni, eterno e onnipotente Sottosegretario alla
Difesa, nonché marito di Caterina Ricci, la sorella di Ettore.
In verità la signorina De Toschi, pur essendo in grande
amicizia con i vecchi notabili liberali (ai quali faceva capire strizzando l’occhiolino che era ancora dalla loro parte). e pur avendo giurato eterna fedeltà solo e soltanto al Papa e al Re (come aveva confidato ad un imprecisato numero di “attendenti del babbo”), ostentava pubblicamente il gagliardetto fascista.
Ma non era tanto il voto politico a costituire il grande
mistero della signorina De Toschi, quanto la sua vita sentimentale.
Su questa materia si favoleggiavano le più disparate
leggende.
Innanzi tutto era assodato che la signorina aveva una speciale
attrazione per gli uomini giovani e robusti, in genere lavoratori manuali,
meglio se poco istruiti.
Ai tempi dell’università aveva preso una sbandata per un
aitante giovanotto, che ella presentò al padre prima come studente di
ingegneria, poi come diplomato geometra, infine, quando la nuda verità non
poteva essere più nascosta, come muratore a cottimo.
Di costui non si seppe più niente, anche se molti dicono che
una sera fu preso a bastonate da alcuni individui non identificati.
Il secondo grande amore della signorina fu, manco a dirlo,
un altro muratore, che era marito di una collega con gli stessi
gusti “ruspanti”, che divenne in breve tempo la sua migliore amica.
Costei si chiamava Liliana e il marito Primo o Priamo o
Priapo…non è dato sapere con esattezza, comunque si diceva che fosse un nome
ben rappresentativo del personaggio.
La signora Liliana era donna di buon cuore e spesso invitava
a pranzi luculliani la vorace signorina De Toschi, la quale, non paga di
ingozzarsi di tortellini e piadine al salame, si mangiava con gli occhi pure il
carissimo Priapo.
Accadde poi che la signora Liliana morisse di una leucemia
fulminante.
Da quel momento la signorina De Toschi fu in prima fila a
consolare l’inconsolabile vedovo.
Dopo alcuni mesi la si vide indossare la pelliccia che era
stata della signora Liliana, e poi la collana di turchese, sempre della
defunta, e gli orecchini di corallo, e il collier d’oro bianco e via dicendo.
Quando l’intera eredità della compianta Liliana fu
incamerata in casa De Toschi, escluso il vedovo, la grande storia d’amore finì,
ufficialmente perché “il babbo non voleva”, ma secondo altri perché le doti
priapiche del suddetto Priapo non soddisfacevano abbastanza la pia signorina.
Il terzo grande amore fu per il marito di un'altra sua amica, la maestra Clara Ricci.
Giorgio Ricci, il cui irsutismo ipertricotico denotava una debordante presenza di testosterone nel suo organismo, aveva doti priapiche di cui si narravano leggende oscene.
Il suo stesso figlio Ettore ricordava di averlo visto nudo una volta che faceva il bagno in una tinozza nella penombra del tugurio adibito a lavanderia. Per quanto buio fosse l'ambiente, avrebbe giurato sulla sua stessa testa che i testicoli del vecchio padre fossero grossi come uova di piccione.
L'attempata signorina De Toschi non dimenticava le ore di sollazzo che il vecchio Giorgio Ricci le aveva regalato, ed era sempre pronta a ricambiare il favore.
A parlarle fu la maestra Clara, che le spiegò quando fosse doloroso, per la sua famiglia, l'ostinato rifiuto di Diana Orsini nell'accettare il corteggiamento di Ettore Ricci.
Mariuccia De Toschi annuì vigorosamente, facendo tremolare tutta la pappagorgia, poi sollevò un indice verso il cielo e disse: <<Ci penso io!>>
Giorgio Ricci, il cui irsutismo ipertricotico denotava una debordante presenza di testosterone nel suo organismo, aveva doti priapiche di cui si narravano leggende oscene.
Il suo stesso figlio Ettore ricordava di averlo visto nudo una volta che faceva il bagno in una tinozza nella penombra del tugurio adibito a lavanderia. Per quanto buio fosse l'ambiente, avrebbe giurato sulla sua stessa testa che i testicoli del vecchio padre fossero grossi come uova di piccione.
L'attempata signorina De Toschi non dimenticava le ore di sollazzo che il vecchio Giorgio Ricci le aveva regalato, ed era sempre pronta a ricambiare il favore.
A parlarle fu la maestra Clara, che le spiegò quando fosse doloroso, per la sua famiglia, l'ostinato rifiuto di Diana Orsini nell'accettare il corteggiamento di Ettore Ricci.
Mariuccia De Toschi annuì vigorosamente, facendo tremolare tutta la pappagorgia, poi sollevò un indice verso il cielo e disse: <<Ci penso io!>>
sabato 28 gennaio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 9. Il "prode" Ettore Ricci e i suoi alleati
Ettore Ricci era sinceramente innamorato di Diana Orsini e questo fu, fin dall'inizio, il vero problema.
Se si fosse trattato solo di un'infatuazione, di un capriccio o di un "trofeo di caccia", forse avrebbe anche lasciato perdere. Magari sarebbe riuscito persino a dimenticarla del tutto.
Ma lui era innamorato.
Diana rappresentava tutto ciò di cui lui sentiva il bisogno, ciò che gli mancava.
La bellezza, la raffinatezza, l'educazione, la cultura, il fascino.
Lui era virile, forte, passionale, irascibile, ambizioso, tenace. Sapeva anche essere ironico, ma in maniera ruvida, grezza, insofferente nei confronti del bon ton salottiero. Il galateo gli sembrava una forma intollerabile di effeminatezza. La cultura era per i topi di biblioteca, non per i veri uomini. Il fascino, be', o ce l'hai o non ce l'hai...
Insomma, tutto ciò che gli mancava erano cose che giudicava inappropriate per un uomo e perfette per una donna.
Nel 1935, in Italia, era piuttosto naturale che un uomo la pensasse così.
Oggi per noi tutto questo è inconcepibile, ma forse ha ragione Clint Eastwood nel dire che siamo una "pussy generation",
La ritrosia di Diana, che si rifiutava persino di parlargli, era qualcosa di incomprensibile ai suoi occhi, ma non faceva altro che acuire il suo desiderio, perché ciò che ognuno desidera di più è quello che non può avere. Il frutto proibito.
Ma Ettore, che non era affatto uno stupido, anzi, aveva una certa sagacia istintiva, come quella di un segugio o di un cane da tartufo, aveva individuato i deboli di Diana e il modo per comunicare con lei.
Diana infatti riponeva troppa fiducia nella governante di Villa Orsini, la signora Ida Braghiri, una matrona talmente sicura di sé da far soggezione persino al Conte e alla Contessa.
Ida Braghiri era a sua volta moglie di Michele Braghiri, un fattore furbo e astuto, che era riuscito a diventare amministratore agricolo del Feudo Orsini e nel contempo informatore privilegiato della famiglia Ricci.
Ma c'era un'altra persona che godeva della fiducia di Diana, e cioè la cugina di suo padre, la professoressa Mariuccia De Toschi, che era una Orsini per parte di madre, ed era anche un'ottima amica della maestra Clara Ricci, madre di Ettore.
Poiché Ida Braghiri e Mariuccia De Toschi erano due persone completamente diverse tra loro, Ettore Ricci sapeva che andavano contattate ognuna a modo suo.
Per quanto riguardava la governante Ida Braghiri, Ettore Ricci decise di parlare prima con suo marito Michele.
Quest'ultimo era un personaggio molto particolare.
Anche lui aveva cominciato dal niente, ma dietro alla sua carriera c'era la famiglia Ricci, e questo all'insaputa di tutti, in modo particolare della famiglia Orsini.
Michele Braghiri un uomo estremamente vanitoso e un donnaiolo impenitente.
Queste sue caratteristiche lo resero facilmente corruttibile: per pagarsi i vestiti, gli orologi, le scarpe, il barbiere tutti i giorni, i profumi, le lacche, circoli ricreativi, automobili e naturalmente tutto ciò che serviva per corteggiare le donne o anche solo per accedere a bordelli esclusivi, aveva bisogno di molti soldi e li trovò presso la famiglia Ricci.
Il vecchio Giorgio Ricci fu abile nel solleticare le ambizioni del vanesio Michele Braghiri e della sua orgogliosissima moglie.
Per questo, nel momento in cui le ipoteche sul Feudo Orsini garantirono alla famiglia Ricci una pressoché totale influenza sulle decisioni del Conte, quest'ultimo nominò Michele Braghiri amministratore delle terre e sua moglie Ida governante della Villa.
Quando Michele Braghiri fu convocato da Ettore Ricci, sapeva già il motivo dell'incontro.
Il prode Ettore dichiarò, senza giri di parole, che:
<<Tua moglie ha la fiducia di Diana Orsini, il che mostra il punto debole della contessina e cioè l'ingenuità. Ida deve solo dirle, ogni tanto, come per caso, alcune parole che ora io ti riferirò.
In particolare deve chiedersi cosa accadrà ai fratelli più piccoli di Diana quando la famiglia si ritroverà sul lastrico.
Deve buttare là l'idea che in condizioni difficili è necessario un uomo forte per rimettere le cose in sesto, ma non deve fare assolutamente il mio nome, nemmeno se richiesta. A questo penserà la professoressa De Toschi>>
Simbolismo dell'Occhio Onniveggente. Illuminati e Nuovo Ordine Mondiale.
L'Occhio che Tutto Vede, l'Occhio Onniveggente o Occhio della Provvidenza è un simbolo che si manifesta come triangolo raggiante e caricato di un occhio.
Descrizione
Viene rappresentato come un occhio spesso circondato da raggi di luce o da gloria ed è solitamente inscritto in un triangolo. È generalmente interpretato come essere l'occhio di Dio protettore dell'umanità (o come divina provvidenza).[1]
Nell'era moderna, l'uso più notevole dell'occhio della provvidenza è nel rovescio dello Stemma degli Stati Uniti d'America, che appare anche sulle banconote da un dollaro statunitense.
Utilizzo
Araldica
L'occhio della provvidenza appare in molti emblemi e sigilli ufficiali tra cui:
- nello stemma di Brasłaŭ, in Bielorussia;
- nei stemmi e distintivi di diverse fratellanze, tra cui Delta Tau Delta, Phi Kappa Psi, Phi Delta Theta e Delta Kappa Epsilon;
- nello stemma dell'Università del Mississippi;
- nello stemma dell'Università del Cile.
Massoneria
Lo stesso argomento in dettaglio: Massoneria. |
Oggigiorno, l'occhio della Provvidenza è generalmente associato alla Massoneria. L'occhio compare nella iconografia standard dei massoni nel 1797, con la pubblicazione del Freemasons Monitor di Thomas Smith Webb. Qui rappresenta l'occhio che tutto vede di Dio ed è un monito al fatto che ogni pensiero e azione di un massone sono osservati da Dio (a cui ci si riferisce nella Massoneria come Grande Architetto dell'Universo[3]). Tipicamente, l'occhio della Provvidenza massonico è posto sopra a una gloria semicircolare ed è, talvolta, inscritto in un triangolo.
Numismatica
L'occhio appare:
- nella banconota da un dollaro degli Stati Uniti - come parte dello stemma nazionale;
- nella banconota da 50 corone estoni - come parte della chiesa di Käina;
- nella banconota da 500 grivnie ucraine.
Stati Uniti d'America
Lo stesso argomento in dettaglio: Stemma degli Stati Uniti d'America. |
Nel 1782 venne adottato nel rovescio dello Stemma degli Stati Uniti d'America. È stato inizialmente suggerito come elemento per lo stemma nel 1776 nella prima delle tre commissioni per l'ideazione dell'emblema, come suggerito dell'artista Pierre Eugene du Simitiere.[4]
Sullo stemma, l'occhio è circondato dai motti Annuit Cœptis, ovvero "Egli approva [le nostre] decisioni", e Novus Ordo Seclorum, ovvero "Nuovo Ordine delle Epoche". L'occhio è posto sopra ad una piramide incompleta con tredici gradoni, rappresentanti le tredici colonie originarie e la crescita futura della nazione. Sul gradone più basso viene scritto 1776 in numeri romani. Il simbolismo sostiene che l'Occhio, ovvero Dio, desidera la prosperità degli Stati Uniti d'America.
Considerazioni popolari fra gli interessati di teoria del complotto affermano che l'occhio della Provvidenza nello Stemma degli Stati Uniti d'America indica l'influenza della Massoneria nella fondazione degli Stati Uniti, cosa che è stata parodiata nel film Disney del 2004 Il mistero dei Templari. Comunque, l'uso massonico comune dell'occhio è successivo di 14 anni alla creazione dello stemma. Inoltre, nelle varie commissioni per il disegno dello stemma, solo Benjamin Franklin era massone (e le sue idee non furono approvate)[5].[6] Infine, molte organizzazioni massoniche hanno esplicitamente negato ogni connessione alla creazione dello stemma.[7][8]
Forse a causa del suo uso nello stemma nazionale, l'occhio è presente in diversi stemmi e loghi americani, come nello Stemma del Colorado o in quello della città di Kenosha.[9] È apparso nel logo originale dell'Information Awareness Office del DARPA.
Apparizione in opere artistiche
- Nella pubblicazione originale della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, simile all'iconografia dei Dieci Comandamenti.
- Nella copertina della Costituzione serba del 1835.
- Nella Cattedrale di Kazan' a San Pietroburgo, in Russia.
- Nella facciata della Piccola Casa della Divina Provvidenza, fondata a Torino da San Giuseppe Benedetto Cottolengo.
- Nelle insegne della Guards Division britannica creata nel 1915.
- Nel logo della Steve Jackson Games.
- Nello show televisivo "Then Came Bronson", il simbolo appare su un serbatoio di una motocicletta.
- Nello show televisivo "Gravity Falls", il personaggio di Bill Cipher è ispirato all'occhio della provvidenza
Note
- ^ L'occhio come simbolo cristiano
- ^ Wörterbuch der ägyptischen Sprache 1, 268.13
- ^ Massoneria e l'occhio che tutto vede - dal sito della Grande Loggia della British Columbia e dello Yukon
- ^ Lo stemma degli Stati Uniti, pubblicato dal US Dept. of State
- ^ Massoni nel primo comitato, su greatseal.com. URL consultato il 27 luglio 2015.
- ^ Progetto originale di Franklin, su greatseal.com. URL consultato il 27 luglio 2015.
- ^ Grand Lodge of British Columbia and Yukon, Anti-massoneria FAQ
- ^ Pietre-Stones Review of Freemasonry, Il dollaro "massonico": verità o commedia? di W.Bro. David Barrett
- ^ Kenosha seal, kenowi.com.
Bibliografia
- Antonio Manno, Vocabolario araldico ufficiale, edito a Roma nel 1907.
Voci correlate
venerdì 27 gennaio 2017
L'Angelus di J.F. Millet
L'Angelus (L'Angélus) è un dipinto a olio su tela (55x66 cm) di Jean-François Millet, realizzato nel 1858-1859 e conservato nel Museo d'Orsay di Parigi.
L'opera, una delle più note di Millet, raffigura una coppia di contadini che interrompono il duro lavoro dei campi al suono delle campane che annunciano l'Angelus, mostrati nella loro devozione, intenti nella preghiera.
«Angelus» (per esteso Angelus Domini) è il nome dato al rintocco delle campane che, tre volte al giorno, invitano i fedeli a recitare una devozione in ricordo del mistero perenne dell'Incarnazione.[1] È, per l'appunto, quello che stanno facendo i due contadini ritratti nel dipinto, che al suono delle campane della chiesa di Chailly-en-Bière, appena accennata sullo sfondo, hanno sospeso per un attimo la raccolta delle patate e si sono raccolti silenziosamente in preghiera; abbandonati gli strumenti di lavoro (la carriola con i sacchi sopra, il rastrello, il cesto pieno di verdure), entrambi sono completamente assorti nell'orazione, tanto che presentano il capo chino e le mani giunte al petto.[2]
Mostrandosi assai sensibile all'influenza di Jean-Baptiste-Siméon Chardin e dei maestri olandesi del Seicento, il pennello di Millet ricolma L'Angelus di una solennità grave seppure sommessa, resa con la monumentalità dei due contadini (disegnati con un tratto vigoroso e sintetico), l'immobilità assorta di questi ultimi, la visione dal basso e la sapiente sintesi delle forme.[2]
In alto a destra, infine, vola lontanissimo uno stormo di rondini: la presenza dei volatili, ai margini del quadro, e l'abbigliamento dei due agricoltori suggeriscono che la scena è ambientata in una stagione calda, presumibilmente estate o primavera.[3]
Storia del dipinto
Commissionata dal magnate americano Thomas G. Appleton, L'Angelus attinge da uno spunto ispiratore decisamente autobiografico. All'origine del dipinto, infatti, non vi è un lavoro en plein air, bensì un ricordo di Millet della sua infanzia in Normandia:
(FR)
« L'Angélus est un tableau que j'ai fait en pensant comment, en travaillant autrefois dans les champs, ma grand-mère ne manquait pas, en entendant sonner la cloche, de nous faire arrêter notre besogne pour dire l'angélus pour ces pauvres morts »
| (IT)
« L'Angelus è un quadro che ho dipinto ricordando i tempi in cui lavoravamo nei campi e mia nonna, ogni volta che sentiva il rintocco della campana, ci faceva smettere per recitare l'angelus in memoria dei poveri defunti »
|
(Jean-François Millet, 1865[4]) |
Lo scopo dell'artista, dunque, non era quello di esaltare un qualsivoglia impulso religioso (egli non era neanche un praticante), bensì di illustrare con la pittura le fasi che segnano periodicamente lo scorrere della vita agreste, scegliendo di raffigurare il momento del riposo. In ogni caso, il dipinto - inizialmente intitolato Preghiera per il raccolto di patate - venne esposto al pubblico per la prima volta nel 1865; ottenne uno sfolgorante successo nell'Ottocento borghese, che preferiva i suoi toni idilliaci ed arcadici rispetto al contenuto apertamente polemico di altre opere realiste, quali Le spigolatrici dello stesso Millet o Gli spaccapietre di Courbet.[5] Dopo la morte di Millet, nel 1875, L'Angelus fu venduto a diversi collezionisti, fino a quando non fu riacquistato dallo Stato francese per un prezzo di 800 000 franchi in oro.
Nel 1910 L'Angelus entrò a far parte delle collezioni del museo del Louvre, che già tentò di acquistarlo nel 1889; dopo esser stato sfregiato da un folle nel 1932, nel 1986 il dipinto è stato trasferito nel museo d'Orsay, dov'è tuttora esposto.
Retaggio
L'Angelus ha rappresentato un riferimento iconografico imprescindibile per moltissimi grandi artisti dell'Ottocento e del Novecento, primi tra tutti Vincent van Gogh e Salvador Dalì.
L'Angelus di Van Gogh
Van Gogh guardò l'opera con notevole interesse, tanto che la riprodusse in un disegno realizzato a matita, acquerello e gessetto degli esordi, denominato per l'appunto L'Angelus. Il giovane Vincent qui si cimentò in ardite contaminazioni, che rivelano un'intensa forza espressiva ed un tratto energico che diventeranno poi peculiari delle tele della sua maturità.[6]
L'ossessione di Salvador Dalì
Se per Van Gogh L'Angelus è stato un riferimento per ragioni puntualmente raffigurative, lo stesso non si può dire per il surrealista spagnolo Salvador Dalì. Esposto al dipinto sin dalla fanciullezza - una copia dell'Angelus era appesa in una parete della sua scuola elementare[7] - Dalì ne rimase talmente incantato da farne l'oggetto di una febbrile indagine. Al quadro di Millet egli dedicò addirittura un libro, Il tragico mito dell'Angelus di Millet, dove scrisse:[8]
« Nel giugno 1932 si presenta d'improvviso al mio spirito, senza che alcun ricordo recente né associazione cosciente possa darne un'immediata spiegazione, l'immagine dell'Angelus di Millet. Tale immagine costituisce una rappresentazione visiva nettissima e a colori. È pressoché istantanea e non dà seguito ad altre immagini. Ne sono grandemente impressionato, grandemente turbato, poiché, nonostante che nella mia visione di tale immagine tutto "corrisponda" esattamente alle riproduzioni del quadro da me conosciute, essa "mi appare" nondimeno assolutamente modificata e carica di una tale intenzionalità latente che l''Angelus di Millet diventa "d'improvviso" per me l'opera pittorica più inquietante, più enigmatica, più densa, più ricca di pensieri inconsci che sia mai esistita » |
In questo libro Dalì espresse la propria tesi secondo cui l'opera non raffigurava affatto un momento di preghiera serale, bensì la veglia sulla bara di un bambino. Questa transizione da «quadro idillico e religioso [a] un'inquietante e perversa scena d'infanticidio»,[9] a giudizio di Dalì, è avallata dalla presenza in sottotraccia di una piccola bara, poi eliminata in seguito a un pentimento in corso d'opera. Per suffragare la propria tesi, nel 1963 egli chiese ed ottenne un'analisi ai raggi X dell'opera presso il Louvre, da cui emerse la presenza sottostante di una figura rettangolare più volte ricoperta dal colore, che effettivamente somiglia alla bara di un piccolo defunto. Entusiasta della scoperta, Dalì realizzò anche diverse opere sul tema dell'Angelus; malgrado ciò, col succedersi degli anni la sua idea godette sempre di più di cattiva fama, fino ad essere considerata soltanto una delle sue vivide suggestioni.[10]
Note
- ^ angelus, in Vocabolario on line, Treccani. URL consultato il 28 giugno 2016.
- ^ a b A. Cocchi, L'Angelus, Geometrie Fluide. URL consultato il 28 giugno 2016.
- ^ Elisa Giovinazzo, "L'angelus" (Jean François Millet) 1859, in Tandem, TesiOnline. URL consultato il 28 giugno 2016.
- ^ L'Angelus, Musée d'Orsay, 2006.
- ^ Francesco Morante, L'angelus, francescomorante.it. URL consultato il 28 giugno 2016.
- ^ A. Cocchi, L'Angelus [di van Gogh], Geometrie fluide. URL consultato il 28 giugno 2016.
- ^ (EN) ARCHEOLOGICAL REMINISCENCE OF MILLET’S “ANGELUS”, Museo Dalí.
- ^ Il mito tragico dell'Angelus di Millet, Google Libri.
- ^ Commento di Francesco Poli su La Stampa: Gennaro Stammati, Le varie opere di Dalì sui temi di Millet, lideale.info. URL consultato il 28 giugno 2016.
- ^ Millet – “C’è una piccola bara nascosta nell’Angelus”, StileArte, 31 luglio 2015. URL consultato il 28 giugno 2016.
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