domenica 2 marzo 2014

Ucraina, Crimea e Russia: geopolitica del Mar Nero



L’Ucraina è indipendente dal 1991, dopo aver fatto parte dell’URSS dalla Pace di Riga del 1921, che assegnò Galizia e Volinia alla Polonia di Pilsudski e lasciò il resto come Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina. La Crimea, una fondamentale penisola sul Mar Nero, è parte del territorio ucraino dal 1954, quando Nikita Krushev la donò all’Ucraina nonostante la sua prevalenza etnica russa, dando, de facto, alla Russia, l’autorità di lasciare la propria flotta nel porto di Sebastopoli, fondamentale dal punto di vista strategico. Non a caso, già nella Guerra di Crimea del 1853-1856, conclusasi con la Conferenza di Parigi che sancì la neutralizzazione degli stretti di Bosforo e Dardanelli e la perdita della Russia della regione della Bessarabia, la Crimea assumeva un ruolo fondamentale nello scacchiere geopolitico e militare russo.
Attraverso le mappe fornite dal New York Times è possibile chiarire ulteriormente come queste vicende storiche si sono tradotte in una eterogenia pronunciata delle etnie che convivono nel paese.
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Con il colore arancione sono evidenziate le regioni di prevalenza ucraina, che stanno appoggiando la rivolta nel paese, con il blu quelle con prevalenza etnica russa, come appunto la Crimea ed altre regioni del sud est che, invece, appoggiano le fazioni al potere e l’influenza russa sul paese. Tale influenza è per lo più generata dalla fitta rete di gasdotti che, partendo da Russia e Bielorussia, attraversano il paese fornendo gas non solo a Kiev ma a molti paesi dell’Unione Europea, come mostra la mappa successiva.
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Cosa sta accadendo?
Il governo ucraino è presieduto da Serhiy Arbuzov dal 2010 e sostiene il Presidente ViktorYanukovych, esponente della matrice filo-russa del paese. Al partito al governo si oppongono tre partiti principali: Alleanza Democratica Ucraina per la Riforma (40 seggi)  guidata dall’ex campione del mondo di pugilato Vitali Klitschko, Unione Pan-Ucraina “Libertà” (37 seggi) di matrice nazionalista e manifestamente anti-russo e Unione Pan-Ucraina “Patria” (101 seggi) della celebre Yulia Timoshenko, filo-euopesita. Questi hanno appoggiato le rivolte nel paese che, invece, sono state osteggiate da gruppi militari filo-governativi, che si dice finanziati direttamente da Mosca. Il movimento anti-governativo nasce dal malessere dell’opinione pubblica in merito al sistema clientelare messo in piedi dal governo che, in questo modo, ha capillarizzato il suo controllo sul territorio avvalendosi di una politica estrema e radicale di Spoil System nella gestione di appalti e nomine nel settore amministrativo. Attualmente il paese, dunque, si trova spaccato tra filo-russi, che intendono mantenere il controllo del paese o sono comunque spaventati dall’eventualità di emarginazione dal settore pubblico, e dei filo-europeisti che intendono staccarsi dal controllo russo, fondamentale dal punto di vista energetico e in considerazione della popolazione mista del paese, dove anche la minoranza dei Tartari contrasta Mosca, memore delle deportazioni staliniane. In questo contesto fondamentale è la Crimea che, come visto, è prevalentemente abitata da russi ed è attualmente sede di uno dei maggiori distaccamenti dellaflotta russa con circa 60 navi d’istanza a Sabastopoli, con un permesso attualmente prorogato dal 2017 al 2042.  Dopo l’avallo del Senato alla proposta di Putin di occupare la regione, sono stati inviati da Mosca circa 6000 soldati che, secondo fonti indipendenti non altrettanto attendibili, potrebbero aver raggiunto, invece, già il numero di oltre 25.000 unità. Il Consiglio di Sicurezzadelle Nazioni Unite si è riunito sabato, senza giungere ad alcuna conclusione decisiva in merito alla delicata questione. Come sottolineato dal Ministro degli Esteri inglese, dal portavoce della diplomazia dell’Unione Europea e dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, l’azione consiste in una chiara violazione della sovranità territoriale ucraina, se non in un atto di aggressione ai sensi dell’art.2 par.4 della Carta dell’ONU. La Crimea ha autoproclamato un incremento del suo regime di autonomia e le Camere di Mosca stanno valutando la previsione di un trattato di annessione (assolutamente nulla dal punto di vista del diritto internazionale). L’Ucraina detiene un debito di oltre 1.55 miliardi $ con la sola Gazprom e la questione è da sempre uno dei punti chiave delle frizioni russo-ucraine. Nel 2006, infatti, proprio a causa di un ritardo nei pagamenti delle forniture di gas, Mosca decise di “chiudere i rubinetti” verso Kiev, con devastanti effetti per le forniture di molti paesi europei, tra cui l’Italia, che hanno dipendenza fondamentale dallo stream ucraino.
Putin, dunque, sembra sfruttare i disordini per favorire la riapertura di una questione mai rimarginatasi sul territorio ucraino come quella della secessione della Crimea, al fine di mantenere salda la sua morsa sull’Europa che ha proprio nella pedina ucraina uno dei punti fondamentali dello scacchiere, a causa delle questioni energetiche appena accennate. D’altro canto, l’Europa, a braccetto con gli USA, difende la posizione dell’etnia ucraina, chiaramente attratta dalle forme di tutela dei diritti umani e dalle libertà economiche offerte dall’eventuale adesione all’UE. Sarà guerra? Probabilmente no ( o meglio ci auguriamo non sia effettivamente auspicabile), ma in ogni caso, la questione mette in luce l’antico problema russo della costante ricerca di uno sbocco sui “mari caldi” per fini commerciali, l’attuale insufficienza europea dal punto di vista energetico e la rivalità mai cessata tra l’occidentalismo delle libertà civili e del liberismo e il suo riflesso speculare dell’ex Unione Sovietica.
l’Ucraina è una pedina di un gioco più grande: per i russi è una irrinunciabile componente della sua identità e del progetto di Unione Euroasiatica. Per gli Usa è stata probabilmente una buona occasione per mettere in imbarazzo sia Putin (reduce da un 2013 pieno di successi diplomatici, a partire dalla Siria, e che sia apprestava a celebrare il suo trionfo alle Olimpiadi di Sochi), sia l’Unione Europea. Come già in passato gli Usa avevano caldeggiato l’adesione della Turchia alla UE, con l’obiettivo di espanderla e di diluirla, così oggi potrebbero vedere nell’Ucraina - povera, controversa, concorrenziale in agricoltura, ma enorme e troppo grossa da infrastrutturare - il candidato ideale per indebolire definitivamente il progetto europeo.

Del resto, la crisi ucraina ha già dimostrato la debolezza e l’inconsistenza della cosiddetta politica estera comune europea. L’intera faccenda dell’accordo di associazione è stata appaltata agli Stati membri che per le ragioni dette sopra avevano maggiori legami con l’Ucraina (Polonia, Svezia e Lituania), mentre l’accordo tra Yanukovich e l’opposizione è stato mediato dai ministri degli esteri di Germania, Francia e Polonia, scavalcando la poco apprezzata baronessa Ashton, nominalmente ministro degli Esteri dell’Unione Europea, che comunque a Kiev ha avuto finalmente un minuto di gloria (“la nuova Caterina la Grande” è stata definita dai quotidiani locali, con notevole esagerazione).

L'Italia - che è il secondo partner commerciale dell'Ucraina, il primo importatore nell'Europa Occidentale, che ha legami storici con il paese (in Crimea sono le grandi fortezze veneziane e genovesi, e un'antica comunità italiana), che ospita una comunità ucraina di 300 mila persone - come al solito era assente dalla scena.

L’Europa, a voler essere benevoli, ha dimostrato una forte confusione quanto agli obiettivi da raggiungere, scarsa conoscenza del terreno e della storia (per esempio identificando in Julja Timoshenko un leader credibile e unificante), contraddittorietà nelle sue molteplici espressioni, tanto che il vicesegretario di Stato Usa Viktoria Nuland è stata intercettata dai russi mentre commentava “fuck the Eu!”.

Sostanzialmente la Ue ha la grave colpa di aver destabilizzato il paese senza avere una exit strategy e senza aver calcolato la particolare suscettibilità russa. In un mondo ancora dominato dall’hard power, gli europei hanno confidato troppo nel linguaggio del soft power, fatto di democrazia e rule of law, ma senza offrire mai la prospettiva della full membership. L’Unione Europea, del resto, già con 28 Stati membri è ingestibile, e il referendum svizzero ha segnalato una enlargement fatigue derivante da una politica di frontiere troppo aperte - un sentimento che probabilmente sarebbe condiviso anche dagli altri cittadini europei, se solo fossero lasciati liberi di esprimersi.

Solo la Russia finora si era offerta di pagare il debito pubblico ucraino - che è stato appena declassato da Standards and Poor’s a CCC, ben al di sotto di quello greco, ed è quindi pericolosamente sull’orlo del default. Questo nonostante il pil del paese cresca all’invidiabile tasso del 2% annuo.

Insomma, l’Ucraina è in mezzo ad attori che non sanno esattamente cosa farne, e che non vogliono pagarne il conto.

Gli eventi di questi giorni si susseguono concitati, ed è difficile dire che cosa succederà. Anche se Yanukovich (che mentre scrivo ha abbandonato la capitale) si dimettesse, non si può ignorare che egli rappresenta una parte importante del paese che non ha minimamente partecipato agli scontri. Yanukovich non è un dittatore, ma un presidente eletto, anche se con parecchi brogli. Finito lui, la sua constituency e gli oligarchi troveranno qualcun altro.

Personalmente non credo allo scenario estremo, quello di una completa scissione del paese. Meno improbabile è il distacco di alcune parti, come la Repubblica autonoma di Crimea, che è in Ucraina solo perché regalata da Chruščëv, che è unita al resto dell’Ucraina da uno stretto istmo (e potrebbe invece essere facilmente unita alla Russia da un ponte sopra lo stretto di Kerch) e che ha un’importanza fondamentale per la Russia, ospitando la grande base della flotta meridionale a Sebastopoli. Uno scenario molto simile a quello delle vicine repubbliche caucasiche dell’Abhazia (molto vicina alla sede olimpica di Sochi) e dell’Ossezia, resesi indipendenti dalla Georgia, sotto protettorato militare russo.

L’Ucraina intanto rischia di diventare preda delle potenze emergenti. Il paese è sostanzialmente un'enorme pianura agricola, percorsa da fiumi grandissimi, con un terzo del miglior terreno fertile del mondo, del tutto sottoutilizzato (non ho mai visto moderni macchinari agricoli). Già 100 mila ettari sono diventati l’anno scorsoproprietà di una corporation cinese e dovrebbero diventare nei prossimi anni 3 milioni: si tratta del 5% del territorio dell’intero paese. Non a caso Yanukovich dopo la Russia ha visitato anche la Cina.

La Cina (ed altri paesi che hanno abbondanza di valuta e poco terreno coltivabile e acqua, come i paesi arabi) è interessata a investire in acquisizioni territoriali, anche per esportarvi manodopera in eccedenza. È il fenomeno del cosiddetto “land grabbing”, che finora ha riguardato l’Africa. Agli occhi dell’attuale oligarchia ucraina, il pregio della politica estera cinese è di non mettere mai in discussione i regimi politici con cui commercia. Un atteggiamento ben più conciliante rispetto alle pesanticonditionalities che pone l’Unione Europea.

Insomma, mentre Russia e Occidente ripetono vecchi scenari figli della guerra fredda, il terzo incomodo fa buoni affari e mette un piede alle porte dell’Europa.


Articolo originariamente pubblicato su MagnificaMente!
(24/02/2014)

Cosa indossavano le attrici che hanno vinto l’Oscar



Da Janet Gaynor a Jennifer Lawrence. Così si vestono le regine del cinema.

l 2 Marzo si tiene l’86esima edizione della cerimonia degli Oscar. Per chi proprio non lo sapesse, si tratta di un premio che rappresenta il maggior riconoscimento cinematografico a livello mondiale, nonché il più antico. Viene infatti assegnato dal 1929 dall’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences, un’organizzazione onoraria fondata nel 1927 in California per sostenere lo sviluppo dell’industria cinematografica nazionale.
A essere premiati sono i film usciti nell’anno solare precedente, e tra questi vengono assegnate 29 statuette più due premi speciali. Ciò che però caratterizza più di tutto la notte degli Oscar è il fatto che per gli ospiti questa serata rappresenta una vetrina utile a sfoggiare gli abiti creati dai migliori stilisti al mondo. Tra i premi più interessanti c’è quello della Migliore Attrice protagonista, che quest’anno verra conferito ad una tra: Sandra Bullock (Gravity), Judi Dench (Philomena), Amy Adams (American Hustle), Meryl Streep (I segreti di Osage County) e Cate Blanchett (Blue Jasmine). Qui di seguito vi mostriamo una curiosa infografica in cui vengono mostrati tutti i modelli degli abiti che indossavano le attrici vincitrici e i nomi degli stilisti che li hanno realizzati.  

La fiamma di Atar. Capitolo 1. Luca Bosco



La sua indole era sempre stata simile a quella di un gatto.
Era capace di empatia e simpatia,  e conosceva bene le regole del gioco, ma non era stato mai realmente addomesticabile.



Non era né leader, né gregario, né ribelle, né emarginato: era libero, e nessuno mai era riuscito a possedere interamente le chiavi del suo cuore.
Aveva imparato a camminare sul crinale sottile tra la contemplazione e il desiderio, apprezzando i doni della quiete, senza disdegnare quelli della passione, una fiamma che era sempre rimasta accesa in lui, anche nei momenti più oscuri.
Non era un uomo di mondo, ma nemmeno un asceta.
Era nato sapendo che c'è un tempo per tutte le cose, e questa era stata sempre la sua salvezza.
Elegante e buffo a seconda delle circostanze, aveva il dono dell'ironia e la capacità di non prendersi mai troppo sul serio.
Cercava di godersi quello che la vita gli offriva, concentrandosi sul momento presente.
Le sue armi erano l'intuizione e la parola, unite però ad una diffidenza di fondo verso l'intero universo.
Dire che fosse cinico sarebbe stata una un'esagerazione. 
Il suo era più che altro un giustificato disincanto, che non aveva nulla a che vedere con i piagnistei dei pessimisti o l'acidità dei frustrati, e si teneva a distanza di sicurezza dalla velleitaria ingenuità degli utopisti e dei fanatici.
Non approvava chi generava illusioni, ma non voleva nemmeno essere lui a disilludere gli altri, ricordando l'ammonimento di Arturo Graf: "Badate, volendo estirpare un'illusione, di non uccidere un'anima".
Vicino alla soglia dei quarant'anni, senza aver combinato nulla di particolarmente significativo, Luca Bosco, aveva siglato col mondo, con la vita (e con la propria coscienza) una specie di tregua, o di armistizio.
Era giunto alla conclusione che i pilastri della saggezza e della salute mentale consistevano nel concentrarsi sul presente, nel fare pace con il passato e nel non preoccuparsi troppo per il futuro.
Facile a dirsi, potrebbero obiettare alcuni, e avrebbero ragione.
Quel tipo di saggezza non è una conquista facile, né mai del tutto definitiva, ma era di sicuro una forma mentis che aiutava a vedere le cose in una prospettiva meno angosciosa, e questa era una attitudine di non poco conto per un uomo costretto a vivere in un contesto dove le sue doti non erano considerate particolarmente utili.
Il contesto, già.
L'Italia degli anni '10 del XXI secolo non era quel che si direbbe un contesto particolarmente esaltate.
Lo stesso concetto di Italia era qualcosa di piuttosto vago.
Conteneva in sé realtà così diverse e contraddittorie da apparire sostanzialmente indefinibile.
E questo il nostro anti-eroe lo sapeva sufficientemente bene.
Era un italiano, qualunque cosa volesse dire questo termine, ma era anche un italianista.
Per i non addetti ai lavori, basti sapere che l'italianistica è lo studio della lingua, della letteratura e più in generale della cultura italiana, ivi compresa la sua storia, la sua geografia e tutte quelle peculiarità che possono essere utili per cercare di definire cosa sia questa fantomatica realtà che ha nome Italia.
C'era stato un tempo, prima che la frenesia del riformismo permanente demolisse quel poco di certezze che ancora rimanevano in quell'angolo di mondo dalla storia plurimillenaria, in cui la laurea in italianistica era chiamata Lettere moderne, per distinguerla da quella in Lettere classiche.
Per tutta una serie di vicissitudini che il nostro anti-eroe si guardava bene dal rivelare, egli era approdato alla laurea magistralis in italianistica pur avendo un'età che gli avrebbe permesso, se la sua vita non  fosse stata così poco lineare, di approdare molti anni prima ad una tradizionale laurea in lettere moderne.
Tirava a campare con un lavoretto part-time sottopagato in una delle tante biblioteche universitarie della Città dai Portici Antichi. Abitava in un umido monolocale al piano terra di un cadente palazzo del centro storico, in zona universitaria. Era di sua proprietà, almeno, (l'unica eredità lasciatagli dai suoi) e lui ne aveva fatto la sua tana, come se fosse una specie di caverna hobbit, cosa di cui era perfettamente consapevole.
A soli dieci anni aveva già letto tutti i romanzi di Tolkien, e senza dubbio al professore di Oxford andava il merito, e forse anche la colpa, di aver fatto amare a Luca Bosco la lettura più di qualsiasi altra cosa al mondo. In particolare la lettura di romanzi fantasy oppure di genere fantastico, che contenessero cioè almeno un piccolo elemento di sovrannaturale.
Il suo interesse per il sovrannaturale andava oltre la letteratura e l'arte. La sua cultura infatti comprendeva buona parte della storia delle religioni, con particolare interesse per l'animismo, i politeismi, i culti misterici, lo gnosticismo, le eresie, l'esoterismo, fino alle sue propaggini novecentesche.
Era lontano, almeno mentalmente, dalle religioni ufficiali e dalla loro ortodossia.
Non accettava l'idea che Dio potesse essere nel contempo buono e onnipotente.
Amava quindi il dualismo zoroastriano e manicheo e le sue sopravvivenze nello gnosticismo e in tutta la letteratura che ne era derivata, così come alle religioni orientali.
Era molto interessato inoltre alla mitologia.
Si trattava di un desiderio di evasione dalla realtà o, come dicevano i critici letterari, di "escapismo", accusa a cui Tolkien stesso aveva risposto con valida efficacia: "Non è la fuga del disertore, ma l'evasione del prigioniero verso la libertà".
Era nata così la simbiosi tra lui e i libri e, giunto ormai "nel mezzo del cammin di nostra vita", riteneva che quella simbiosi gli avesse quantomeno garantito un'esistenza tranquilla, lontana dai pericoli e da quelle spiacevoli complicazioni e avventure che, per dirla con Bilbo Baggins, "facevano far tardi a cena".
Si sbagliava.
Non aveva la minima idea di quanto si stesse sbagliando.


Le ragioni per cui l'Ucraina sud orientale è un territorio russo



Storicamente l'Ucraina non è mai esistita, anzi si può dire che la Russia sia nata a Kiev molto prima che Mosca venisse fondata. Solo in seguito alle invasioni dei Mongoli e dei Turchi i russi di Kiev persero influenza rispetto a quelli del nord, di Novgorod e successivamente della Moscovia.



Nel 1954 il leader sovietico Nikita Krusciov trasferì la provincia di Crimea alla «repubblica sovietica» dell’Ucraina, togliendola alla Russia. Il gesto era solo simbolico perché il territorio restava comunque nell’Urss.
Nel 1991, tuttavia, con il crollo dell’Unione sovietica, la Crimea diventa parte dell’Ucraina


Gli eretici di Gothian. Capitolo 3. I sopravvissuti.




Più che un battesimo, sembrava un funerale.
La Dinastia imperiale Eclionner Vorkidian e le grandi famiglie imparentate, i Fujiwara e gli Alfarian, erano ancora provate dai lutti e dalle defezioni, ed i sopravvissuti non avevano voglia di festeggiare.



Osservavano il neonato, Marvin II, principe della Corona, figlio del defunto principe Arthur e nipote dell'imperatore Marvin I, con uno sguardo dal quale traspariva pietà, più che gioia.
In che oscura e triste famiglia ti è toccato di nascere, piccolo mio.
Questo era il pensiero di Lilieth Vorkidian, bisnonna paterna del neonato e imperatrice madre.
Le assenze si notano di più delle presenze.
L'imperatore era rimasto a Gothian, e così pure la sua seconda moglie, Alice de Bors d'Alfarian, al sesto mese di gravidanza.



I morti sono quelli che si notano di più. Soprattutto quelli che sono morti male. 
Arthur Vorkidian e Mordred Eclionner, che si erano uccisi a vicenda, per non parlare di Elner XI, di Sephir Eclionner, del senatore Sibelius Fujiwara (o Fuscivarian, secondo la dizione successiva al Grande Cataclisma), e di quelli che erano morti prima ancora dell'anno della Primavera di Sangue.
E prima di loro, mia madre lady Ariellyn e mio marito Masrek Eclionner. 
Il suo Masrek... quanti anni erano passati dal giorno in cui l'aveva perduto...
Ma tra i morti ce ne sono alcuni che non sono morti del tutto.
Marigold di Gothian, suo marito il conte Fenrik, i suoi eredi Daemon e Daenerys: chi poteva sapere se erano  definitivamente usciti dai giochi?
Coloro che erano legati in un modo o nell'altro al castello di Gothian, non morivano mai del tutto.



Poi ci sono i vari esiliati...
Ellis e suo nipote Faykan a Seila, nel Continente Occidentale; Irulan a Yuste, in compagnia dell'ex Prefetto del Pretorio e dei suoi fedelissimi.
E infine gli assenti giustificati.
Anakin e sua moglie Helena, i Reggenti dell'Impero Lathear.
Chi rimane dunque? Pochi. Noi pochi. Noi felici pochi, noi manipolo di fratelli...
Oltre a lei e ad Alienor, c'erano la madre del neonato, Eleanor d'Alfarian, regina madre e Reggente del Regno dei Keltar, il suo primo ministro Gwydion l'Arcidruido, fidatissimo amico di Marvin e naturalmente la prima moglie di quest'ultimo, nonna del neonato, la regina Igraine Canmore di Logres, arciduchessa delle Highlands.
Dovremo vegliare sul piccolo Marvin II... 
Era sempre così, nei momenti difficili.
Qualcuno deve vegliare. Qualcuno deve essere presente.



sabato 1 marzo 2014

Le quattro ucraine e le probabilità di secessione


L'Ucraina, che come stato autonomo esiste solo dal 1992, ha sempre mostrato una forte diversità al proprio interno, dovuta al fatto che la parte sud-orientale è stata per secoli nell'ambito dell'Impero russo prima e dell'Unione Sovietica poi, mentre la parte nord-occidentale era suddivisa tra l'impero Austro-Ungarico, il regno di Polonia e in tempi più remoti il Granducato di Lituania.
A rendere esplosiva questa divisione storico-politica è il fatto, di cui non si parlerà mai abbastanza, che per l'Ucraina passano i gasdotti e gli oleodotti che dalla Russia riforniscono l'Europa. 

Crimea, dal regalo di Krusciov alla tensione Mosca-Kiev


Crimea, la mappa

Il caffè previene il diabete e riduce i rischi di cancro, in particolare alla prostata e al fegato



Ottime notizie per chi ama la tazzina. Il caffè non è solo un eccitante. Secondo gli studio si americani, anzi, ha molti vantaggi: migliora la memoria, previene il diabete e riduce i rischi di cancro, in particolare alla prostata e al fegato.
Tra i tanti vantaggi il caffè pare possa infatti ridurre il rischio di carcinoma epatocellulare (HCC), il più comune tra i tipi di cancro del fegato. E' il risultato di uno studio pubblicato dal giornale di chimica inorganica dell'American Chemical Society, realizzato dall'istituto molecolare dell'Università della Borgogna e dell'Università di Groningen.
La stesso risultato era stato raggiunto qualche mese fa dallo studio revisionale, pubblicato sulla rivista Clinical Gastroenterology and Hepatology, condotto dai ricercatori italiani del Dipartimento di Epidemiologia, Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano. I ricercatori, coordinati dal dottor Carlo La Vecchia del Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità, Università degli Studi di Milano, hanno scoperto che l’effetto positivo del caffè sul rischio tumore al fegato potrebbe essere dovuto all’azione preventiva nei confronti del diabete da parte della bevanda. Non è tutto: pare che il caffè, promuova un’azione benefica anche sugli enzimi epatici e nel caso di cirrosi. Insomma, il caffè ti salva la vita...

venerdì 28 febbraio 2014

Oscar 2014: guida ai candidati nella categoria del miglior film


Poster
12 anni schiavoAmerican HustleCaptain PhillipsDallas Buyers ClubGravityLei - Her,NebraskaPhilomena e The Wolf of Wall Street. Sono questi i nove film che la notte di domenica 2 marzo si contenderanno la statuetta più ambita degli 86esimi Academy Awards.(Qui l'elenco completo delle nominations)

Ecco dunque una breve guida ai candidati all'Oscar 2014 nella categoria del miglior film. 

12 anni schiavo 

9 candidature : Miglior film, miglior regista, miglior attore protagonista , miglior attore non protagonista, miglior attrice non protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior montaggio, miglior scenografia, migliori costumi


Stati Uniti, 1841: Solomon Northup è un uomo libero, che vive sereno con la sua famiglia facendo il violinista. Un giorno viene contattato da due impresari, che gli offrono molti soldi per una tournée: ma si tratta di un trucco. Solomon viene drogato, rapito e portato in Louisiana, dove viene venduto come schiavo; fino a quando, 12 anni dopo, riesce finalmente a riappropriarsi della sua identità e della sua libertà.
Da una storia realmente accaduta nasce il terzo film dell'inglese Steve McQueen, dopoHunger Shame; in 12 anni schiavo, però, il regista estremizza i difetti del secondo e dimentica molti pregi del primo. Sotto la sua eleganza formale, all' evidenza di tematiche indubbiamente importanti e (per questo) fagocitanti ogni considerazione al riguardo, 12 anni schiavo è solo l' ultimo in ordine di tempo in un lungo elenco di film eticamente importanti che raccontano la loro storia di soprusi e sofferenze, e dove lo schiavismo sarebbe perfettamente intercambiabile con la Shoah o con la violenza di una dittatura o con qualsiasi altro orrore; e lo fa, come altri hanno fatto,con il chiaro intento di stimolare un' indignazione salottiera, uno scandalo passeggero, e non di perturbare realmente le certezze e la coscienza di chi guarda. 

American Hustle

10 candidature: Miglior film, miglior regista, miglior attore protagonista, miglior attrice protagonista, miglior attore non protagonista, miglior attrice non protagonista, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio, miglior scenografia, migliori costumi
Negli anni '70, il truffatore Irving Rosenfeld (Bale) si trascina in un matrimonio difficile con sua moglie Rosalyn (Lawrence), finché non incontra la bella Sydney (Adams), sua immediata complice e amante. I due sono però fermati da un agente dell'FBI, Richie (Cooper), che per far cadere le accuse chiede la loro collaborazione nell'incastrare il corrotto sindaco di Camden, Carmine Polito (Renner).
Il regista David O. Russell concilia uno stile sopra le righe con una plausibilità filologica e un realismo convincenti. Gli attori sono liberi di abitare i personaggi e di abbandonarvisi, ma si avverte anche che Russell pretende la loro aderenza a un progetto coerente. Il buon lavoro poggia su una visione del mondo non schematica, essendo il film ispirato a una storia vera: come viene detto nei dialoghi, è la "zona grigia" a trionfare sul bianco e sul nero, il mondo degli antieroi dall'etica dubbia ma dalla fedeltà ai propri principi. L'imprevedibilità di American Hustlenon è tanto nei suoi colpi di scena, quanto in una libertà autoriale contagiosa.

Captain Phillips - Attacco in mare aperto

6 candidature: Miglior film, miglior attore non protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior montaggio, miglior montaggio sonoro, miglior missaggio sonoro.
La Maersk Alabama, un nave mercantile in navigazione attorno al Corno d'Africa, viene assaltata da un gruppo di pirati somali. Il capitano della nave, Richard Phillips, dovrà fare di tutto per salvare la nave e il suo equipaggio, cercando un difficilissimo dialogo con la sua controparte somala, il nervoso e disperato Muse.
Nelle mani di Paul Greengrass, un fatto di cronaca raccontato dai media di tutto il mondo diventa l'ennesima riflessione su una geopolitica esplosa e impazzita, dove la cesura dell' 11 settembre continua a generare crepe, ferite e divisioni, dove la presenza globale, opulenta e imperante degli Stati Uniti si scontra con realtà locali diametralmente opposte. Captain Phillipsè vicinissimo per concetto e realizzazione a United 93, e con quello rappresenta forse l 'espressione migliore del cinema di Greengrass fino ad oggi.

Dallas Buyers Club

6 candidature: Miglior film, miglior attore protagonista, miglior attore non protagonista, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio, miglior trucco
Dopo anni in cui girava per le scrivanie di mezza Hollywood finalmente la storia vera del texano Ron Woodroof è diventata un film grazie all'insistenza di Matthew McConaughey, che interpreta questo texano omofobo, rude e intrattabile che negli anni '80 scopre di avere contratto il virus dell'HIV. I medici gli danno pochi mesi di speranza di vita, ma lui non lo accetta e vuole curarsi a modo suo, cercando cure alternative. L'incontro con il transessuale sieropositivo Rayon (Jared Leto) segnerà la sua lotta per la sopravvivenza, ma soprattutto il tempo che gli resta da vivere.
La macchina emotiva di Dallas Buyers Club riesce a smentire il cinico, a emozionare l'arido e a intrattenere l'apatico. Lo fa riuscendo a mescolare in maniera convincente gli ingredienti tipici del cinema di Hollywood. Allora la figura dell'omofobico bifolco texano Ron Woodroof ci colpisce al cuore; senza farne un santino, ma mantenendolo dannatamente pieno di difetti, pian piano diventa impossibile non affezionarsi. Jean-Marc Vallée riesce a divertire, indignare, emozionare, commuoverci, non forzando all'estremo nessuno di questi aspetti.


Gravity

10 candidature: Miglior film, miglior regista, miglior attrice protagonista, miglior colonna sonora, miglior montaggio, miglior scenografia, miglior fotografia, miglior montaggio sonoro, migliori effetti visivi, miglior missaggio sonoro
La brillante dottoressa Ryan Stone è alla sua prima missione spaziale, mentre l'astronauta Matt Kovalsky è all'ultimo volo prima della pensione. Quella che per loro doveva essere una passeggiata spaziale di routine si trasforma in una catastrofe. Lo Shuttle viene distrutto da una scia di rifiuti spaziali e loro si ritrovano soli nell'assordante silenzio dell'universo. Fluttuanti nell'oscurità e privi di qualunque contatto con la Terra non hanno apparentemente alcuna chance di sopravvivere anche per via dell'ossigeno che va esaurendosi.
Diviso in maniera piuttosto evidente ma molto graduale in due parti, legate alla sorte dei protagonisti, Gravity è una sorta di Open Water siderale nella prima, mentre nella seconda quasi un film ascrivibile al recente filone della fantascienza esistenziale, a dispetto di un 'ambientazione orbitante ma tutta contemporanea. Tra le due, nettamente preferibile la prima, nella quale Cuaron attualizza la fantascienza un po' ruvida degli anni Settanta ibridandola con una spettacolarità che solo le tecnologie di oggi possono garantire. Il senso di ansia di fronte al vuoto infinito, la claustrofobia provocata dallo spazio, tengono viva l 'attenzione dello spettatore, fa fare qualche salto sulla sedia e solleticano più di un nervo.

Lei

5 candidature: Miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior colonna sonora, miglior canzone originale, miglior scenografia



Los Angeles, in un futuro non troppo lontano. Theodore, un uomo solitario dal cuore spezzato che si guadagna da vivere scrivendo lettere personali per gli altri, acquista un sistema informatico di nuova generazione progettato per soddisfare tutte le esigenze dell' utente. Il nome della voce del sistema operativo è Samantha, che si dimostra sensibile, profonda e divertente. Il rapporto di Theodore e Samantha crescerà e l' amicizia si trasformerà in amore ma...

Altro che tecnologia e mondo virtuale: il Theodore Twombly di un bravissimo Joaquin Phoenix(e il cognome del personaggio non appare scelto a caso), è infatti la pedina che nelle mani di Spike Jonze è utile a raccontare questioni tutte umane: questioni sentimentali, caratteriali, evolutive nel senso più ampio del termine. Lei è un film che, con una serietà mai pedante, con un 'amarezza mai cupa e con spirito sempre irriverente, parla di maturazioni e illuminazioni, di accettazione e di consapevolezza di sé e del mondo. Della difficoltà enorme insita nella ricerca della felicità. Felicità fatta di carne, carta e cemento, ma anche di spirito e intelletto, dall' equilibrio precario e insondabile.


Nebraska

6 candidature: Miglior film, miglior regista, miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista, miglior sceneggiatura originale, miglior fotografia

Woody Grant è un uomo anziano che esagera con la bottiglia e che crede di aver milioni di dollari grazie ad un concorso-civetta. Decide di mettersi così in viaggio, dal Montana al Nebraska, per ritirare il suo premio. Sua moglie, Kate, è contraria al viaggio, così come lo è suo figlio David: ma alla fine David è costretto a cedere di fronte alla testardaggine del padre e ad accompagnarlo in un viaggio che cambierà il loro rapporto e li porterà a riscoprirsi l'un l'altro.
È un film impeccabile, Nebraska, se per impeccabile significa calcolato col bilancino e realizzato con uno stampino che non ammette sbavature. Risponde a praticamente tutti i requisti richiestigli dal suo pubblico di riferimento: la vecchiaia e la malattia, la famiglia e le sue contraddizioni, la nostalgia per il passato e l' ansia per una vita al termine, il recupero della dimensione di figlio e della figura di un padre. Ma quell 'impeccabilità lì, allora, fa anche rima con prevedibilità.


Philomena

4 candidature: Miglior film, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior colonna sonora



Ex spin doctor della politica britannica, Martin Sixsmith è costretto a tornare alla professione giornalistica e ad occuparsi di casi di cronaca. S 'imbatte così nella storia di Philomena, un 'anziana donna irlandese che cerca di trovare il figlio che era stata costretta a dare in adozione 50 anni prima dalle suore del cui convento viveva fin da giovanissima.
Tratto da una storia vera e perfettamente in bilico tra dramma che ti strappa le lacrime senza essere strappalacrime, e commedia esilarante dotata di battute e tempi impeccabili, Philomenaprocede sicuro e con uno sprezzo del pericolo understated come le interpretazioni di Steve Coogan e di Dame Judi Dench.
Con quella scrittura, con quelle interpretazioni e con quell 'equilibrio di regia che guarda direttamente a un cinema che tutti si lamentano non esistere più, Philomena è un film che avrebbe potuto raccontarti qualsiasi vicenda, e tu te la saresti bevuta con la stessa placida arrendevolezza.


The Wolf of Wall Street

5 candidature: Miglior film, miglior regista, miglior attore protagonista, miglior attore non protagonista, miglior sceneggiatura non originale



Fresco d'assunzione come broker presso un'importante agenzia di Wall Street, Jordan Belfort rimane senza lavoro dopo il lunedì nero del 1987. Caparbio e intelligente, Jordan metterà su in breve tempo un'agenzia tutta sua, assistito da personaggi di dubbia provenienza e utilizzando metodi poco ortodossi e legali. La sua sarà un'ascesa fulminea, che il senso d'onnipotenza e la dipendenza da ogni tipo di droga e di sesso trasformerà in un drammatico crollo.
The Wolf of Wall Street non è - se Dio vuole - un film sulla finanza.
Non lo è perché, nonostante vada ad indagare le radici dell' attuale crisi economica mondiale e della deriva (a)morale del capitalismo, Martin Scorsese mette in chiaro che la sua non è un' analisi sociologica o economica, ma etnologica e antropologica. Jordan, con la sua parabola sbilenca e inquietante, è il più recente tassello del mosaico umanista che il regista italoamericano va costruendo fin dai tempi di Toro scatenato, e forse perfino di Taxi Driver: l' ennesimo personaggio scorsesiano che vive di nevrosi e ossessioni, avido di potere, gloria o denaro, incapace di porre un freno alla sua sempre più evidente autodistruzione.
Se il film, che Scorsese costruisce arditamente spingendo sul pedale del grottesco, cattura il desiderio dell'occhio dello spettatore, non sempre alimenta il suo bisogno d'interrogarsi su quegli anni e quel personaggio.



Geopolitica dell'Iraq



A due mesi di distanza dalle elezioni parlamentari previste in aprile, l’ondata di violenza che ha colpito l'Iraq sta spingendo il paese verso un nuovo conflitto settario.

Secondo i dati di un recente rapporto dell’Onu, il 2013 è stato l'anno più violento dal 2008: eppure, quello da poco iniziato rischia di essere peggio, riportando il paese al terribile biennio 2005-06 quando la violenza confessionale lasciò sul terreno oltre 50 mila vittime. Solo a gennaio, gli attacchi sono stati circa 950, con quasi 1500 vittime: il doppio rispetto a quanto registrato l'anno precedente e il livello più alto dall'aprile 2008.

Gli ultimi dati sono in parte condizionati da quanto sta accadendo nella provincia occidentale di al Anbar, dove da inizio gennaio i militanti dello Stato islamico di Iraq e Siria (Isis) hanno preso il controllo dei maggiori centri provinciali, tra i quali Fallujah e Ramadi, approfittando del malcontento della comunità locale sunnita contro il governo a guida sciita di Nouri al Maliki.

Anbar è la più ampia delle province irachene: si estende verso occidente dai sobborghi di Baghdad ai confini statali con Siria, Giordania e Arabia Saudita. Mosaico di clan e tribù di orientamento sunnita, Anbar è uno storico bastione della confederazione tribale Dulaimi che in passato ha supportato il regime baathista di Saddam Hussein in cambio di una relativa autonomia nella gestione delle rotte commerciali verso occidente.

La composizione etnico-religiosa spiega in parte perché, negli anni dell’invasione statunitense, la regione sia stata teatro di scontri particolarmente cruenti, con buona parte dei Dulami che insorse contro il governo centrale a guida sciita fino all’avvento dei cosiddetti Consigli del risveglio, che avrebbero supportato l’offensiva statunitense contro i militanti jihadisti.

La composizione religiosa spiega inoltre il motivo per cui proprio la provincia di Anbar è diventata uno dei principali focolai del movimento di protesta che ha avuto inizio nel 2012, a seguito della detenzione di alcuni politici sunniti originari della regione, e che persiste ancora oggi dopo essersi esteso gradualmente ad altre aree a prevalenza sunnita del paese, come Diyala e Kirkuk. Il movimento di protesta, largamente pacifico e composto anche da tribù sunnite, chiede una maggiore rappresentanza politica per le proprie comunità che subirono la marginalizzazione della coalizione Iraqiyya operata dal governo Maliki. Nelle elezioni del 2010, la coalizione aveva dato rappresentanza agli iracheni sunniti contribuendo a disinnescare gli effetti delle paventate politiche settarie di Baghdad.

Il governo ha tentato in più occasioni di reprimere questo dissenso, come accaduto nell’aprile 2013 quando le forze di sicurezza lanciarono un raid per sgomberare il campo di protesta di Hawija, nei pressi di Kirkuk, causando la morte di circa 42 manifestanti. Nei giorni successivi, gli scontri tra l’esercito e le milizie sunnite e jihadiste - che tentarono di inserirsi per sfruttare a proprio favore la protesta - causarono circa 300 vittime.

Quanto accaduto a inizio anno ricalca in parte gli eventi del 2013. Ma questa volta il tentativo dell’Isis, che ad al Anbar ha da tempo una delle sue roccaforti, è stato più efficace. L'annuncio, dato a dicembre, di un’imminente offensiva contro i gruppi armati presenti nella provincia venne interpretato dall’establishment politico iracheno come una pericolosa iniziativa dalle venature settarie. Seguì l’ennesimo giro di vite contro i leader della protesta, la rimozione forzata di un campo alla periferia di Ramadi e l’esplodere degli inevitabili scontri tra manifestanti e Forze di sicurezza nei quali persero la vita 6 persone.

La stabilità di al Anbar fu così scossa, offrendo ai miliziani dell'Isis l'opportunità di inserirsi con successo nel caos che ha fatto seguito all'attacco governativo. Il gruppo, evoluzione dell’organizzazione guidata a suo tempo da Abu Musab al Zarqawi, ha evitato lo scontro frontale con le tribù sunnite - ostili sia al governo Maliki sia agli stessi jihadisti - riuscendo in breve tempo a prendere il controllo di postazioni governative e militari da cui sfidare l'esercito iracheno.

Fino a questo momento, il governo Maliki ha preferito non lanciare alcuna offensiva su larga scala, via terra, nell'intento di non alienarsi ulteriormente la comunità sunnita, puntando piuttosto a convincere le tribù locali a espellere i militanti jihadisti come condizione per scongiurare l'intervento dell'esercito. Frattanto, proseguono i bombardamenti e i raid aerei delle Forze armate che hanno permesso ai governativi di riprendere il controllo di Ramadi, senza per questo evitare una dura escalation negli scontri con i militanti dell’Isis.

Nonostante le violenze di al Anbar siano legate a doppio filo con questioni di politica interna e settaria, è indubbio come il fattore-Isis abbia avuto un ruolo di primo piano nel far lievitare il livello delle violenze in Iraq. Dopo alcuni anni in cui il gruppo sembrava aver intrapreso una parabola discendente, il suo coinvolgimento in Siria ha permesso all’organizzazione di estendere il proprio teatro operativo e di attingere a una più ampia base di militanti e armi garantitegli dalla porosità della frontiera tra Iraq e Siria.

L’Isis gode di una popolarità in aumento grazie alla leadership del suo emiro, Abu Bakr al Baghdadi. La nuova stella del movimento jihadista è stata in grado di resistere alla pressione dello stesso leader di al Qaida, Ayman al Zawahiri, il quale ebbe modo di esprimersi in più di un’occasione contro la fusione dell'iracheno Stato islamico di Iraq e di parte del siriano Jabhat al Nusra, da cui sarebbe poi emerso l'Isis. Per questo motivo, la fusione ha finito per creare una delle più profonde fratture che il panorama jihadista abbia mai conosciuto nel cuore del Medio Oriente.

Il gruppo di al Baghdadi è comunque destinato a rimanere un polo di riferimento per i jihadisti del Levante, forte del suo messaggio di protettore dei sunniti in Iraq, in Siria e più di recente anche in Libano, contro quella che definisce "l’oppressione dei regimi safavidi regionali". Il nuovo ruolo regionale dell’Isis non implica una varuazione nelle sue priorità: nonostante aspiri a creare uno Stato islamico in grado di copriregeograficamente tutto il Levante, questa spinta parte prevalentemente dall’Iraq. La Siria garantisce al momento un retrovia strategico grazie al corridoio rappresentato per l’appunto da al-Anbar.

In Siria, Isis è impegnato nella guerra contro l’Esercito di Damasco - e in parte contro le brigate islamiste contrarie alla sua azione - supportata da una strategia di conquista e amministrazione del territorio che in Iraq solo nella provincia di al-Anbar ha di recente trovato una replica parziale. Nello stesso Iraq, il gruppo ha soprattutto lanciato una sfida diretta al governo centrale, con una campagna insurrezionale in costante aumento dalla fine del 2011. Nonostante si sia concentrata soprattutto nelle province occidentali a maggioranza sunnita, come Ninewa, Salaheddine e al Anbar, il centro nevralgico delle operazioni continua a essere la provincia di Baghdad e altri distretti provinciali dove la presenza sciita è comunque alta.

L'Isis intende colpire i centri del potere iracheno e della comunità sciita, dimostrando la propria capacità nel violare anche le aree più protette della capitale e l’incapacità del governo nel garantire la sicurezza anche dove la presenza dei militari è più densa. L’assalto contro il ministero dei Trasporti di Baghdad (fra fine gennaio) e la serie di attentati nella green zone della capitale (e inizio febbraio) sono una chiara dimostrazione delle capacità operative del gruppo e dalla debolezza dell’apparato della sicurezza iracheno.

Nonostante l’Isis rappresenti la principale minaccia alla stabilità irachena, l’emergere di nuovi e vecchi elementi insurrezionali ha aggravato la prospettiva di un conflitto settario. Gruppi come il neo-baathista Naqshbandia army hanno già iniziato ad attrarre membri della comunità sunnita desiderosi di abbandonare la protesta di piazza per l’attività insurrezionale, mentre gruppi emersi negli anni della guerra civile come l’Islamic army, Hamas Iraq, le Brigate rivoluzionarie 1920 e il Mujaheddin-e Khalq sarebbero tornati attivi nella provincia di al Anbar.

Nelle ultime settimane, sul fronte sciita, membri dell’Asaib Ahl al Haq, brigata che si ritiene sostenuta dall’Iran e che ebbe un ruolo di primo piano ai tempi dell'invasione Usa, sono tornati a mobilitare le proprie forze in chiave anti-Isis per rispondere alla serie di attentati contro le aree sciite del paese. Secondo fonti statunitensi anche altre milizie sciite, come la Badr organization o il Kataib Hezbollah, avrebbero iniziato a operare con il beneplacito delle forze di sicurezza.

Questo quadro rischia dunque di polarizzare ulteriormente le divisioniconfessionali dell’Iraq in un momento chiave della sua transizione politica, proiettando definitivamente anche Baghdad nell’aperta contrapposizione tra sunniti e sciiti che sta infiammando gran parte del Levante.

da Limes, Per approfondire: Dieci anni dopo, l'Iraq non esiste
(27/02/2014)

Cambiamento climatico e conflitti di potere in Africa



Il cambiamento climatico è uno dei fondamentali fattori di qualsiasi analisi geopolitica sul mondo di oggi. Il riscaldamento dell’atmosfera prodotto dalla concentrazione dell’anidride carbonica (gas serra), che nella seconda metà di questo secolo (fra 2050 e 2070) sarà doppia rispetto al livello toccato prima della rivoluzione industriale (560 parti per milione contro le 280 di allora), è infatti un macrofenomeno destinato a incidere su tutti gli aspetti della vita associata, non escluse le strutture istituzionali e politiche.

Non si possono capire i conflitti di potere attuali senza considerare quanto siano influenzati dai mutamenti nella configurazione geofisica dei territori prodotti dall’innalzamento delle temperature e dalle conseguenze sociali e politiche da esso prodotte. Le quali sono molto diverse a seconda degli spazi geografici su cui impattano. Insomma, se il riscaldamento è un fenomeno globale, i suoi effetti sono molto specifici e variati. Ma insieme a questa diversità bisogna considerare, nella valutazione geopolitica del cambiamento climatico, le peculiarità di continenti e nazioni diverse, anche sotto il profilo sociale ed economico.

Prendiamo per esempio l’Africa. Qui il riscaldamento dell’atmosfera significa accelerare la desertificazione (vedi il report Unesco con le mappe di Laura Canali per Connect4Climate). Questo vuol dire più fame, più povertà, più migrazioni alla ricerca di regioni meno ostili alla vita umana. Il paradosso è che a soffrire di più è un continente che produce emissioni di gas serra – fonte primaria del cambiamento climatico – relativamente modeste. Le emissioni pro capite in Africa nel 2008 (stime più recenti) sono il triplo del 1950, ma appena il 6,6% di quelle registrate in Nordamerica.

Un altro esempio sono le isole e gli arcipelaghi particolarmente esposti all’innalzamento del livello delle acque marine – altro effetto del riscaldamento dell’atmosfera. Un evento che sta letteralmente cambiando la faccia del pianeta. Si consideri solo che l’innalzamento del livello dei mari nel decennio 2001-2010 è stato di 3 millimetri all’anno, ossia il doppio della tendenza osservata nel Novecento, quando si trattava di 1,6 millimetri/anno. Restando all’Africa, i delta del Nilo e del Niger sono direttamente minacciati dalla penetrazione di acqua salata. Con effetti disastrosi, anzitutto, sulle economie di due fra i massimi paesi del continente, Egitto e Nigeria.

Ci sono poi i fenomeni climatici estremi, visibili ormai in tutto il mondo, Occidente sviluppato compreso. Nelle più povere regioni dell’Africa subsahariana, ad esempio, le piogge particolarmente intense minacciano l’habitat di molte regioni, specie presso le coste del Golfo di Guinea o tra Kenya e Mozambico. Mettendo fra l’altro a rischio i raccolti agricoli.

Tutti questi fenomeni hanno il potere di incrementare il rischio di conflitti di origine climatica. La caccia alle risorse naturali – a cominciare dall’acqua – è un vettore di guerre destinato a diventare sempre più visibile nel prossimo futuro. Si pensi solo all’importanza del controllo delle falde acquifere e della Valle del Giordano nel caso israelo-palestinese, o alla competizione per le acque del Nilo, che tocca principalmente Etiopia, Sudan ed Egitto.

La conoscenza di questi rischi è ancora limitata, ma sarà una delle frontiere dell’analisi strategica nel prossimo futuro, come dimostrano le risorse impiegate dalle maggiori potenze mondiali per lo studio delle conseguenze geopolitiche del cambiamento climatico.

Articolo originariamente pubblicato in inglese su The Guardian
(26/02/2014)

Possibile disgregazione e scissione dell'Ucraina



La parte orientale e meridionale dell'Ucraina è di lingua e tradizione russa, in particolare la repubblica autonoma della Crimea, dove staziona la flotta russa e dove la Russia ha preso il controllo di due aeroporti e del parlamento. La parte occidentale invece ha una storia diversa, essendo stata per molto tempo una componente dell'Impero Austro-Ungarico. La parte centrale è mista. Questa situazione potrebbe rivelarsi esplosiva, considerando che chi controlla l'Ucraina controlla anche i gasdotti che riforniscono l'Europa.
 


Dieci classici letterari moderni consigliati dagli scrittori di oggi

Poster

Inutile girarci intorno, le classifiche sono fondamentalmente un’oscenità. La letteratura è il regno dell’ineffabile e del non quantificabile. Ma in questo caso al Time hanno fatto le cose per bene. Sono andati da tutti i grandi scrittori dei nostri tempi - pur con l’ombelico fra New York, Los Angeles e quello che c’è in mezzo - da Franzen a MailerWallaceChabonWolfeLethem,King e via dicendo, per un totale di 125 scrittori di riferimento. Hanno chiesto la loro top ten dei più grandi libri di sempre, mettendo dentro tutto: narrativa, saggistica, poesia, antica, moderna.
Combinando i risultati, ecco di seguito la classifica dei dieci migliori libri di sempre (dalla 1 alla 10) secondo i maggiori scrittori di oggi. Che ne pensate? Quanti ne avete letti?
Cime tempestose di Emily Bronte
Anna Karenina di Lev Tolstoj
Madame Bovary di Gustave Flaubert
Moby Dick di Herman Melville
I fratelli Karamazov di Fedor Dostojewskij
Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde
I Buddenbrook di Thomas Mann
Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust
Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez
L'insostenibile leggerezza dell'essere di Milan Kundera

Destra e sinistra: uno schema americano



Paradossalmente in America il colore blu indica la sinistra, essendo il colore del Partito Democratico ed il colore rosso indica la destra, essendo il colore del Partito Repubblicano. Il giallo indica invece il Partito Libertario, che si colloca al centro dello schieramento. Nella tabella qui sopra sono riassunti i valori dei singoli partiti.