martedì 27 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 15. Le nozze di Ettore e Diana

In una ridente domenica di giugno del 1938 ebbe luogo l'ultimo grande evento mondano della Contea di Casemurate prima della Seconda Guerra Mondiale, ossia il matrimonio di Diana Orsini Balducci, primogenita del conte Achille, con Ettore Ricci, suo fidanzato da meno di un anno.
Quelle nozze furono anche l'ultima occasione, in assoluto, nella quale le antiche famiglie aristocratiche e dell'alta società si degnarono di partecipare ad una cerimonia insieme alla gente comune del luogo e se lo fecero, fu soprattutto per mera curiosità, e magari per una segreta speranza di assistere ad episodi imbarazzanti.
Nei mesi precedenti, i promessi sposi si erano visti poche volte, per non rischiare spiacevoli inconvenienti che avrebbero potuto mandare a monte l'alleanza tra il clan dei Ricci e quello degli Orsini.
Erano stati comunque mesi intensi.
La famiglia Ricci, per una volta, non aveva badato a spese e aveva organizzato l'evento cercando di mantenere un equilibrio tra la solennità elegante desiderata dagli Orsini e la sfarzosità un po' pacchiana che mirava a far colpo sulla folla.
Clara Ricci assunse persino uno stuolo di esperti di bon ton incaricati d'impresa quasi disperata di "dirozzare" suo figlio Ettore una volta per tutte.
Nel frattempo, Diana era rimasta in disparte, in silenzio, riducendo al minimo possibile le interazioni sociali, anche con i parenti, per i quali provava un senso di delusione e di estraneità che soltanto il tempo e gli eventi eccezionali e terribili degli anni futuri avrebbero potuto attenuare.
In particolare stava attenta a non lasciarsi sfuggire nessuna protesta in presenza della governante Ida Braghiri, di cui aveva intuito, oltre alla natura maligna e pettegola, anche il ruolo di spia per conto del suo futuro suocero, il vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci, e tutto il suo clan, di cui Ettore, in fondo, era il membro più onesto e meno compromesso con certi affaristi e politicanti senza scrupoli.
Aveva finito per accettare il ruolo che le era toccato in sorte, ma aveva giurato a se stessa che la famiglia che sarebbe sorta dal suo matrimonio sarebbe stata migliore di quella in cui lei era nata e cresciuta. E per "migliore" intendeva qualcosa di molto diverso rispetto alle cose a cui suo padre e sua madre davano importanza. Lei non avrebbe mai permesso che i suoi figli fossero costretti a sposarsi contro la loro volontà, e avrebbe fatto in modo che si sentissero protetti, e che crescessero imparando il valore del sostegno reciproco, senza che nessuno di loro dovesse sacrificarsi in nome di tutti gli altri.
Certo, per poter riuscire in questo, Diana avrebbe dovuto lottare contro la famiglia del marito, ma sperava ancora che Ettore fosse veramente innamorato di lei, e dunque disposto ad ascoltarla e a rispettarla, soprattutto per quel che riguardava l'educazione dei figli che sarebbero nati.
Per ottenere questo era disposta a salvare le apparenze in pubblico, mantenendo un contegno impeccabile, a partire dalla cerimonia nuziale.
Entrambe le famiglie avevano convenuto sulla necessità di spedire un numero enorme di inviti, per garantire una partecipazione straordinaria all'evento, che ne avrebbe sancito il successo.
E in effetti sia numero dei partecipanti, sia la loro importanza e varietà, furono superiori alle più rosee aspettative.
C'erano i grandi proprietari dei latifondi circostanti, e si trattava di personaggi i cui nobili cognomi erano venerati più degli dei dell'Olimpo nell'Antica Grecia.
Primi tra tutti, i marchesi Spreti di Serachieda avevano persino anticipato l'apertura estiva della loro famosa Villa con tanto di torre, che si trovava nelle vicinanze della chiesa, nel punto esatto dove il torrente Serachieda faceva da confine tra la provincia di Forlì e quella di Ravennna, di modo che Casemurate, già così piccola, risultava pure divisa in due.
E, sia detto per inciso, i casemuratensi di Ravenna si consideravano i più antichi e i più raffinati, facendo risalire le loro origini familiari ai tempi dell'Esarcato bizantino, laddove invece i casemuratensi di Forlì erano considerati come dei barbari discendenti dai Galli Senoni, mandati a lavorare la terra come schiavi dei conquistatori romani.
Ma dall'antica e romana Forum Livii giunsero per quelle nozze famiglie leggendarie, alcune persino citate da Dante, come i Paolucci de' Calboli, che peraltro erano la famiglia natale della contessa madre Emilia, sorella dell'illustre e compianto milite Fulcieri, il cui nome era lo stesso del famoso antenato di dantesca memoria.
Parteciparono anche i conti Zanetti Protonotari Campi, proprietari di antichissimi vigneti da cui la loro azienda produceva vini pregiati di eccellente qualità.
Vennero addirittura i conti Orsi-Mangelli, il cui capofamiglia aveva fondato un famoso setificio.
Grande stupore suscitò la partecipazione dell'anziano conte Leopoldo Gagni di Montescudo, che non usciva di casa da vent'anni e andava a dormire alle sette di sera come i polli. La sua presenza aveva valide motivazioni: essendo vedovo e ormai senza soldi, desiderava risposarsi con una brava ragazza che avesse sostanzialmente due qualità: una buona dote e uno spirito di servizio da crocerossina.
Aveva chiesto consiglio all'unica persona che sapeva tutto di tutti e la cui parola era decisiva in qualsiasi questione: la Signorina De Toschi.
Quest'ultima aveva pensato bene di utilizzare questa unione per accrescere il potere del nascente clan Ricci-Orsini. In men che non si dica, Carolina Ricci, una delle numerose sorelle di Ettore, era stata fidanzata ufficialmente al conte Gagni.
Considerato il prestigio di questi invitati, ad officiare la messa nuziale fu l'allora vescovo di Forlì, Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Giuseppe Maria Caetani, anche lui appartenente a una nobile famiglia romana, per quanto fosse un prelato molto gioviale e alla mano, tanto che i fedeli lo chiamavano affettuosamente "don Pippo" e i maligni Monsignor Panzone.
Sul versante delle autorità politiche, istituzionali, culturali, clericali e militari, la partecipazione fu sollecitata, ovviamente, dalla Signorina De Toschi, autoproclamatasi testimone di nozze della sposa,  e addirittura dal Generale De Toschi in persona, che,  insieme ad un drappello di attendenti e ufficiali in alta uniforme, aveva imposto la presenza del picchetto d'onore, da lui stesso presieduto, con tanto di sfoderamento delle spade all'uscita degli sposi, in deroga a tutte le norme cerimoniali.
L'anziano Generale, fervente monarchico, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell'Ordine Militare di Savoia e di quello della Corona Italiana, nonché Grande Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, si sentì in dovere di comunicare agli sposi e alle loro famiglie, nonché a gran parte degli aristocratici presenti, che "Sua Maestà il Re, per il tramite di Sua Altezza Reale Maria José, Principessa di Piemonte, rivolge agli sposi e a tutti gli intervenuti le sue più vive felicitazioni".
Mancò poco che questa sbruffonata da miles gloriosus del Generale De Toschi causasse un incidente diplomatico con la milizia fascista, che voleva a sua volta far parte del picchetto d'onore, dal momento che il padre dello sposo, il vecchio Giorgio Ricci, si vantava di essere un amico d'infanzia del Duce, e i suoi figli maggiori, Oreste e Roderico, erano arrivati persino a dare per certa la partecipazione del conte Ciano e consorte, notizia che si rivelò, com'era da prevedersi, del tutto priva di fondamento.
Ma Ettore, che era il meno politicizzato tra i membri della famiglia Ricci, riuscì a convincere il padre e i fratelli a evitare ulteriori spacconate che suscitassero le ironie dei nobili di ben più antico lignaggio e le tensioni con gli stessi conti Orsini di Casemurate, liberali conservatori di vecchio stampo, piuttosto tiepidi di fronte al fascismo.
La gente comune partecipò in massa: i popolani volevano essere testimoni di un evento che sarebbe stato ricordato molto a lungo nei decenni seguenti e che vedeva il trionfo di uno di loro, che per la prima volta entrava a far parte di una famiglia nobile.
Quando videro la sposa incedere verso l'altare al braccio del Conte, suo padre, rimasero stupefatti dall'eleganza sobria dell'abito nuziale e del velo, che, unite al fisico snello e alla pelle diafana, le conferivano quasi l'aspetto di una fata.
Suo fratello Arturo e le sorelle Ginevra e Isabella sapevano bene che dietro a quell'alone sovrannaturale c'era in realtà una grande sofferenza, e di ciò si sentivano in colpa, perché sapevano che, salvando il buon nome e la solvibilità degli Orsini di Casemurate, Diana permetteva a loro di avere ciò che a lei non era stato concesso, e cioè la possibilità di scegliere la persona con cui trascorrere il resto della propria vita.
La contessa Emilia, divorata dall'ansia che potesse succedere qualche disguido dell'ultimo minuto, cercava di smorzare la tensione osservando lo spettacolo offerto dal vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci, che osservata la futura nuora con la bocca aperta e mezza sdentata.
Ma il vero spettacolo era offerto dalla Signorina de Toschi: portava un enorme cappello a tesa larga, come quelli delle dame inglesi dell'età edoardiana, tutto inghirlandato di fiori finti e di penne di uccelli, tanto che ci avrebbero potuto nidificare comodamente due coppie di cicogne. Per tener fermo quell'enorme cespuglio piumato, c'era un nastro che passava tra il suo secondo mento e il terzo, al di sotto del quale l'attempata signorina Mariuccia sfoggiava una parure di diamanti che avrebbe fatto invidia a quelle della Corona Britannica. Il resto dell'abito era un'accozzaglia di balze in pizzo e in tulle, inframmezzate da lunghissime collane di perle che le ricadevano fino alla scollatura. Da lì, non essendo possibile far indossare un corpetto a quel corpo così panciuto, partiva un'enorme gonna, con diecimila sottane e un diametro, a terra, di quasi due metri.
A sorvegliare la Signorina, il cui onore era più sacro di quello della sposa, c'era, come si è detto, il Babbo, il grand'uomo, il Generale Ardito De Toschi.
La sua presenza incuteva terrore: era una specie di incrocio tra Bismarck e il Kaiser Guglielmo II, con tanto di baffoni inamidati e arricciati verso l'alto.
Gli occhi erano a tal punto spiritati, e il cipiglio così corrucciato, che il suo solo sguardo era già di per sé una dichiarazione di guerra.
Le decorazioni appuntate sulla sua divisa di generale di corpo d'armata occupavano tutto lo spazio disponibile. Oltre a quelle di cui si è accennato sopra, c'era persino chi giurava di aver scorto la Legion d'Onore, la Croce di Ferro prussiana, il Toson d'Oro di asburgica memoria e addirittura la stella dell'Ordine della Giarrettiera.
Tra le innumerevoli le medaglie al valor militare e civile, spiccavano le mostrine e i galloni del grado di comando, a commemorare con gloria le sue gesta immortali.
La sciabola tintinnava al suo fianco, ogni volta che il vegliardo si alzava e si sedeva, ma non si inginocchiava mai, adducendo come causa una fastidiosa artrosi: in realtà era un uomo talmente orgoglioso che, pur essendo credente, riteneva che lui e Dio potessero guardarsi negli occhi, l'uno di fronte all'altro, da pari a fari.
Non meno orgogliosi erano i parenti dello sposo, a cominciare da sua madre, la maestra Clara Ricci, i cui intrighi erano stati degni di una specie di Guerra delle Due Rose, tanto che, nel porle un cenno di saluto, il conte Achille non poté fare a meno, per un istante, di paragonarla a Margaret Beaufort, la madre di Enrico VII Tudor, nel giorno in cui il re sposava l'erede della dinastia sconfitta, la principessa Elisabetta di York.
Preferì tuttavia non soffermarsi sulla sorte degli altri York sopravvissuti, tutti destinati a cadere, uno dopo l'altro, sotto i colpi di mannaia dei Tudor.
Al passaggio di Diana, ci fu grande silenzio non solo nella navata di destra, dove sedevano i nobili, ma anche in quella di sinistra, dove si trovava la famiglia dello sposo, e tutti i personaggi, di non poco conto, collegati al grande clan dei Ricci.
Ettore si era strategicamente collocato su un gradino più in alto, in modo da rendere meno evidente la propria bassa statura.
Aveva lo sguardo soddisfatto di un re che stava per essere consacrato e legittimato agli occhi di un popolo che per troppo tempo non aveva creduto in lui.
Oreste Ricci, suo fratello maggiore, gli faceva da testimone di nozze.
A differenza di Ettore, che assomigliava più al padre, Oreste aveva i capelli rossicci della madre, che lo adorava a tal punto da fargli avere l'incarico di vicedirettore dell'Azienda Meccanica Ricci, specializzata nella produzione, all'avanguardia per l'epoca, di macchinari agricoli.
Gli altri fratelli e sorelle dello sposo erano come in attesa di spartirsi una torta, e non era soltanto quella nuziale.
Roderico, considerato l'intellettuale di famiglia in quanto diplomato all'istituto tecnico agrario, aveva un carattere talmente insopportabile che, qualche anno prima, la moglie era fuggita dal talamo coniugale dopo soli due giorni di matrimonio. Da allora il suo umore era divenuto talmente collerico che persino un cane ringhioso sarebbe apparso un moderato, in confronto a lui.
Caterina era insieme al marito, l'avvocato Edoardo Baroni, esponente dell'Azione Cattolica con ottime aderenze e relazioni nella Curia forlivese.
Maria Teresa era fidanzata con il vice-ispettore della polizia Onofrio Tartaglia, di ferrea fede fascista.
Carolina osservava vecchio il conte Gagni con una certa apprensione, facendosi forza al pensiero che sarebbe presto diventata una vedova rispettabile ed economicamente indipendente.
Adriana, l'ultimogenita, era stata scelta dalla madre come "bastone per la vecchiaia", e dunque destinata al nubilato, non fosse altro che per il suo aspetto non proprio attraente e per il carattere alquanto burrascoso.
Vicino alla famiglia Ricci, c'erano anche i coniugi Braghiri, entrambi nel contempo divorati dall'ambizione e illividiti dall'invidia.
Vedendo tutta la sfilata di nobili che, come divinità celesti, erano scese dall'alto dei mondi sereni calandosi in quell'atomo opaco del male, i Braghiri, nel cui sangue il male scorreva come un nutrimento, sentivano rinnovarsi nel cuore la bramosia di impadronirsi di tutto, con qualunque mezzo, a qualunque costo.
Tale è la brama del successo, il quale come una droga crea dipendenza e corrompe il corpo e la mente di chi lo insegue, rendendolo disposto a fare qualsiasi cosa pur di conservarlo e accrescerlo.
Ben pochi riuscivano a salvarsi da quel demone, e se ce la facevano era solo perché protetti dall'unica medicina che rendeva felici e immuni dalle ansie, e cioè la stupidità.
Uno stupido di successo è felice perché è stupido, a prescindere dal successo stesso.
Una persona intelligente, al contrario, può diventare un mostro se la droga del successo mette radici troppo profonde nella sua anima.
Diana aveva appreso tutto questo da molto tempo.
Sua madre, nei momenti di sincerità indotti dall'alcool, aveva confessato che era stata la brama di successo a rovinare la loro famiglia, e quando la figlia le chiedeva se sarebbero mai più riusciti ad essere felici, lei aveva riso: "Felici? E che cos'è la felicità, se non il premio di consolazione degli idioti?".
Diana aveva obiettato che quella frase avrebbe potuto offendere tante persone intelligenti che si ritenevano felici.
La contessa Emilia aveva scosso il capo: "Non sono felici, mentono a se stessi, e si offendono perché noi smascheriamo la loro menzogna".
"Dunque conoscere la verità rende infelici?"
"Nei limiti in cui la verità è conoscibile".
Tutte quelle parole tornarono alla mente della sposa, durante quella tediosa cerimonia.
Quando si giunse alla fatidica domanda "Vuoi tu, Diana, prendere il qui presente Ettore come tuo legittimo sposo, per amarlo e onorarlo... "  il silenzio calò nella chiesa.
Se avesse potuto dire la verità, la risposta sarebbe stata negativa.
Ma Diana aveva imparato che, per quanto dire la verità sia generalmente una cosa giusta, ci sono casi in cui può scatenare la fine del mondo, e sarebbe sbagliato provocare la fine del mondo in nome di una cosa giusta.


lunedì 19 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 14. Trame segrete ed ambizioni nascoste


<<E Diana cos'ha detto, dopo che Ettore è andato via?>> chiese Michele Braghiri, l'azzimato ammnistratore del Feudo Orsini di Casemurate, nonché marito della burbera governante della Villa, la signora Ida, mentre lei gli serviva la cena.
<<Prima ha riso come una matta per mezz'ora. Poi ha fatto il muso per un'altra mezz'ora. Alla fine è andata dai suoi e ha detto: "Siete proprio sicuri di volerlo come genero? Adesso recita la parte dell'innamorato maldestro, ma quando mi avrà messo l'anello al dito e verrà ad abitare qui da padrone, a quel punto non vi farà più così ridere">>
Il signor Braghiri annuì, lisciandosi i capelli laccati con la brillantina:
<<Sarà anche mezza matta, ma non è affatto scema, la nostra cara Diana>>.
La robusta signora Ida scrollò le spalle, per mostrare indifferenza al fatto che suo marito, per il quale ostentava un'adorazione assoluta, fosse molto sensibile al fascino femminile.
Non a caso lui ed Ettore Ricci si erano conosciuti da ragazzi presso un bordello locale, frequentato per lo più da contadini arricchiti, che gli invidiosi, cioè quelli che non erano riusciti ad arricchirsi, chiamavano "pidocchi rifatti" o, come si dice ancor oggi nel dialetto gallico locale, "pdoch arfeat".
Incuranti di quel soprannome, Ettore Ricci e Michele Braghiri avevano stretto amicizia e col tempo erano diventati anche collaboratori in affari.
Ettore, che aveva alcuni anni più di Michele, ed era decisamente più ricco, aveva ben presto assunto il ruolo di guida, e l'altro ne era divenuto il braccio destro e la longa manus.
C'era però un'ambivalenza nell'ammirazione di Michele Braghiri nei confronti di Ettore Ricci, e consisteva nel fatto che, pur considerandolo una specie di modello a cui ispirarsi, nutriva nei suoi confronti una profonda invidia, che suscitava, ogni giorno di più, segreti istinti di rivalsa.
Questa era la loro principale differenza: Ettore Ricci, come tutte le persone davvero sicure di sé, non invidiava nessuno, al massimo prendeva esempio da chi giudicava migliore e poi andava avanti per la sua strada, ponendosi obiettivi ambiziosi che quasi sempre riusciva a raggiungere.
Pur essendo basso di statura, nessuno era in grado di fargli ombra.
Michele Braghiri, al contrario, non avendo forza sufficiente per conseguire da solo i propri inesauribili desideri, si appoggiava ai potenti, come un rampicante, e prosciugava le loro risorse, intaccandoli gradualmente dall'interno, e sempre di nascosto.
Tutto questo era difficile da scoprire, perché il suo aspetto e il suo comportamento sembravano quelli di un uomo felice e appagato.
Ma se qualcuno si fosse soffermato di più ad esaminarne i dettagli, avrebbe notato che i suoi occhi indagatori parevano ridere quando apprendeva le disgrazie di qualcun altro, mentre la sua pelle abbronzata assumeva un colorito leggermente livido se invece veniva a conoscenza dell'altrui successo.
Il suo fisico asciutto a volte sembrava essere la metafora di una fame antica, che bruciava subito ogni nutrimento, rendendolo insaziabile. Ed i suoi appetiti non si fermavano certo ai cibi o alle donne. Era bramoso di primeggiare in tutto, e se non ci riusciva, allora una rabbia nascosta lo portava a desiderare la distruzione di qualunque cosa che non fosse suo.
 Il suo orgoglio smisurato e il suo temperamento vanitoso, che si rifletteva anche nel modo di vestire e di pettinarsi, sempre impeccabile, erano una compensazione della consapevolezza di valere di meno, come persona, di coloro che invidiava.
Sua moglie Ida era ancora più orgogliosa e vanitosa, ai limiti della millanteria, e il suo atteggiamento spiccio e ruvido non piaceva affatto agli Orsini, che però dovevano tollerarlo, in quanto a pagarne i servizi era la famiglia Ricci.
A volte Diana Orsini si chiedeva come mai un donnaiolo come Michele Braghiri, tra tante ragazze disponibili, avesse scelto di sposare una donna così brutta e volgare, e non era stato facile trovare la risposta, ma alla fine aveva capito.
La signora Ida aveva in sé tutta quella sicurezza e quella forza che mancavano a Michele nei momenti difficili. Ogni volta che il gioco dell'ascesa sociale si faceva duro e occorreva sporcarsi le mani, Michele tentennava, e allora toccava a sua moglie infondergli coraggio, con una solida determinazione e nervi d'acciaio.
E di questo il signor Braghiri era riconoscente alla propria consorte, di cui teneva in gran conto le opinioni e i consigli. Riteneva che il suo matrimonio fosse un punto di forza essenziale per riuscire a prevalere su Ettore Ricci e Diana Orsini, che mai e poi mai avrebbero raggiunto una simile intesa.
<<E il Conte cos'ha detto?>> chiese Michele mentre si accingeva a sminuzzare una bistecca.
Ida riprese a raccontare:
<<Ha fatto la sua solita faccia da cane bastonato e ha attaccato con le solite lagne: "Siamo con le spalle al muro. Nessuno è più disposto a prestarci un centesimo. Che lo si voglia o no, Ettore è già il padrone" e così via. Poi è saltata su la Contessa, ubriaca fradicia, e ha detto: "Tu lo sposerai e noi rimarremo qui. Non c'è altra scelta">>
Nell'ascoltare queste parole, gli occhi da faina di Michele luccicavano di gioia, perché nella sua testa l'esautorazione degli Orsini era solo il primo passo di un piano che si sarebbe protratto molto a lungo nel tempo.
<<E com'è andata a finire? Si fa questo matrimonio?>>
La signora Ida fece una smorfia che rese il suo faccione giallastro ancora più brutto:
<<La contessina Diana ha detto "C'è sempre un'altra scelta", ma si capiva che non ci credeva nemmeno lei. Il Conte allora si è deciso a calare l'asso di bastoni: "Dobbiamo pensare anche alle tue sorelle, a tuo fratello. La famiglia viene prima di tutto. In ogni dubbio, in ogni conflitto interiore, la famiglia deve vincere. Deve sempre vincere">>
Michele Braghiri annuì:
<<In questo sono d'accordo. La famiglia deve vincere. Ma io intendo la nostra famiglia, perché nostra fortuna è legata a quel matrimonio. 
Ettore mi darà più potere nell'amministrazione, e tu, come governante, avrai al tuo servizio un esercito di domestici pagati da lui. Diventeremo ricchi anche noi, e a un certo punto potremo trovare persino il modo di prenderci tutto>>
Al momento il loro stipendio ufficiale era buono, perché comprendeva i servizi di spionaggio resi alla famiglia Ricci.
Ma siccome non volevano dare nell'occhio, Michele e Ida erano rimasti nella Cameraccia, come tutti chiamavano l'alloggio umido e spoglio che dava sul cortile interno della Villa.
<<E' meglio non parlare ad alta voce di questo piano... non si sa mai>> lo rimproverò Ida con un sibilo <<Comunque alla fine le cose andranno per il verso giusto: gli Orsini di Casemurate sono tutti pazzi, e pure i Ricci sono strambi. Da quel matrimonio non verrà fuori niente di buono, per loro, questo è certo>>
Michele guardò la moglie con un sorriso d'intesa.
I suoi occhietti grigi sembravano farsi beffe del mondo intero:
<<Sicuramente i loro figli saranno dei buoni a nulla, al contrario dei nostri.
 Bisognerà avere un po' di pazienza, ma alla fine saremo noi i veri Signori di questa casa e di questa terra, perché noi siamo forti. 
Io e te sopravvivremo a tutti loro. Me lo sento. Li seppelliremo uno dopo l'altro.
Dimostreremo che è più importante essere qualcuno, piuttosto che figlio, o discendente, di qualcuno>>
Ida comprese che dietro a quelle parole c'era un disegno che aveva dei contorni vagamente criminali.
<<La fortuna sarà dalla nostra parte, e se per caso ci fossero degli intralci, be', faremo in modo di farli sparire>>
Un cenno d'intesa suggellò il patto.
Non fu necessario aggiungere altro.
Del resto, la signora Ida avrebbe comunque appoggiato le iniziative del marito, anche senza conoscerne i dettagli.
Aveva imparato che a questo mondo ci sono cose che è meglio non sapere.
A cosa le sarebbe servita tutta quella conoscenza?
Se sapessimo tutto, la vita sarebbe insopportabile. L'ignoranza e la stupidità rendono felici.
E di questo era certa, non fosse altro che per esperienza personale.



venerdì 9 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 13. Il secondo, tragico appuntamento di Ettore e Diana


Per porre rimedio all'esito increscioso del primo appuntamento, i Conti Orsini di Casemurate, decisero di invitare Ettore Ricci ad un'esclusiva cena di gala, servita, per l'occasione, nella Grande Sala in stile Impero, che da tempo non ospitava più eventi di rilievo.
Ettore Ricci, consapevole di dover rimediare a un'innumerevole serie di gaffes, ascoltò con molta attenzione le raccomandazioni di sua madre, la maestra Clara, e della Signorina De Toschi in persona, che gliele fece ripetere a memoria.
In teoria poteva sembrare un metodo infallibile, ma nella pratica esistevano alcune incognite e molti punti deboli, tra cui anche il fatto che i gusti dell'eccellente Signorina in fatto di estetica e di galateo, nonostante l'assidua frequentazione dell'Alta Società e l'indiscutibile autorità di cui godeva per amicizie e parentele, non erano del tutto affidabili.
Per esempio, quando ogni sera la De Toschi si faceva accompagnare da qualche commensale ad una cena luculliana, tendeva ad esagerare con i cosmetici, non solo per nascondere i segni spietati dell'età, del tabagismo e della ghiottoneria, ma anche perché, non essendo coniugata, si sentiva ancora, inconsciamente, una "ragazza in età da marito", autorizzata a dare nell'occhio per farsi notare da eventuali corteggiatori.
Tutti gli sforzi profusi nell'acconciare i capelli giallastri in una corona di trecce, come l'imperatrice Sissi, o nell'applicazione di un trucco che sarebbe apparso audace persino a una donna di strada, o ancora nella scelta di abiti e gioielli rigorosamente ereditati dalla madre, dalle parenti zitelle, dalle amiche decedute oppure regalati da qualche attendente del Babbo nella speranza di ottenere una raccomandazione, concorrevano nel realizzare un risultato ben preciso ed opposto alle intenzioni, ovverosia l'immagine di un ippopotamo con il rossetto e l'ombretto, la parrucca bionda, una parure di diamanti e un vestito a gonna ampia che sarebbe parso fuori moda persino ai tempi della regina Vittoria.
Anche nella famosa serata di riconciliazione tra i Ricci e gli Orsini, la Signorina De Toschi si era attenuta rigidamente al suo codice, il che comprendeva anche il trasporto a scrocco verso la Villa del Conte suo cugino.
La carrozza degli Orsini, pagata coi soldi dei Ricci, quella sera trasportò sia lei che il prode Ettore, visibilmente emozionato.
Indossava un frac che gli andava leggermente stretto in vita, per sembrare più snello, senza però riuscire ad evitare l' "effetto pinguino".
Come nella famosa canzone, portava "un cilindro per cappello, due diamanti per gemelli".
Erano stati fatti dei progressi tuttavia.
Il cilindro non era più listato a lutto, e non c'erano nemmeno le ghette bianche sulle scarpe.
E tuttavia qualche eccesso ancora persisteva, forse nel nodo troppo stretto del papillon bianco inamidato, o nella camicia con accenni di volant e colletto alto che gli impediva una corretta respirazione.
Appariva piuttosto ingessato e impacciato nei movimenti.
Questa volta, però, onde evitare gli spiacevoli inconvenienti dell'incontro precedente, si sforzava in tutti i modi di tenere a freno la sua congenita predisposizione verso il meteorismo e la flatulenza.
Inoltre aveva ricevuto delle istruzioni pratiche e precise anche da Ida Braghiri, la governante, su cosa dovesse fare e soprattutto evitare di fare.
All'inizio le cose parvero andare per il meglio.
In fondo Ettore Ricci non era uno stupido ed era consapevole di essere per indole un uomo troppo schietto e per costituzione piuttosto basso e tarchiato, e sapeva quindi che, in mancanza di fascino, avrebbe dovuto far valere altre argomentazioni.
Alcune sue qualità erano note, prima tra tutte la predisposizione per gli affari, dunque per farsi accettare da quei nobili squattrinati con la puzza sotto al naso, capiva che era necessario darsi un contegno, almeno all'inizio, e soltanto dopo, a cose fatte, e nei casi estremi, tirar fuori le unghie e i denti, e barare, se necessario, per ottenere tutto quello (e non era poco) che desiderava dalla vita.
Il problema non erano tanto i Conti Orsini, due vecchi relitti della Belle Epoque, il cui orologio si era fermato nel giugno del 1914, quanto piuttosto la maggiore delle loro figlie, la contessina Diana, perché Ettore era veramente innamorato di lei, anzi, per meglio dire era ossessionato da lei, forse perché rappresentava tutto ciò che ancora lui non aveva, e forse non avrebbe mai avuto.
 La trovava così attraente da fargli perdere quella razionalità calcolatrice che invece funzionava perfettamente in ogni altra circostanza della vita.
Per questo, nonostante tutte le raccomandazioni e le precauzioni, il giovane Ricci faticava molto a calarsi nella parte del raffinato uomo di mondo.
Ad aprirgli la porta, quella sera, fu il Conte Achille in persona, un onore che era riservato soltanto ai creditori più insistenti.
Ettore mantenne un contegno formale, rigido, quasi meccanico.
Arrivò persino, come gli era stato suggerito dalla governante, a lusingare il Conte Achille lodando il ritratto di un suo antenato.
Il Conte si illuminò:
<<Quel cavaliere che vedete nel ritratto è il fondatore del ramo casemuratense della famiglia Orsini, il Conte Bernardo, nipote di papa Niccolò III>>
In quel momento, come colto da un accesso di sindrome di Stendhal, Ettore Ricci si sentì quasi venir meno, come se qualcosa lo volesse catturare dentro il ritratto di quel feroce cavaliere, che brandiva sullo scudo le insegne del Sommo Pontefice tra due orsi neri rampanti, simbolo del cognome dell'antica dinastia di cui voleva entrare a far parte.
C'erano molti altri ritratti simili, che si susseguivano persino lungo il muro che fiancheggiava la scalinata dell'ingresso.
Fu in quel momento che capì, senza ombra di dubbio, che tutti quei guerrieri, tutti quei Papi, si sarebbero sempre intromessi nella relazione tra lui e Diana, vanificando ogni suo sforzo di essere, o almeno di apparire, degno di lei.
Forse fu a causa di questa considerazione e del successivo avvilimento che invece di rispondere come la governante gli aveva suggerito, si ritrovò di nuovo a provare ostilità nei confronti del Conte Achille, un fallito che si dava arie da padrone, quando invece il vero padrone, di fatto era proprio Ettore.
Tutti questi pensieri, uniti all'emozione e alla tensione del momento, fecero sì' che l'unica esclamazione che uscì dalla sua bocca, in risposta alla sfila dei ritratti degli Orsini, fu un alquanto inopportuno:
<<Ostia!>>
Il Conte Achille, a sua volta profondamente avvilito, trattenne un sospiro e si limitò a fare strada al suo incorreggibile ospite, nonché creditore, sentendosi realmente un fallito, costretto a servire come maggiordomo i nuovi padroni di casa sua.
Nella Grande Sala Impero, il lungo tavolo d'ebano era stato strategicamente apparecchiato in modo tale che Ettore si trovasse esattamente di fronte a Diana, mentre ai due capi, a una certa distanza, sedevano il Conte e la Contessa, e nel mezzo, naturalmente, la Signorina De Toschi, che sarebbe stata comunque troppo impegnata a divorare qualunque cosa fosse commestibile nelle sue vicinanze, per poter creare problemi di sorta.
Ettore osservò prima di tutto le sorelle di Diana, ossia Ginevra e Isabella, e le trovò incantevoli, mentre non gli piacque affatto lo sguardo spavaldo del futuro cognato, Arturo, l'erede del titolo comitale.
<<L'altro vostro fratello non si unisce a noi, contessina Diana?>> chiese Ettore, perdendosi nell'intensità degli occhi neri della donna di cui era innamorato.
Il gelo percorse la sala, in tutta la sua ampiezza.
Il Conte alzò gli occhi al cielo, la Contessa Emilia iniziò a riempirsi il primo bicchiere di Cabernet-Sauvignon, mentre la Signorina stava fagocitando gli antipasti.
L'unico rumore era quello delle mandibole della De Toschi, che sembrava aver stritolato e ingurgitato un cinghiale vivo e vegeto.
<<L'altro fratello è morto>> rispose Diana, rivivendo improvvisamente il trauma infantile di quella malattia fulminea e spietata, la meningite, che l'aveva privata del suo adorato fratellino Eugenio.
Ettore si sentì subito sprofondare e perse il controllo:
<<Oh, Cristo... spero almeno di essere venuto al funerale!>>
A questa seconda gaffe, persino la De Toschi sollevò il naso dal piatto e lo fissò con aria truce.
Vedendo Ettore così in difficoltà, Diana, che in fondo era una persona gentile persino con i suoi nemici, veri o presunti, fece del suo meglio per rispondere in maniera garbata, seppur velata di un'amara e sottile ironia:
<<E' morto quindici anni fa. All'epoca la mia famiglia non aveva ancora il piacere di conoscere la vostra, signor Ricci. 
Era ancora un bambino, e la meningite non ha alcuna pietà>>
Ettore assunse un'aria sinceramente affranta e i suoi occhi divennero umidi:
<<Ah, che disgrazia, che perdita per la nostra comunità! Certo che il mondo è proprio alla rovescio: la meningite avrebbe dovuto portarsi via anche due paia dei miei fratelli, che io ne ho fin troppi!>>
<<Ma cosa dite?>>
<<Be', vedete, non tutti hanno la fortuna di avere dei fratelli simpatici. Insomma, in ogni famiglia c'è una pecora nera, ma nella mia ce ne sono troppe! Si dice pure: "fratelli coltelli". 
Ecco, due miei fratelli si sono presi a coltellate, una volta, perché volevano tutti e due la stessa donna>>
Diana, che era una persona di mondo, cercò di inquadrare il tutto in un contesto letterario:
<<Un duello per amore!>>
<<Ma anche lì più che amore era una questione di gnocca, come per mio zio Ettore, poveretto, che è stato sparato. Lo dico francamente, perché i miei fratelli sono delle teste di ca... >>
Improvvisamente conscio di aver di nuovo perso il controllo, il giovane Ricci finse di tossire, cercando di darsi un contegno.
Diana notò che sua madre aveva già scolato mezza bottiglia del suo inseparabile Cabernet-Sauvignon, mentre suo padre era completamente immerso nel sezionare chirurgicamente la sua pietanza.
Vide il sogghigno del fratello Arturo e le risatine di Ginevra e Isabella, e in quel momento Ettore le fece così pena che dimenticò tutti i suoi difetti e cercò di fare un ulteriore sforzo per risollevare le sorti della serata:
<<E le vostre sorelle, spero che almeno loro siano di vostro gradimento>>
Ettore si fece serio:
<<Mia cara contessina, io le rispondo col cuore in mano. Magari a qualcuno>> e fissò con aria di sfida il Conte Attilio e suo figlio Arturo <<non sembrerà bello che uno parli male dei parenti, ma io non sono capace di mentire, perché poi le bugie hanno il naso lungo>> e meccanicamente fissò la Contessa Emilia, il cui naso era inguardabile <<o le gambe corte, come me, ah ah! Ma è meglio che stia zitto, perché ogni volta che tento di rimediare, è peggio il tacon del buso!>>
Diana, che conosceva benissimo il dialetto, sorrise.
La Signorina De Toschi, invece, sentì il dovere di intervenire, in difesa della lingua di Dante e Manzoni.
<<Avrai detto cose bellissima, ma io non ho capito>>
Ettore Ricci era ormai in stato confusionale:
<<Niente, niente, era una pataccata>>
La De Toschi gli lanciò un'occhiataccia e poi decise di intervenire per riportare la conversazione a livelli più elevati.
<<Buonissimi questi strozzapreti! Chi li ha cucinati, la nuova serva?>>
Sentendosi chiamare "serva", la governante Ida Braghiri, che era una donna estremamente orgogliosa, intervenne con veemenza:
<<E' una mia ricetta speciale. E io sono la governante, e mio marito è l'amministratore del Feudo>>
La Signorina, che considerava i domestici alla stregua di scimmie ammaestrate, fece finta di non aver sentito, ma si astenne dal chiedere un secondo piatto, temendo che la governante ci avrebbe sputato dentro, prima di rimescolarlo.
Poi, per riprendere in mano la situazione, tuonò a gran voce:
<<Quando arriva la salciccia?>>
Ettore Ricci, che era stato istruito a seguire gli argomenti della Signorina, si unì al coro:
<<Ah, anche a me piace la salciccia. Ma mi piace anche la costolaccia, lo zampone, lo strutto, il lardo... del resto lo dice anche il proverbio: del porco non si butta via niente!>>
Ginevra e Isabella scoppiarono a ridere.
Ettore credette che apprezzassero il suo umorismo, che ridessero con lui, e non di lui.
Persi così gli ultimi freni inibitori, si lanciò in uno dei suoi cavalli di battaglia, in fatto di gastronomia:
<<Per esempio, voi non avete mai mangiato il migliaccio?>>
Tutti scossero la testa, ma solo la governante aveva capito, e proprio per questo cercava, tramite segnali in codice, di far tacere il giovane Ricci.
Lui non se ne accorse nemmeno:
<<E' un dolce squisito, signori miei! In pratica, grosso modo, è un misto di cioccolata e di sangue di maiale>>
La Contessa Emilia ebbe un conato di vomito, e corse via dalla sala.
Il figlio Arturo, che la adorava, le andò dietro, per assicurarsi che stesse bene.
La Signorina De Toschi, che nel frattempo aveva divorato cinque salsicce a velocità olimpionica, ritenne che forse l'argomento culinario non era il più adeguato, e cercò di virare su un tema che sicuramente avrebbe risollevato la situazione.
<<Lei è credente, signor Ricci?>>
Questa domanda era stata concordata, per cui Ettore rispose meccanicamente:
<<Ma certo!>> e per rendere ancora più credibile la cosa, si fece il segno della croce.
<<Che strano>> intervenne Diana <<io non vi ho mai visto alla messa>>
Preso in contropiede, Ettore cercò di prendere tempo:
<<Ah, quindi anche voi siete una donna tutta casa e chiesa, come la nostra Signorina!>>
Quel paragone non era il massimo, e oltretutto aveva evitato la risposta, per cui Diana, adombrandosi, disse soltanto
<<Ho ricevuto un'educazione religiosama ultimamente la mia fede è stata messa a dura prova>>
La Signorina De Toschi quasi si strozzò. La piadina e il prosciutto le erano andati di traverso, a sentire quell'affermazione:
<<Come sarebbe a dire? Io su questo non transigo! Non tollero che il dubbio si insinui nella fortezza della Fede, specie nelle giovani fanciulle>>
Ettore, sinceramente dispiaciuto di aver provocato quel battibecco, volle mostrarsi coraggioso, come un cavaliere che sfida il mondo intero in difesa della sua dama:
<<La contessina Diana è una santa! Va a messa tutte le domeniche! Cosa volete di più? 
Io ci credo in Dio, ai Santi e a tutte quelle balle lì, solo che, se devo essere sincero, mi scoccia alzarmi presto la domenica per andare alla Messa. Lavoro come un negro tutta la settimana, avrò pure il diritto di dormire, almeno un giorno! Oltre tutto la chiesa è stretta, ci sono poche panche. D'inverno fa un freddo cane. E poi come si fa, dopo un po' l'aria diventa pesante, con tutti quei vecchi scoreggioni...>>
Diana fu come colta dalle convulsioni.
Non era epilessia. Era solo che le risate trattenute troppo a lungo, si erano manifestate all'improvviso, come un'eplosione.
E in mezzo a quel tripudio di comicità, Diana osò sperare che l'unica consolazione concessale dal destino, fosse che, nonostante tutto, il suo futuro marito l'avrebbe fatta ridere.

martedì 6 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 12. Diana Orsini e la Signorina De Toschi

Diana Orsini non poteva ignorare una convocazione ufficiale da parte della signorina De Toschi, i cui innumerevoli agganci nell'Alta Società erano necessari per far fronte alla situazione di crisi finanziaria in cui si trovava la sua famiglia.
L'invito si estendeva anche alla madre, la contessa Emilia.
Vennero ricevute, come sempre, dalla cameriera Assuntina, la madre del parroco, nella stanzetta degli ospiti, nel gelido seminterrato del Villino De Toschi.
Nessuno, tranne il personale di servizio, era mai stato ammesso ai piani superiori.
Gli appartamenti privati della professoressa Mariuccia De Toschi erano, come si è detto, un Sancta Sanctorum inaccessibile da parte dei comuni mortali, escluso, naturalmente, il Babbo... il Generale.
Dopo il classico quarto d'ora accademico, la De Toschi comparve in tutta la sua massiccia imponenza, con il faccione obeso pesantemente truccato, gli occhi da batrace fuori dalle orbite, l'immancabile sigaretta nella mano destra e l'altrettanto immancabile fazzoletto da naso nella mano sinistra. 
L'espressione del suo viso era sdegnata e nel contempo teatralmente affranta.
Sia Diana che la contessa Emilia si alzarono in piedi, come se fosse entrato il Papa.
La signorina De Toschi ne fu compiaciuta.
«Avete fatto bèene a rivolgervi a mée» disse col solito accento toscano fasullo.
La contessa Emilia, colma di gratitudine, le baciò la mano, quella del fazzoletto umido:
«Vi ringrazio per averci ricevute, so che il vostro tempo è così prezioso. Ma per noi era un'emergenza: e quando la situazione si fa critica, il mio primo pensiero è sempre: “non c’è che la Signorina!” Lei è l’unica che ha l’autorità morale, culturale»
La signorina De Toschi si schermì agitando il fazzoletto come un aspersorio, ma lasciando trapelare un certo compiacimento e una malcelata aria d’importanza.
«Per mée Diana è come una figlia…» e guardò con occhio possessivo la ragazza «e i Conti Orsini so’ i parenti della mi’ povera mamma» (e qui sospirò, indicando con il fazzoletto bagnato una vecchia foto della compianta Violetta Orsini, coniugata De Toschi).
La contessa Emilia si unì al sospiro e aggiunse:
 «Che Dio benedica la sua anima, e che possa intercedere per noi, in questa valle di lacrime>> commentò la contessa Emilia, e poi tornò al punto <<Il fatto è che Diana si è intestardita: non vuole più vedere il signor Ricci e nemmeno sentirne parlare>>
Mariuccia De Toschi spalancò i grandi occhi da rospo: 
«Cosa? Ma stiamo scherzando?» e fulminò Diana con lo sguardo divenuto paonazzo.
Temendo che la Signorina potesse fare una scenata senza conoscere i dettagli, la contessa Emilia intervenne: «Purtroppo, non è affatto uno scherzo. Se Diana continuerà a rifiutare la proposta di matrimonio da parte di Ettore Ricci, il padre di lui farà valere le ipoteche sul Feudo e sulla Villa, e ci sbatterà fuori di casa»
La signorina De Toschi scosse ripetutamente il testone, mentre le gote e il doppio mento tremolavano e la sigaretta che teneva nella mano destra faceva cadere tutta la polvere sul tavolino di mogano.
Poi, con aria solenne, esclamò:
«Nooo! Nooo! Dio liberi da certe idee! Il buon nome degli Orsini non dovrà mai essere macchiato da uno scandalo del gèenere! Io non potrei mai permetterlo, ne va anche della mia reputazione… Gli Orsini ridotti sul lastrico? Non sia mai detto!
Ricordatevi che in questi momenti di difficoltà io ci sono sèempre!»
Diana fraintese il discorso:
<<Intende dire che ci concederà un prestito?>>
Il volto della De Toschi da paonazzo divenne viola.
Un'idea del genere non le era passata nemmeno per l'anticamera del cervello.
Il solo pensiero che qualcuno potesse anche vagamente immaginare di disporre sia pure di un solo centesimo del suo immenso patrimonio, accumulato tramite eredità, emolumenti paterni, lezioni private fino a notte fonda, ma soprattutto per mezzo di un'inflessibile applicazione dell'arte della spilorceria e dello scrocco, le provocò quasi un colpo apoplettico.
Ci volle qualche secondo per riprendersi dallo shock.
Infine, sfoderò lo sguardo melodrammatico delle grandi occasioni e si preparò a recitare uno dei suoi cavalli di battaglia.
Gli occhi le lacrimavano, le dita tremavano, il naso si inumidiva, l'espressione del suo volto assunse un'aria derelitta di compiaciuta autocommiserazione:
<<Ah, bambina cara, mi piacerebbe tanto, ma purtroppo io so' povera. 
Eh, sì... so' povera, ma avvezza a viver nel pulito. 
Ora spiegami perché insisti nello spezzare il cuore a quel povero ragazzo, che tra l'altro è così ben piantato che se solo fossi un po' più giovane e il mi’ babbo fosse d’accordo… me lo sposerei io!>>
Diana, conoscendo i gusti dozzinali della De Toschi, non ne aveva dubbi.
«Io non lo amo»
La signorina Mariuccia rimase per un attimo indecisa se ridere o indignarsi, poi alla fine scoppiò in una risata la cui eco fu avvertita a tre isolati di distanza.
Rise a tal punto che poi fu colta da un attacco di tosse, che si risolse in un epico sputo nel fazzoletto.
«Eh, cara mia!» sbottò mentre piegava in quattro il fazzoletto imbrattato «mica si può pretendere che arrivi il principe azzurro a prendersi i debiti degli altri!
E poi cosa ne sai tu dell'amore? Ami forse qualcun altro? Dillo! Sai che a mmméee puoi dire tutto!»
Diana scosse il capo:
<<Non c'è nessun altro. Ma un giorno potrebbe esserci>>
Un'altra risata della De Toschi la travolse, ma per fortuna non degenerò nella tosse catarrosa precedente:
«Un giorno? Ma tu sei in età da marito adesso! Se lasci passare questo periodo, non ti vorrà più nessuno!» 
<<Meglio soli che male accompagnati>>
La Signorina si oscurò in volto e si preparò a recitare un altro pezzo forte del suo repertorio teatrale:
<<Tu non sai niente neanche della solitudine! Dell'andare a dormire in un letto freddo, del sentire la mancanza di un abbraccio, del trascinarsi nella vecchiaia senza fremiti, senza palpiti, senza neanche un momento di tenerezza umana>>
Commossa dalla sua stessa interpretazione d'arte drammatica, si soffiò violentemente il naso, sempre più costipato.
Poi si ricompose e con voce più salda riprese:
<<E comunque, mia cara, qui non si tratta di una questione d'amore, o di romanticismo, ma di matrimonio, il che è tutta un'altra cosa>>
A Diana sarebbe piaciuto chiedere a quella vecchia zitella cosa ne sapesse lei, del matrimonio, ma non era nel suo stile colpire con colpi bassi.
La De Toschi continuava a pontificare:
<<Il matrimonio è un sacramento, ma è anche un contratto. Non a caso il sostantivo femminile matrimonio va di pari passo con quello maschile di patrimonio E' il fondamento della nostra civiltà, come dice sempre il Babbo. Non a caso gli antichi Romani consideravano inscindibili i due concetti>>
E poi sferrò il colpo finale:
<<Del resto, senza un adeguato patrimonio, dovrai mettere da parte le tue abitudini da ragazza viziata, il tuo atteggiamento di superiorità, il tuo tenere a distanza le persone...>>>
Diana la fissò negli occhi, perché questa volta era stata punta sul vivo:
«Non è per presunzione che tengo a distanza la gente. 
E' che non voglio affezionarmi, perché non voglio soffrire. Chi si affeziona si pone fin da subito in una condizione di inferiorità. Chi si affeziona è ricattabile. 
L'attaccamento genera la paura di perdere ciò a cui siamo affezionati. 
La paura di perdere ciò che si ama genera la rabbia. La rabbia genera il rancore e la guerra.
Io non voglio seguire questo cammino. Lo hanno seguito i miei avi, ma io non lo seguirò. 
Ci sono molti modi di intendere la nobiltà... e questo modo mi ripugna!» 
La De Toschi aspirò profondamente dalla sigaretta.
In quel discorso aveva visto una deliberata offesa al Generale De Toschi, il che era peggio che bestemmiare Dio in persona.
Il silenzio era totale. L'aria greve di fumo.
Puntò il dito e il fazzoletto contro di lei e sfoderò il suo ennesimo monologo ad effetto:
<<Tu! Tu della rea progenie degli oppressor discesa... non è così? 
Non l'hai forse appreso in questa stessa stanza il Coro dell'Adelchi? 
In un certo senso è anche colpa mia se ti sei messa in testa certe idee strampalate. 
Ma se da qui è venuta la malattia, da qui verrà la guarigione!
Tu non sei Ermengarda, non ci saranno per te i tepidi lavacri d'Aquisgrano...
Tu non sei nessuno! Hai capito? 
Nessuno! 
Ricordatelo bene, perché è questo ciò che il mondo ti dirà, se continuerai a intestardirti.
Sai, io non riesco proprio ad immaginare come saresti se fossi povera.
Una come te, schizzinosa come te, non ce la vedo a vivere in un tugurio, e non solo téee, ma anche i tuoi genitori, i tuoi fratelli, le tue sorelle... 
E tutto per un capriccio insensato!»
Espirò una nube di fumo che, come nebbia, rese ancora più minacciosi i contorni del suo volto.
Diana guardò fuori dalla finestra, nel cortiletto ghiaioso e arido del Villino De Toschi, dove nemmeno la gramigna riusciva a crescere.
Cercò di prendere tempo:
<<Se fosse per me, sceglierei la libertà, a qualsiasi costo. Ma sento di non poter condannare le mie sorelle a questa stessa sorte. Sono ancora troppo giovani. Non capirebbero.
Però voglio che anche loro si rendano conto di com'è fatto Ettore.
Per questo concederò ad Ettore Ricci una seconda possibilità: se vorrà passare in visita a Villa Orsini, tutta la famiglia lo riceverà e cercherà di conoscerlo meglio>>
Un sorriso sornione si dipinse sul volto da ippopotamo della signorina De Toschi, che fece un cenno alla contessa Orsini, come per dire: "Vede... la mia autorità morale, culturale..."
Poi esplose in un'esclamazione:
<<Bèeeene, bèeeeeeene!!!>>
E si alzò, considerando terminata l'Udienza.
La Contessa le baciò la mano, che teneva ancora, tra le dita, il fazzoletto pieno di virus e di microbi.
Diana fu costretta a baciarle la gota dipinta di terra di Siena pesante e screpolata, su una peluria giallastra.
L'odore del fondotinta misto a quello del fumo e del fazzoletto le fece venire la nausea.
O forse era tutta quella situazione.
O la vergogna di aver ceduto a un ricatto per paura della povertà.

Vite quasi parallele. Capitolo 11 Chi viene e chi va


Pochi giorni dopo la nascita del primogenito di Romano Monterovere e Giulia Lanni, nell'ottobre 1938, le condizioni di salute della madre di Giulia si aggravarono.
La signora Elisa Lanni soffriva infatti di un'insufficienza cardiaca e dissezione aortica.
All'epoca non si poteva intervenire chirurgicamente, pertanto la situazione poteva precipitare da un momento all'altro.
Giulia sapeva che a sua madre restavano solo pochi giorni di vita: le portò il bambino appena nato, a cui era stato dato il nome di Francesco, in onore dell'ingegner Lanni.
Enrico Monterovere non aveva nascosto il suo disappunto e pretese che il prossimo figlio si sarebbe dovuto chiamare Enrico, o Enrichetta nel caso, per lui malaugurato, che fosse nata una femmina, come poi, per l'appunto, avvenne.
Nonostante l'estrema debolezza, la signora Elisa accarezzò il piccolo nipote.
Poi, con grande fatica, a voce bassa e roca, disse:
<<Una vita incomincia e una vita finisce. Una vita per un'altra vita. E' una ruota che gira. Ora tocca a te, piccolo mio>>
Essendo una donna istruita e interessata ai grandi temi della vita e della morte, volle prendere congedo con parole che rispecchiavano il suo pensiero.
Così, rivolgendosi alla figlia, al marito e al genero, sussurrò:
<<Come disse un antico saggio: è tempo di andarsene, io a morire e voi a vivere. Quale sia la sorte migliore, nessuno lo sa. Pertanto non piangete per coloro per i quali è giunta l'ora. Riservate le lacrime per i vivi, perché ci sono cose ben peggiori della morte>>
Quel discorso l'aveva stancata.
Chiuse gli occhi e si assopì.
Poco dopo entrò in un sonno sempre più profondo, e gli unici suoni che emetteva furono i terribili rantoli che soltanto chi ha accudito un moribondo può riconoscere come segnale della fine.
Giulia rimase a vegliare la madre fino a che non si spense, il mattino dopo.
Non poteva sapere che un giorno anche lei, prematuramente, sarebbe andata incontro alla stessa sorte, per la stessa malattia.
Né poteva sapere che si trattava di una malattia ereditaria, che si trasmetteva con elevata probabilità dai genitori ai figli.
E mai avrebbe immaginato che anche il figlio che teneva in braccio, un giorno, si sarebbe ammalato allo stesso modo, ma a differenza della madre e della nonna, si sarebbe salvato più volte, grazie alle nuove cure e agli interventi chirurgici, riemergendo dalle anestesie felice per essere ancora in vita e poter vedere il futuro.
A differenza di suo padre e nonostante le difficoltà a cui andò incontro, Francesco era un amante della vita, forse perché riusciva a rimuovere facilmente i brutti ricordi.
Giulia si trovava a metà strada tra la concezione radicalmente pessimista della madre e del marito, e quella possibilista e curiosa del figlio.
Ripensò spesso alle ultime parole di sua madre.
Le ponderò con attenzione nella sua mente, serbandole nel suo cuore, ma non le condivise del tutto, perché sperava per suo figlio e i gli altri figli e nipoti che sarebbero arrivati col tempo, potessero vivere in tempi migliori, e avere più opportunità, e forse, chissà, magari anche un destino importante.
In fondo i Monterovere avevano, nonostante suo marito volesse negarlo, una strana vocazione per le avventure e le epopee dinastiche.
Pensò ai discorsi di suo suocero sul castello di Monterovere Boica, vicino al villaggio di Querciagrossa: secondo il vecchio Enrico, la sua famiglia discendeva da un ramo decaduto degli antichi castellani, di origine longobarda e prima ancora celtica.
E a questo discorso si mescolavano le leggende del bisnonno Ferdinando disarcionato all'Orma del Diavolo, l'apparizione degli elfi dei boschi, le peregrinazioni raminghe di Enrico, la sabbia del deserto portata da Romano, dopo la guerra d'Africa, con gli occhi ancora pieni del colore dell'Oceano Indiano e del Golfo di Aden.
Verso dove faceva rotta una simile Odissea?
Qual era la Terra Promessa verso cui si dirigeva la nuova generazione della famiglia Monterovere?
E infine, dove avrebbe fatto naufragio questa nave?
Perché prima o poi, nella vita, si fa sempre naufragio.

venerdì 2 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 10. La Signorina De Toschi

Dopo il catastrofico primo incontro tra Ettore Ricci e Diana Orsini presso il famoso Salotto Liberty, entrambe le famiglie si riunirono per fare il punto della situazione.
Diana aveva giurato e spergiurato che mai e poi mai si sarebbe fidanzata, e tantomeno sposata, con quel "rozzo e strambo personaggio". Piuttosto si sarebbe fatta monaca di clausura.
La governante, Ida Braghiri, aveva subito riferito queste parole al padre di Ettore, di cui era la "quinta colonna" all'interno della Villa Orsini.
Quando i due patriarchi si trovarono faccia a faccia, il vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci si dichiarò offeso, e dopo una serie di imprecazioni irriferibili, asserì, con grande scandalo del Conte Attilio, di essere felice che suo figlio Ettore non fosse un damerino effeminato come i figli dei nobili e aggiunse che non era affatto "strambo", semmai lo erano gli Orsini, che avevano sperperato il loro patrimonio in cose assurde e moralmente discutibili.
Dopo questo affronto, il Conte si era tolto il guanto bianco e stava per sfidarlo a duello, quando le rispettive consorti intervennero per evitare il peggio.
E così la diplomazia si rimise all'opera.
Clara Ricci ed Emilia Orsini, preso atto della gravità della situazione, e del fatto che comunque quel matrimonio "s'aveva da fare", si trovarono d'accordo su un punto fondamentale, e cioè che esisteva un'unica persona in grado di far cambiare idea alla giovane Diana.
Questo pensiero venne espresso da entrambe all'unisono:
<<In questi casi non c'è che la Signorina>>
Questa affermazione, dai vaghi echi manzoniani (si pensi alla Monaca di Monza), trovò concordi anche i mariti, che nutrivano per la suddetta Signorina  una sorta di venerazione simile a quella che gli antichi Romani tributavano a Giunone Pronuba.
Occorre dunque conoscere bene questo carismatico personaggio.
Ospite fissa agli eventi mondani dell’Alta Società, la signorina Mariuccia De Toschi era un’attempata nubile di buona famiglia e, per parte di padre, di ostentate origini toscane (anche se tutti sapevano che era nata e cresciuta a Forlì), unica figlia ed erede del glorioso generale Ardito De Toschi e della compianta nobildonna Violetta Orsini di Casemurate, cugina del Conte Attilio.
Di Violetta Orsini quasi nulla si sapeva, essendo morta di tisi poco dopo aver dato alla luce la figlia Mariuccia. Del resto la stessa Violetta aveva sempre sostenuto che una donna onesta di buona famiglia compare solo tre volte nei giornali: quando nasce, quando si sposa e quando muore.
E così fu.
Del generale De Toschi, invece, erano note tutte le gesta, decantate dalla moltitudine di attendenti succedutisi al suo servizio, per poi elevarsi verso luminose carriere nei più svariati ambiti dell’Alta Società.
Ardito De Toschi, nato a Pistoia nel 1865, era stato in gioventù allievo ufficiale all’Accademia di Modena, poi tenente ai tempi di Crispi nella Guerra di Eritrea e Somalia, capitano nella guerra di Libia, colonnello durante la Grande Guerra '15-18, Cavaliere di Vittorio Veneto (medaglia d’oro, secondo le leggende più accreditate). Generale di brigata nella Guerra d'Etiopia, era all'epoca comandante del contingente italiano nella guerra civile spagnola a fianco dei sostenitori di Francisco Franco (“il babbo salverà la Spagna dai comunisti” soleva rammentare sua figlia) e aveva da poco ottenuto il grado di generale di corpo d'armata.
Tra una guerra e l'altra, il Generale aveva acquistato una palazzina, subito denominata Villino De Toschi, a Forlì, la città più vicina al Feudo che portava il cognome della sua defunta moglie.
E proprio a Forlì sua figlia Mariuccia aveva studiato e ottenuto l’incarico di docente di Latino e Greco presso il Liceo Classico, anche se in seguito avrebbe negato l'evidenza, dando a intendere di avere compiuto tutti i suoi studi in Toscana, risciacquando così "in Arno" quello che lei giudicava il volgare dialetto gallico dei Romagnoli.
Ostentava infatti un eloquio esageratamente toscano che avrebbe stupito persino il Sommo Dante.
E tuttavia c'erano molti testimoni del fatto che la Signorina aveva studiato prima a Forlì e poi a Bologna, alloggiando presso il Collegio delle Sorelle del Sacro Cuore.
Nessuno però avrebbe mai osato contraddirla, per non incorrere nelle ire del suo anziano, potente e militaresco genitore.

Riguardo proprio al potere del Generale De Toschi (basato più sulle conoscenze personali che sulla politica), a Forlì circola ancora questo simpatico aneddoto.
Dopo la laurea in Lettere Classiche a Bologna nel 1913, la signorina Mariuccia aveva sostenuto a Roma il concorso per la docenza superiore: in tale occasione, agli orali, ella sarebbe stata accompagnata “dal babbo” in alta uniforme e decorazioni civili e militari, che con aria cupa e vagamente minacciosa avrebbe così apostrofato (con spiccato accento toscano) la commissione d’esame: «Chodesta è la mi’ unicha figliola! Che Dio la benedicha! Trattatemela bene o chonoscerete la lealtà degl’atthendhenti del scenerale De Toschi!»
Inutile dire che la “cara figliola” passò l’esame col massimo dei voti e ottenne subito la docenza e la cattedra a due passi da casa sua.
Alcuni dei suoi primi studenti giuravano che la Signorina, all’inizio della carriera fosse bellissima: si elogiavano le sue lunghe trecce bionde acconciate sul capo, gli occhi color acquamarina, e il fisico perfetto.
Non tutti però erano dello stesso parere e, pur guardandosi bene dallo sfatare quel mito in pubblico, confessavano che già allora la Signorina tendeva alla pinguedine, ed i suoi occhi sporgenti, per quanto vagamente azzurrognoli, non ricordavano di certo il mare o l'oceano.
Il passare del tempo non migliorò la situazione, che anzi risentì del micidiale appetito e del feroce tabagismo dell'eccellente Signorina.

Negli Anni Trenta, quando Diana Orsini incominciò ad andare a ripetizione di Latino e Greco da lei, (non che ne avesse bisogno, ma la Signorina ci teneva molto, volendo rinsaldare i rapporti col Conte Attilio) la trovò obesa, massiccia come un ippopotamo, gonfia, catarrosa e afflitta da raffreddori perenni, aggravati dalla bronchite cronica da fumo (“con una mano teneva la sigaretta e con l’altra il fazzoletto da naso”).

Per quanto fosse estremamente timorata di Dio e fervente cattolica, la Signorina non si faceva mancare nessuno dei sette peccati capitali.
Per compiacere nel contempo la gola e l'avarizia, si faceva invitare a cena ogni sera a scrocco da una delle infinite famiglie di amici, parenti, ex studenti ed ex attendenti del "Babbo".
Che fosse una forchetta da competizione era cosa arcinota: in particolare era ghiotta di salumi e insaccati, e tra i regali più graditi che potesse ricevere vi erano prosciutti, mortadelle, cotechini, zamponi e salsicce, o, come diceva lei, alla toscana: “salcicce”.
Diana l’aveva imparato a sue spese.
Una volta infatti, pensando di farle cosa gradita, le aveva regalato per Natale alcuni libri di cultura letteraria e classica. La signorina Mariuccia, gelida e quasi offesa, non aveva neppure scartato i pacchi. Il Natale successivo alcuni giurarono di avere ricevuto gli stessi pacchi in regalo dalla signorina.
Per Pasqua, Diana le aveva regalato una spilla: questa volta la Signorina aveva mostrato un qualche segno di apprezzamento, ma subito prevalse la superstizione, e l'eccellente Mariuccia, quasi in lacrime, dichiarò che, onde evitare che il regalo portasse sfortuna, c’erano solo due soluzioni: o lei stessa avrebbe dovuto dare 5 centesimi a Diana, oppure avrebbe dovuto farsi pungere dalla spilla.
Preferì farsi pungere.
Diana, che aveva capito l’antifona, il Natale successivo le regalò un cesto pieno di salumi e formaggi, e la signorina la baciò e l’abbracciò più volte, piangendo a dirotto per la gioia.

A scuola era il terrore dei suoi allievi, a meno che non fossero di famiglia altolocata, mentre con quelli che venivano a lezione privata soleva mostrarsi materna, specialmente se erano figli di medici, avvocati, notai, dentisti, ma anche, non si sapeva mai, di idraulici, elettricisti, muratori e altri professionisti di comprovata utilità.
Teneva le ripetizioni tutto il pomeriggio in uno stanzino freddissimo e scomodo, a piano terra del Villino De Toschi.
Nessuno, tranne i domestici, ebbe mai accesso al piano nobile, il “sancta sanctorum”, dove in seguito l’anziano generale-padre avrebbe trascorso la sua dignitosa vecchiaia.
Alle 5 in punto del pomeriggio la governante, signora Gelsomina, madre del parroco, le portava il tè e le sigarette.

Ogni mattina la signorina Mariuccia e la signora Gelsomina si recavano a messa alle 6, con la carrozza di proprietà dei Conti Orsini, mandata apposta quotidianamente dalla loro Villa di Casemurate, poiché la Signorina, pur essendo benestante, non intendeva scialacquare denaro in mezzi di trasporto 
Dopo la Santa Messa, le due pie donne si recavano al cimitero, a portare fiori sulla tomba della defunta Violetta Orsini, madre della Signorina.
Poi, con l’anima monda dai peccati, l'eccellente Mariuccia si recava al lavoro, al Liceo Classico a terrorizzare i malcapitati studenti con spietate interrogazioni sulla consecutio temporum o sulla coniugazione dell'aoristo greco.
Se prendeva in antipatia uno studente, per lui era finita. Tartassato, rimandato, bocciato, costretto a cambiare istituto, quasi sempre lo sventurato finiva per abbandonare gli studi.
Se al contrario prendeva uno studente in simpatia, costui si diplomava a pieni voti, e gli si apriva un avvenire florido, sostenuto dai vari “attendenti del babbo” infiltrati in ogni angolo dell’Alta Società.
In verità la signorina De Toschi, pur essendo in grande amicizia con i vecchi notabili liberali (ai quali faceva capire strizzando l’occhiolino che era ancora dalla loro parte). e pur ricordando ai cattolici e ai monarchici di giurato eterna fedeltà solo e soltanto al Papa e al Re (come aveva confidato ad un imprecisato numero di “attendenti del babbo”), ostentava pubblicamente il gagliardetto fascista.

Ma non era tanto il voto politico a costituire il grande mistero della signorina De Toschi, quanto la sua vita sentimentale.
Su questa materia si favoleggiavano le più disparate leggende.
Innanzi tutto era assodato che la Signorina aveva una speciale attrazione per gli uomini giovani e robusti, in genere lavoratori manuali, meglio se poco istruiti.
Ai tempi dell’università aveva preso una sbandata per un aitante giovanotto, che ella presentò al padre prima come studente di ingegneria, poi come geometra di successo, infine, quando la nuda verità non poteva essere più nascosta, come "libero" muratore iscritto alla Massoneria e infine come manovale a cottimo.
Di costui non si seppe più niente, anche se molti dicono che una sera fu preso a bastonate da alcuni individui non identificati.

Il secondo grande amore della Signorina fu, manco a dirlo, un altro muratore, che era vedovo di una collega con gli stessi gusti “ruspanti”, che era stata, per anni, la sua migliore amica.
Costei si chiamava Liliana e il marito Priamo o Priapo…non è dato sapere con esattezza, comunque si diceva che fosse un nome ben rappresentativo del personaggio e alcuni si spingevano persino a ipotizzare che all'origine di tutto vi fosse non tanto un errore di qualche impiegato dell'anagrafe, quanto piuttosto lo scherzo di un prete burlone, rimasto impressionato dagli attributi del neonato da battezzare.
Fintanto che Liliana era in vita, invitava a pranzi luculliani la vorace signorina De Toschi, la quale, non paga di ingozzarsi di tortellini e piadine al salame, si mangiava con gli occhi pure il carissimo Priapo.
Accadde poi che la signora Liliana morisse di una leucemia fulminante.
Da quel momento la signorina De Toschi fu in prima fila a consolare l’inconsolabile vedovo.
Dopo alcuni mesi la si vide indossare la pelliccia che era stata della signora Liliana, e poi la collana di turchese, sempre della defunta, e gli orecchini di corallo, e il collier d’oro bianco e via dicendo.
Quando ormai l’intera eredità della compianta Liliana fu trasferita nel Villino De Toschi, escluso il vedovo, la grande storia d’amore si affievolì, sia perché “il Babbo non voleva”, sia, secondo altri, perché le doti priapiche del suddetto Priapo non soddisfacevano abbastanza l'insaziabile ninfomania della stagionata Signorina.
A quel punto Mariuccia De Toschi, che mai si sarebbe accontentata di sublimare nelle lettere classiche o nella devozione religiosa i suoi consistenti appetiti, mise gli occhi addosso al marito di un'altra sua amica di vecchia data, conosciuta negli anni del collegio al Sacro Cuore.
Questa amica altri non era che la maestra Clara Vallicelli, coniugata Ricci.

Come già detto, suo marito Giorgio detto "Zuarz", il cui irsutismo ipertricotico denotava una debordante presenza di testosterone nel suo organismo, aveva leggendarie doti priapiche, testimoniate da un numero imprecisato di figli bastardi.
La virilità di Zuarz era oggetto di rispettosa venerazione. Persino suo figlio Ettore ricordava di averlo visto nudo una volta che faceva il bagno in una tinozza nella penombra del tugurio adibito a lavanderia. Per quanto buio fosse l'ambiente, avrebbe giurato sulla sua stessa testa che i testicoli del vecchio padre fossero grossi come uova di piccione. Per decenza si taceva della lunghezza del membro.

La signorina De Toschi non dimenticava le ore di sollazzo che Giorgio Ricci le aveva regalato, ed era sempre pronta a ricambiare il favore.

Per questo fu deciso che a parlarle sarebbe stata la maestra Clara, che pur avendo sempre portato le corna con grandissima dignità, fingendo di non sapere nulla, poteva comunque, implicitamente s'intende, minacciare di rivelare lo scandalo.
La scaltra signora Ricci spiegò alla venerabile Signorina De Toschi quanto fosse doloroso, per la sua famiglia, l'ostinato rifiuto di Diana Orsini nell'accettare il corteggiamento di Ettore Ricci.
Nel parlare di questo, accennò anche ai debiti del Conte verso il vecchio Zuarz.
Mariuccia De Toschi, che conosceva già la storia nei minimi particolari e voleva a tutti i costi che una fetta del patrimonio degli Orsini toccasse anche a lei, non aspettava altro per poter far valere ancora una volta la propria autorità.
Annuì vigorosamente, facendo tremolare tutta la pappagorgia, poi espirò una nube di fumo di tabacco, sollevò un indice verso il cielo e disse: <<Ci penso io!>>

giovedì 1 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 9. Com'era verde la mia valle

Giulia Lanni e Romano Monterovere iniziarono a frequentarsi, presso la residenza dell'ingegner Lanni a Faenza, a partire dal 1938.
Erano entrambi timidi, taciturni e riservati, come quel genere di persone che attraversano la vita ad occhi bassi, in punta di piedi, per salvaguardare la quiete nella quale si rifugiano al fine di sfuggire ai dolori del mondo.
Questa affinità fu forse uno dei motivi che favorì il nascere di una amicizia che si trasformò in un sentimento e poi in una frequentazione ufficiale.
All'inizio passeggiavano per il centro di Faenza, a braccetto, e Giulia cercava di farlo parlare, per trovare una conferma a ciò che aveva intuito.
Da persona profondamente sensibile, Giulia percepiva in lui un vago malessere che aveva radici lontane nel tempo.
Doveva esserci stato, nell'infanzia di Romano Monterovere, un periodo in cui era stato pienamente felice e innocente, seguito da un momento in cui aveva perduto qualcosa, qualcosa che amava.
<<Ti manca la tua terra d'origine?>>
Lui annuì subito con vigore:
<<Sì, molto, e se fosse stato per me, non avremmo mai lasciato la nostra casa in collina, vicino al bosco. Mio nonno era un boscaiolo, stava sempre tra gli alberi. Si procurava la legna solo dai rami secchi, o dagli alberi che stavano morendo. Non abbatteva mai un albero sano. Mai>>
Giulia era contenta di aver trovato un argomento in grado di farlo parlare, di confidarsi.
Sentiva di essere vicina a scoprire l'evento traumatico che aveva creato una prima crepa nella personalità di Romano.
<<La scelta di tuo nonno fu ammirevole>>
Lui scosse il capo:
<<I nostri compaesani la pensavano diversamente. La legna non era mai abbastanza, o era di qualità scadente, secondo loro. Incominciarono a parlar male di mio nonno e di tutta la nostra famiglia. Dicevano che... ah, ma è una cosa assurda, non è nemmeno il caso di parlarne>>
Giulia invece era molto interessata:
<<Perché no?>>
<<Perché erano delle sciocchezze. Dicevano che mio nonno fosse un pagano, una specie di stregone, che adorava gli alberi, in particolare le querce. Circolavano storie strane su un posto maledetto, dove i Galli adoravano un'antica quercia, che secondo alcuni ha dato il nome al paese dove abitavamo: il villaggio di Querciagrossa.
Superstizioni ridicole! Ma sono servite a concentrare su mio nonno l'odio dei paesani. 
Io credo...>>
Poi si fermò: aveva gli occhi lucidi.
Lei non voleva farlo soffrire, ma forse sfogarsi, aprirsi, confidarsi, poteva alleviare il peso di quel ricordo:
<<Sai che puoi contare sulla mia discrezione e comprensione. Sento che hai sofferto e forse è venuto il momento di affrontare quel ricordo>>
Lui annuì:
<<Ufficialmente mio nonno è morto cadendo da cavallo. Trovarono il cavallo azzoppato e agonizzante e il corpo di mio nonno, già stecchito. 
Io credo che non sia stato un incidente. Per me qualcuno ha fatto imbizzarrire il cavallo. Mio nonno stava tornando a casa lungo un sentiero di collina, in mezzo al bosco. Era sera, era buio e lui era vecchio. E' stato facile farlo cadere. Insomma io credo che l'abbiano ammazzato.
E poi, non paghi di quello che avevano fatto, hanno incominciato a dire che il cavallo si era imbizzarrito perché aveva visto i folletti dei boschi, proprio vicino alla zona dove c'era l'antica quercia, abbattuta tanti secoli fa. Dicevano che era un luogo maledetto... i più superstiziosi lo chiamavano l'Orma del Diavolo.
Mio padre e i miei fratelli erano terrorizzati, ed è per questo che siamo andati via. 
Ma a me manca tutto di quel luogo, e mi manca mio nonno. Lui era un uomo speciale, un vero uomo. Non ne verranno più di uomini come lui, nella mia famiglia.
Io no di certo... mi sento fuori posto, a volte mi sembra di essere come un albero che è stato trapiantato in una terra sbagliata>>
Giulia era scossa da quel racconto, ma contenta che lui si fosse confidato, perché questo le aveva permesso di capire come mai Romano, che esteriormente sembrava essere forte, interiormente poteva non esserlo affatto:
<<Forse quest'albero trapiantato ha bisogno di un sostegno, che gli permetta di rimanere dritto e irrobustirsi>>
Lui annuì:
<<Sì... è così... >>
Giulia gli strinse la mano e lui colse in quel gesto una promessa, e strinse a sua volta.
Poi però aggiunse:
 <<Per onestà devo dire una cosa: non è facile convivere con me>>
Giulia aveva capito anche questo.:
<<Mi insegnerai come fare>>
<<Ci proverò>>
Lei capì che la situazione era ancora più complessa di quanto immaginava.
<<Tu hai imparato? Intendo dire, a convivere con te stesso...>>
Gli occhi di lui si persero in una nube di pensieri, mentre rispondeva a bassa voce:
<<Non lo so>>
<<Ti aiuterò io>> disse Giulia
Si sposarono pochi mesi dopo.
Fintanto che Giulia ebbe vita, mantenne la sua promessa.