lunedì 29 marzo 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 120. Amore e Gloria


La vetrata sovrastante, che si trova nella cattedrale di Bruges, è un dittico che ritrae, presumibilmente, la duchessa Maria di Borgogna e il suo sposo, Massimiliano d'Asburgo, all'epoca Arciduca d'Austria.
Secondo altre fonti i due personaggi ritratti sarebbero invece Giovanna di Castiglia, all'epoca Principessa delle Asturie e di Girona, ossia erede al trono di Spagna e Filippo il Bello, Duca di Borgogna e figlio di Massimiliano e Maria.

Per quanto entrambi i matrimoni fossero sorti da esigenze politiche e dinastiche, tanto da creare, in sole tre generazioni, uno degli imperi più grandi della storia.  furono anche matrimoni d'amore e di passione, su cui le generazioni successive hanno favoleggiato per secoli.
Gli ingredienti, del resto, c'erano tutti:
Amore e gloria, nello stesso tempo, ma anche tragedia, come richiede la letteratura, 
E' un concetto che merita attenzione: le storie d'amore felici non interessano a nessuno, i lettori vogliono che gli amanti soffrano, e paghino di persona la loro felicità. 
La storia può finir bene o finir male: l'importante è che ci sia una buona dose di sofferenza, perché la felicità altrui, come del resto la fortuna altrui è noiosa e spesso suscita un sentimento di invidia che mette a disagio il lettore.
E allora eccogli servita l'azione complicante, o la tragedia finale, se proprio i personaggi hanno avuto in precedenza troppa fortuna.
Un perfetto esempio di tutto ciò è la tragedia con cui sia i primi che gli ultimi Asburgo scontarono l'amore e la gloria dei loro fortunati matrimoni.

Maria di Borgogna morì giovane per una caduta da cavallo, suo figlio Filippo morì altrettanto giovane in circostanze mai del tutto chiarite e Giovanna, per il resto della sua lunga esistenza, visse reclusa nella fortezza di Tordesillas, con la fama, mai dimostrata, di essere impazzita di dolore dopo la morte del bellissimo marito.

Questo incipit ci serve come introduzione di una delle tante stranezze partorite dalla mente disturbata di Roberto Monterovere. 
Per quanto, nonostante la sua vanità e il suo desiderio d'amore e gloria, Roberto fosse ben consapevole del fatto che il clan Ricci-Orsini-Monterovere non era la Casa d'Austria e Borgogna, e il clan Visconti-Ordelaffi non era la Casa di Castiglia e Aragona, nella sua sfrenata immaginazione era sorto un ridicolo parallelismo tra la propria vicenda di amore e gloria e quella dei citati principi del Sangue Reale, con i loro matrimoni dinastici che furono anche matrimoni d'amore.
A queste riflessioni dedicheremo un certo spazio, prima di tornare, verso la fine del capitolo, alla narrazione vera e propria. Ma noi crediamo che questi pensieri servano per meglio capire il resto.
Qui sotto potete, intanto, ammirare lo stemma di Massimiliano I quando divenne Imperatore: l'aquila nera bicipite del Sacro Romano Impero e il blasone della Casa d'Austria e Borgogna.


Ora dovete sapere che il nostro Roberto Monterovere, nella sua follia d'amore e di ambizione, aveva incominciato a sentirsi come un epigono di Massimiliano o di Filippo, e tutta la sua cultura araldica e la sua ossessione per gli stemmi, gli alberi genealogici, e i ritratti dei principi e delle principesse delle case reali, lo avevano indotto, con un atto di hybris che oscillava tra la tracotanza e l'assurdità, a scegliere Filippo come modello di riferimento per tutto, tranne che per la morte precoce.

Può essere che, trent'anni fa, data l'età adolescente, avessero forse qualche tratto comune.
A diciassette anni, Roberto Monterovere, oltre alla folta e lunga capigliatura, (che avrebbe conservato nel tempo, salvo alcuni intervalli dovuti alle fidanzate di turno), aveva la pelle chiarissima e glabra, i connotati dolci ancora infantili, tra cui le labbra piene e le cartilagini del naso ancora non troppo pronunciate, e soprattutto una costante espressione un po' blasé, che con una certa generosità e una buona dosa di piaggeria, i sudditi di Filippo I giudicarono sufficienti per chiamarlo "il Bello", "le Beau" o "el Hermoso".  Adesso diremmo "the Handsome".



Filippo, Duca di Borgogna, delle Fiandre, del Brabante e del Lussemburgo, fin dalla nascita, fu allevato dalla nonna Margherita di York, sorella di Edoardo IV e di Riccardo III, scampata alla disfatta yorkista nella Guerra delle Due Rose, sposando Carlo il Temerario.
Il bel Filippo era francofono, e pur essendo un Asburgo, e quindi appartenente anche alla Casa d'Austria, si sentiva più che altro erede della Casa di Borgogna, e non ricoprì mai, come erroneamente alcune fonti sostengono, il titolo di Arciduca d'Austria, che rimase a suo padre Massimiliano anche dopo la sua ascesa al trono imperiale e fu poi ereditato dal secondogenito di Filippo e Giovanna, ossia Ferdinando I, il capostipite del Ramo Austriaco della dinastia.
Ciononostante esistono ritratti di lui, bambino, circondato dagli stemmi delle varie regioni austriache.




Il suo stemma personale come Duca di Borgogna, però, poneva al centro il Leone Nero delle Fiandre, su campo dorato, perché era lì, nel ricco porto di Bruges, il baricentro dei suoi possedimenti, più prestigioso persino del Leone d'Oro su campo nero, stemma del Brabante. 
Bruxelles era un vescovato autonomo, e il Vescovo, primo consigliere del Duca era de facto il governatore di tutto il Ducato.


Tornando al discorso di Roberto e ai suoi deliri di parallelismo, c'era anche il fatto che Filippo era nato negli Anni Settanta, sì, ma del Quattrocento!
Ma questo era un dettaglio trascurabile, di fronte alle altre "sconvolgenti" coincidenze.
La sua amata Giovanna era quasi sua coetanea (più giovane di un solo anno) e si sposarono giovanissimi, a diciott'anni, (che però era la norma, all'epoca). 


Come è noto una serie di lutti, ultimo dei quali la precoce morte della regina Isabella, portò, nel giro di un tempo molto breve, Giovanna, sul trono di Castiglia come Regina regnante suo iure.




Filippo divenne dunque Re consorte di Castiglia, per quanto Giovanna, innamoratissima di lui e costantemente indisposta a causa di una gravidanza dietro l'altra (la coppia ebbe sei figli), lasciò di fatto al marito il governo del Regno, cosa che infastidì Ferdinando d'Aragona e il solerte cardinale Cisneros. 
Qualcuno aveva messo in giro la voce che Filippo e Giovanna volessero depotenziare la Santa Inquisizione. Due anni dopo Giovanna elevò Filippo al rango di Re regnante.





Regnarono insieme solo due anni, dal 1504 al 1506, dopodiché la morte improvvisa di Filippo, a soli 28 anni, le causò una profondissima depressione, che all'epoca era considerata una forma di pazzia.
Le fazioni si divisero, i Castigliani volevano Giovanna, ma Cisneros e gli Aragonesi, citando il testamento di Isabella, richiedevano la reggenza del padre Ferdinando nel caso la Regina non godesse di buona salute. Furono messe in giro leggende nere e macabre, specie riguardo a certi dettagli del corteo funebre, che era diretto a Cordova, perché lì era stata sepolta anche la regina Isabella.
La differenza, però, fu che quando il feretro di Isabella fu trasportato da Medina del Campo a Cordova, nessuno aveva protestato per la lunghezza del tragitto, non c'era stato bisogno (essendo novembre) di camminare di notte per conservare l'integrità della salma, né che ad ogni tappa, la suddetta salma dovesse essere tenuta al fresco. Ma quando Giovanna fu costretta a viaggiare di notte, essendo solo settembre e ancora molto caldo, Cisneros e i suoi sostenitori, tra cui Germaine de Foix, seconda moglie di Ferdinando, ebbero buon gioco a dire che la Regina era impazzita.

Diana Orsini era ossessionata da questa storia e dal personaggio di "Giovanna la Pazza", Juana la Loca, forse perché, soffrendo di depressione, temeva di fare la sua stessa fine, ma grazie il Cielo i tempi erano cambiati.
Aveva raccontato mille volte quella storia a suo nipote Roberto, il quale ne conosceva infiniti dettagli e particolari e aveva cercato di separare le leggende nere dalla più verosimile ricostruzione storica moderna.

E qui veniva la fase in cui, secondo Roberto, i "parallelismi" tra lui e Filippo il Bello, dovevano assolutamente finire.
Per dirla con Virgilio, e con i versi che commossero Augusto, Ottavia e Giulia alla morte di Marcello, l'erede designato, heu miserande puer, si qua fata aspera rumpas, tu Marcellus eris (Aen. VI, 884).

Roberto, che come sappiamo amava l'araldica, era affascinato dagli stemmi reali di Filippo e Giovanna, il primo col Collare dell'Ordine del Toson d'Oro, massima onoreficenza della Casa d'Austria e Borgogna, il secondo molto simile a quello impostato dalla regina Isabella, ma riportante anche gli stemmi asburgici "inquartati" insieme a quelli spagnoli.





Se la morte precoce non avesse posto fine al regno di Filippo I, forse sarebbe diventato lui l'Imperatore sul cui regno non non tramontava il sole, al posto di suo figlio Carlo V, nel cui stemma, possiamo ammirare, oltre alla corona d'Austria e all'aquila imperiale bicipite, anche una metà della Croce di Borgogna, che unisce la corona e la stola alle teste dell'aquila, e le Colonne d'Ercole, che ormai non significavano più la fine del mondo, ma il suo contrario: Plus ultra.






Carlo V si illudeva che tutti si sarebbero dimenticati del "piccolo dettaglio" secondo cui sua madre, la legittima Regina Regnante suo iure, era viva e vegeta, e sempre meno persone credevano che il suo confino fosse volontario.
Crediamo che sia destino, specie per coloro che si chiamano Carlo, che l'ombra delle madri regine, nel bene e nel male, incomba sulla gloria dei loro figli, quasi per oscurarne il fulgore.

Tutti, in Castiglia, si chiedevano: <<Ma la regina Giovanna è davvero pazza, oppure vorrebbe semplicemente governare in maniera diversa da suo figlio?>>
Il povero Cisneros, dopo aver brigato per una vita intera a rafforzare la posizione di Carlo, morì misteriosamente e opportunamente, quando quest'ultimo, nel 1516, alla morte del nonno Ferdinando, lasciò le Fiandre per le Spagne, che ai suoi occhi servivano ad un solo scopo: procurarsi denaro per conquistare la Francia e l'Italia e restaurare l'Impero d'Occidente, più la Germania.
I Castigliani lo sapevano benissimo e incominciarono a chiedersi quali fossero le reali condizioni di salute della Regina.
Ci sono molte testimonianze di spicco, tra cui quella di San Francisco Borgia, illustre gesuita, e persino di papa Adriano VI, i quali scrissero ripetute missive a Carlo V, lamentando il fatto che non ci fosse motivo per confinare la Regina a Tordesillas, dove il corteo funebre era stato fermato dieci anni prima da Cisneros.
Gli ecclesiastici che regolarmente facevano visita alla Regina, riportavano ai superiori più o meno lo stesso resoconto, ossia che Sua Maestà appariva prostrata, di umore altalenante, ma, come diremmo oggi, pienamente in grado di intendere e di volere.

Ormai tutti avevano capito che il vero problema, tra madre e figlio, era la totale discordanza soprattutto su un punto: Giovanna, dimostrando con ciò di avere molto più senno di quanto le si attribuisse, voleva che l'argento delle Americhe rimanesse in Castiglia e non andasse a finanziare le guerre contro la Francia o in Italia.
Le rare volte in cui il figlio o il nipote, futuro Filippo II, le fecero visita, sostenne che il destino della Castiglia fosse quello di unificare la penisola iberica, compreso il Portogallo, ma tramite una pacifica politica matrimoniale, mentre non condivideva l'utopia di Carlo, e cioè il suo sogno di creare una sorta di Impero universale cristiano.
Anche su questo ebbe ragione lei e poté constatarlo molti anni dopo, quando lo stesso Carlo incominciò a dubitare del proprio sogno e a pensare che il suo impero andasse diviso tra suo figlio e suo fratello.

Per tutta la sua vita, Carlo V condivise formalmente il potere con la Regina sua madre, la cui longevità fu quasi una punizione divina nei confronti del figlio "usurpatore", e la conclusione di questa vicenda familiare è degna di una tragedia greca o di un dramma shakespeariano.

Juana la Loca, dopo mezzo secolo di confinamento a Tordesillas, si spense, a 76 anni, nel 1555 e suo figlio l'Imperatore, dopo averle dedicato un requiem solenne e riesumato il corpo di Filippo ancora miracolosamente integro, percorse il corteo funebre con le stesse modalità che alla madre erano costate l'accusa di pazzia, e seppellì entrambi i genitori a Granada, nella stessa cripta dove riposavano i Re Cattolici. E poi, nello stupore generale, abdicò l'anno successivo, 1556. afflitto dagli insuccessi militari, dalla gotta e da un tumore alla prostata, per poi morire poco dopo, tra atroci sofferenze, presso il monastero di Yuste, nell'assolata e quasi desertica Estremadura.
Fu vera gloria? Ai lettori lasciamo manzonianamente l'ardua sentenza, pur riconoscendo a Carlo e a suo fratello Ferdinando, il merito indiscutibile di aver frenato il dilagare dei Turchi in Europa.

Roberto Monterovere, che amava gli aneddoti e le singolari coincidenze, in seguito avrebbe più volte pensato all'ironia della Storia. A una Regina rovinata dal figlio Carlo, era seguito, in tutt'altra terra e in tutt'altra epoca, un Carlo "rovinato" da una madre Regina, eterna e propensa a riversare il suo affetto su cani e cavalli piuttosto che sui propri discendenti.

Ma in fondo, nonostante tutta questa capillare conoscenza della Storia, materia in cui ottenne anche una laurea, Roberto non apprese mai, se non quando tutto era perduto, compreso l'onore, la lezione più importante, ossia che, per quanto gli uomini possano sforzarsi nel perseguire un obiettivo, alla fine l'esito degli eventi dipende da una combinazione imprevedibile di fattori che, a seconda della propria visione del mondo, possono essere attribuiti, al Caso, al Destino o alla Volontà divina.

A dire il vero, Roberto non aveva appreso a sufficienza neanche il fatto che, molto frequentemente, quando un personaggio o una famiglia, raggiungono le mete più ambite e il più grande successo, incomincino a rovinarsi con le proprie stesse mani.

"Quando gli dei vogliono punirci" scriveva Karen Blixen, ispirandosi a un aforisma di Oscar Wilde, "avverano i nostri desideri". La versione di Wilde era pressoché identica, ma paradossalmente più puritana: "esaudiscono le nostre preghiere". 
Il concetto è lo stesso, per quanto la Blixen, appartenente a una generazione successiva e consapevole dell'aspetto inconscio del desiderio, sia più vicina alla teoria freudiana.
Perché questo paradosso risulta convincente?
Forse perché ci costringe a riflettere su cosa desideriamo davvero, quanto convintamente lo desideriamo e soprattutto se ciò che desideriamo è lecito e morale. 
Ma l'elemento principale di questo paradosso riguarda le conseguenze: siamo sicuri che l'avverarsi di un certo desiderio sia automaticamente foriero di benessere?
La verità è che non lo sappiamo e non possiamo saperlo se non ex post.
Molto spesso si rimane delusi, ma è questo è il minore dei mali.
La cosa più pericolosa è che, a causa di fattori imprevedibili, il successo può portare a conseguenze che nemmeno i più saggi e lungimiranti possono mettere in conto. 
Anche su questo argomento ci affidiamo alla saggezza del nostro Tolkien, che fa dire a Gandalf le seguenti, fondamentali, parole:
"Molti tra i vivi meritano la morte. E molti che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze".

Vorremmo concludere questo excursus con un esempio estremo, paradossale, al solo fine di rendere ancora più chiaro il concetto del ruolo del Caso, del Destino o della Volontà divina nella Storia.
Più di un secolo fa un bambino austriaco si ammalò gravemente di febbre e sua madre pregò Dio di farlo guarire.
Quel bambino si chiamava Adolf Hitler. La preghiera della madre fu esaudita, il bambino sopravvisse e le conseguenze furono 25 milioni di morti, nella seconda guerra mondiale, di cui 6 in campi di sterminio, per non parlare delle persecuzioni e di tutto il dolore non solo delle vittime, ma anche dei loro parenti e amici sopravvissuti.
Non occorre aggiungere altro, per capire che mai e poi mai potremmo essere in grado di conoscere le conseguenze persino del più innocente, puro e naturale dei desideri.

Tutta questa lunghissima premessa, di cui ci scusiamo con i lettori, lodandoli per la loro pazienza e tolleranza nei nostri riguardi, se sono arrivati a leggere fin qui, per dire che la rovina del clan Ricci-Orsini-Monterovere, così come del clan Visconti-Ordelaffi, ebbe come causa originaria proprio il fatto che i desideri più ambiziosi dei suoi membri di spicco e dei suoi promettenti rampolli furono esauditi, portando il loro benessere, la loro ricchezza, il loro potere al massimo livello di onore e gloria.

Fu proprio nello stesso momento in cui questo vertice venne raggiunto, che incominciò quella concatenazione di eventi che finì per travolgere tutto e tutti in tempi relativamente brevi.
Ma come sempre, procederemo per gradi, nella narrazione, soffermandoci in particolare su aspetti apparentemente secondari, destinati invece a provocare serie e sproporzionate conseguenze.



Quando i Visconti, quella sera del fatale 1 luglio 1992, scesero dall'automobile, i Monterovere erano davanti al cancello delle "mura interne", ad attenderli.
Per prime si fecero avanti le madri, con grandi salamelecchi e roboanti dichiarazioni di reciproco affetto e meraviglia per "quanto sei bella questa sera".

Poi fu il turno dei figli: Roberto si fece avanti verso Aurora, abbagliato più che mai dalla sua bellezza e dalla sua eleganza. Quella sera aveva scelto un look degno delle grandi occasioni: indossava un rutilante abito di paillettes dorate, corto e aderente, ma a maniche lunghe e senza scollatura, e una sottogonna in tulle che accentuava la sensualità delle gambe slanciate e sinuose come quelle di una fata o di una silfide. I capelli erano pettinati con piega ondulata da una parte, che ricadeva come seta sul viso, sul collo, sulle spalle e sull'abito. Dall'altra parte invece erano tenuti dietro l'orecchio. 
Le sopracciglia erano completamente ossigenate, ma l'ombretto scuro conferiva carattere al volto, che pur mantenendo i suoi tratti angelici, appariva lievemente più aggressivo, come quello di una "divinità offesa".
Ma era chiaro che ormai ogni sua scelta estetica era come un gioco di ruolo: quella sera voleva essere ancor più possessiva del solito, e infatti appena lui le si avvicinò, lei lo abbracciò con decisione e lo strinse a sé con vigore e poi, dopo un bacio altrettanto deciso, gli disse all'orecchio: <<Sono affamata. Che ne dici se ti mangio un orecchio?>> e poi gli mordicchiò il lobo, per fortuna con moderazione.
 Infine lo squadrò ben bene e dichiarò: 
<<Ma fatti guardare! Hai seguito le mie istruzioni alla lettera! Look Anni Settanta, estivo da mare, e quindi necessariamente un po' tamarro, ma l'abbinamento giacca bianca, camicia blu e pantaloni gialli wide-leg è quello che va di più, quest'anno, a Milano Marittima. E ti fa sembrare ancora di più un Rampollo Viziato, che è poi la verità ed uno degli elementi di te che mi fanno impazzire. 
Ma il capolavoro sono i capelli! La tinta e la permanente sono venute perfette. 
I riccioli dolci da Arcangelo e i colpi di sole su base biondo scuro ti stanno da Dio. 
Sembri Dorian Gray in vacanza al mare!. 
Chissà tua madre cos'avrà pensato! Per non parlare dei vicini e di tutta la "corte". 
Ma adesso sei perfetto per quando andremo a Londra. 
Oddio, non vedo l'ora di essere là e di averti tutto per me, perché tu sei mio. Tutto mio. Soltanto mio>>. 
Giusto per essere chiari!



Lui (che non era affatto entusiasta del proprio abbigliamento, ma era compiaciuto dal colore della capigliatura, che ci dicono abbia anche adesso, ma chi può confermalo, dal momento che lui non riceve quasi nessuno nel Sancta Sanctorum di Palazzo Monterovere) la condusse all'interno delle "seconda mura", lungo il vialetto che percorreva l'intera proprietà.
Lei osservava, affascinata, le varie tappe del giardino inglese e poi, quando giunsero in cima alla scaletta, si fermarono sotto il padiglione in pietra, che finalmente assunse una sua utilità.
Si poteva quasi dire che Ettore l'avesse edificato in previsione di quel giorno, quando il suo erede e la  fidanzata si sarebbero seduti sulla panca circolare, all'ombra, mentre il sole tramontava, per scambiarsi parole d'amore.
<<E tu? Sei soltanto mia?>> le chiese Roberto, e in quella domanda c'erano tutti i dubbi e le preoccupazioni e l'insicurezza che si portava dietro da una vita.
Aurora gli mise una mano tra i capelli alla Dorian Gray e li scompigliò, come si farebbe con un bambino piccolo.
<<Ma allora non mi stai a sentire? Io ho pensato solo a te per sei anni, e tu non mi degnavi di uno sguardo! Sei anni della mia vita! E per te ero come trasparente! Ma ti rendi conto che sofferenza? Sarei io a dovermi sentire insicura, non credi?>>
No, in effetti lui non ci credeva, ma era meglio non dirlo, almeno per il momento.
<<Aurora mi dispiace di averti fatto attendere tanto. Io avevo la testa di un bambino, fino a pochi mesi fa. Poi tu mi hai "risvegliato" e sono diventato un adolescente.
Ma adesso che mi hai conquistato, i rapporti di forza sono cambiati. 
Tu hai ottenuto il tuo trofeo! 
Il mio scalpo con boccoli tinti o la mia testa da appendere al muro...>>
Lei, indignata, stava per protestare, ma lui glielo impedì:
<<No, Aurora, lasciami finire... il fatto è che a volte chi seduce perde interesse per l'oggetto del desiderio, una volta che tale desiderio è stato soddisfatto. 
Ora, io so con assoluta certezza che non potrei mai perdere nemmeno un briciolo dell'amore che ho per te. Ma temo che non valga il viceversa, temo che tu possa stancarti di me, o rimanere delusa, e finire per cercare altrove...>>
Lei gli appoggiò una mano sulla bocca e poi gli disse, sottovoce, ma in maniera chiara:
<<Mai! Non succederà mai! Dove lo trovo un altro come te? Ci sei solo tu, e basta!
Io amo di te anche quelli che tu consideri difetti. Amo la tua stessa insicurezza, perché io voglio un compagno di vita che sia tenero e dolce, e più sensibile di me, affinché io possa rassicurarlo e vezzeggiarlo, come una madre col suo bambino. Tu hai bisogno di una madre più indulgente, non negarlo! E amo la tua fragilità.
Le cose più preziose sono anche le più fragili e questo vale anche per le persone: io conosco nel contempo il tuo valore e la tua vulnerabilità, e amo entrambe le cose.  
E non ho bisogno di altro, non cerco nessun altro e non c'è nulla che possa farmi cambiare idea.
Insomma, tu non ti libererai mai di me!>>

Roberto aveva gli occhi lucidi e si sentiva uno sciocco, ma c'era un'ultima cosa che doveva essere chiarita e lui, con ancora la mano di lei sulla bocca, farfugliò un'unica parola, un nome:
<<Felix...>>.
Il viso di lei si rabbuiò: 
<<Lui è un parente, non conta. Comunque l'ho avvertito. O smetterà di metterci i bastoni tra le ruote, o lo escluderò totalmente dalla mia vita. E siccome temo che lui non smetterà, io e i miei genitori prenderemo misure molto serie nei confronti suoi e della sua famiglia. 
Mio padre è d'accordo, e devo dire che adesso, non so bene per quali motivi, mi sembra quasi sinceramente contento che io stia con te... forse è perché finalmente mi vede felice, ma sospetto che ci sia qualcos'altro...>>
Roberto sapeva che in effetti c'erano ben altri motivi, ma anche quello era un discorso che per il momento era meglio non affrontare.

Le sorrise e si abbracciarono di nuovo, Finalmente lui sentì sciogliersi tutta la tensione che aveva accumulato quel giorno e in maniera del tutto inaspettata, la sua virilità, che normalmente dormiva sonni profondi, si risvegliò dal torpore in maniera decisa e fin troppo evidente,  anche a causa della tessitura sottile dei suoi assurdi pantaloni gialli, tanto che lei, nonostante quella corazza di paillettes, dovette rendersene conto e con una certa sorpresa commentò: <<Oh oh... Qualcuno dà la sua ferrea approvazione, nelle parti basse>>
Roberto, che non aveva mai attribuito importanza a certe cose, e anzi le considerava volgari e ne era sempre stato imbarazzato e persino impaurito, fece subito un passo indietro, temendo di perdere il controllo della situazione.
In ogni caso, per darsi un contegno, mise il colletto della camicia sotto la giacca e abbottonò la camicia in maniera quasi decente. 
Mai avrebbe immaginato che trent'anni dopo, l'idolo di almeno due terzi delle ragazze del mondo, Harry Styles, ex voce degli One Direction, avrebbe indossato lo stesso outfit risultando quasi elegante, ma questo accadeva prima che incominciasse a vestirsi da donna, rimanendo comunque invariabilmente adorato dalle stesse fan di cui sopra.




Nel frattempo , il Visconte osservata pacifico e tranquillo il Ricci Compoud.
Sembrava un'altra persona, rispetto a quando lo aveva incontrato le volte precedenti. 
Il volto mostrava un sorriso gentile, pacato, accomodante, quasi benedicente, come se fosse davvero molto contento di trovarsi in quel luogo e con quelle persone, e approvasse senza riserve tutto ciò che vedeva e sentiva.
Mosse il primo passo verso l'altro pater familias, e a quel punto, Francesco Monterovere, abbandonando la sua diffidenza iniziale, tese la mano al Visconte, in "segno di pace".
Bartolomeo Visconti tese la mano a sua volta, con decisione, come faceva dopo aver stipulato un contratto molto vantaggioso, e la stretta di mano che ne seguì fu calorosa e solida, come se lui e Francesco fossero amici da vent'anni.

Difficile ipotizzare quello che passasse realmente nella testa di entrambi, perché erano uomini maturi e sapevano che la diplomazia era una cosa e la realtà un'altra, però si rendevano conto che, sic stantibus rebus, quella era la linea da seguire, almeno finché non fossero emersi nuovi elementi.
Si sedettero, insieme alle rispettive mogli, sotto la pergola, in attesa che la cena fosse pronta.
A rompere il ghiaccio, ancora una volta, fu Bartolomeo Visconti:
<<Professore, le sono grato per averci invitato qui stasera. In questi mesi ho imparato a conoscere la sua famiglia e suo figlio, ed è stato per me un grande piacere. Roberto è un bravo ragazzo, ed è riuscito a rendere felice mia figlia, cosa che nessuno aveva fatto prima di lui. E allora io dico che se i nostri ragazzi sono felici, allora lo siamo anche noi, perché un genitore che altro può desiderare se non la felicità del proprio figlio?>>
Messa così, la "prolusione" del Visconte risultava innegabile, e oltre tutto solleticava lo sviscerato amore paterno di Francesco, che nutriva per il figlio una grandissima stima e riponeva in lui speranze ancora più grandi:
<<E' proprio vero, signor Visconte. E sono lietissimo di averLa come mio ospite>>
Il Visconte si schermì e con aria ancora più affabile disse:
<<Mi piacerebbe che ci dessimo del tu e ci chiamassimo per nome di battesimo>>
Era un onore che il Visconte concedeva soltanto ai parenti carnali o ai rarissimi amici di lunghissima data.
<<Per me va benissimo! Bartolomeo... vero?>>
Il Visconte annuì, sorridendo e assomigliando sempre più a Berlusconi:
<<Vero! E tu sei Francesco, come il tuo nonno materno, l'Ingegnere, se non sbaglio>>
Il ricordo del venerato Francesco Lanni, il Profeta delle Acque, commosse il professor Monterovere:
<<Verissimo! E direi che qui ci vuole un brindisi, se tu e la tua signora gradite uno dei nostri aperitivi>> e fece un cenno studiato in precedenza per dare il via ai bagordi.

In quell'istante comparve il giovanissimo Samuele Napoletano, nipote della Rita, il quale quella sera, molto generosamente retribuito, svolgeva il ruolo di aiuto cameriere.
Era il classico ragazzo mediterraneo: con capelli corvini, naturalmente ricciuti, occhi nerissimi, pelle olivastra abbronzata e un sorriso solare che metteva di buon umore anche il più triste.
Lui e Roberto, coetanei, erano diventati amici, e c'era una grande ammirazione reciproca, in particolare Roberto ammirava molto il fatto che Samuele avesse un grandissimo senso pratico e lo aiutasse molte volte a insegnargli cose che adesso impareremmo in qualche tutorial su Youtube, o affideremmo direttamente a un tecnico informatico.
Con grande maestria, derivatagli non solo dalla frequenza dell'Istituto alberghiero, ma anche dal lavoro part-time in un bar, Samuele preparò gli aperitivi, servendo al Visconte il classico Martini Dry con oliva, al Professore l'ancor più classico Negroni, obbligatorio per tutti gli intellettuali radical-chic, alla Viscontessa un Campari Soda e alla Signora Silvia un Prosecco di Conegliano, proveniente dalle cantine di Villa Orsini.

Poco dopo tornarono anche i due piccioncini, e la Signora scosse la testa per l'ennesima volta di fronte al look assurdo del figlio, che del resto aveva ricevuto anche il biasimo paterno.
<<Ah, Roberto!>> disse la viscontessa Maria Antonietta alzandosi per abbracciarlo come se fosse un figlio <<oggi hai un look davvero irresistibile! Stai benissimo! Vero, Silvia, che tuo figlio oggi sembra il Principe Azzurro?>>
La Signora, con un sorriso simile a quello della regina Elisabetta II quando è costretta a fare buon viso a cattivo gioco, annuì vagamente e deviò subito il discorso:
<<E' Aurora ad essere bella come il sole! Non so se la mia sala da pranzo sarà sufficientemente elegante per ospitare una giovane nobildonna di così gran classe!>>
Roberto, che conosceva sua madre meglio di se stesso, capì il messaggio in codice, che suonava più o meno così: si è vestita tutta d'oro e paillettes come una escort che accompagna un ricco vecchio porco in un party un po' equivoco, tipo quelli dove si potrebbe incontrare Elton John.

Silvia era fatta così: qualunque sua frase aveva sempre significati molto diversi e quasi opposti da quello letterale. Era stato il suo modo di sopravvivere crescendo con una nonna costantemente ubriaca, una madre costantemente depressa, un padre costantemente arrabbiato col mondo intero, una governante dispotica e due sorelle che non avevano mai letto un libro in vita loro.
Aurora, senza degnare Samuele nemmeno di uno sguardo, si versò da sola, con l'aria di chi la sa lunga, una Vodka alla Pesca con Oransoda, il cocktail più di moda nella Folle Estate del 1992.
Il sorriso forzato di Silvia si piegò all'ingiù e con un cenno indicò a Samuele di portar via il cabaret e di chiedere se la cena era pronta.
Poco dopo, la signora Rita in persona invitò i Signori ad accomodarsi nella sala da pranzo del piano terra, dove era stata imbandita una tavola rotonda con ogni ben di Dio.
E così incominciò una cena sontuosa, e memorabile, ma molto impegnativa per tutti, di cui parleremo nel prossimo capitolo.


lunedì 15 marzo 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 115. Rêverie 1912 , il ritratto perduto di Emilia Paulucci di Calboli



 A metà giugno, come concordato, la viscontessa Antonietta Visconti-Ordelaffi di Bertinoro e sua figlia Aurora furono ospiti della contessa Diana Orsini Paulucci di Casemurate, per un tè delle quattro, all'inglese, a cui presenziarono anche il nostro Roberto Monterovere, che si trovava nella residenza di sua nonna da alcuni giorni, e sua madre Silvia.
Mancavano, naturalmente, il Visconte e sua nonna Clotilde, ma anche Francesco Monterovere, offeso dal fatto che l'altro capofamiglia avesse dato forfait.
Francesco aveva comunque promesso a Roberto che avrebbe fatto da anfitrione nella successiva cena presso la residenza cervese dei Monterovere.
Roberto non sapeva, all'epoca, che era stata sua madre, Silvia Ricci-Orsini Monterovere a sconsigliare al marito, notoriamente poco diplomatico, di rimandare la sua partecipazione, sentenziando, con autoironia: 
"I Monterovere è meglio conoscerli uno alla volta, altrimenti si rischia un'intossicazione".

E così all'incontro furono presenti sette persone: la governante signora Rita, la contessa Diana, sua figlia Silvia, il nostro Roberto, la viscontessa Antonietta, la nostra Aurora e l'immancabile chauffeur Battista.
Purtroppo, la Legge di Murphy agì anche quella volta e si concretizzò nel fatto che il traffico della Cervese di Forlì (da non confondere con la più moderna e più ampia Cervese di Cesena) già solitamente congestionato a causa del fatto che la strada era una sorta di collo di bottiglia stretto e tortuoso (fin dai primordi, quando quelle zone erano, come già ricordato, tutte ricoperte da paludi e foreste), quel giorno era praticamente fermo per due fattori concomitanti: l'ennesimo incidente presso l'incrocio di Carpinello (all'epoca non c'erano ancora le rotonde) e un "esodo" verso Cervia da parte di tutti i Forlivesi, essendo l'inizio ufficiale della stagione balneare del 1992.

Il risultato fu che Antonietta e Aurora arrivarono con due ore e mezzo di ritardo.
Naturalmente non era colpa loro, perché anzi erano partite in anticipo, intorno alle 15.30, per poi rimanere imbottigliate nel traffico nella zona tra Carpinello e Pievequinta, (dove un tempo sorgeva "e bosk de Marlinon", un antico bosco di cui resta solo un'immensa quercia).
Il traffico era visibile anche da Villa Orsini, per cui Diana, Silvia e Roberto sapevano che il ritardo era più che giustificato.

Finalmente, alle 18.30, la BMW di Battista (che grazie al cielo aveva l'aria condizionata) fece il suo ingresso nel vialetto di Villa Orsini.
Ne uscirono le due nobildonne e il fedele autista,  il quale teneva in mano un misterioso pacco.

La governante, felicissima che fossero riuscite ad arrivare prima dell'ora di cena, invitò tutti ad entrare, sorridendo con bonaria indulgenza.
Per quell'occasione solenne, Aurora aveva scelto un look che fosse nel contempo formale e speciale, ispirato allo stile floreale del Salotto Liberty. Già mesi prima, in vista di questo invito, aveva commissionato un vestito a giacca su misura, con pantaloni a palazzo (wide-leg pants, si dice nel mondo della moda), con una base color malva su cui era applicata una fitta "stampa" floreale con i contorni in indaco e i petali color lavanda in tutte le sue sfumature, in particolare il rosa, il blu pervinca e il magenta.
Sotto la giacca indossava una blusa di seta di un rosa chiarissimo, con maniche e polsini a sbuffo, ondulati con volant.
Il trucco, molto leggero, mostrava una prevalenza del rosa, i capelli erano sciolti e ancora più biondi del solito. Le scarpe erano nere, a punta, con tacco alto nascosto dai pantaloni svasati. Era favolosa!






Nell'atrio del maniero i padroni di casa attendevano con comprensiva clemenza,

Diana Orsini vestiva con abiti scuri, poiché era ancora in lutto per la morte di suo marito Ettore, l'anno precedente. Il lutto stretto, e quindi l'obbligo del nero, era terminato da alcuni mesi, nei quali, gradualmente Diana era passata al blu scuro nelle varianti indaco, notte, oltremare e zaffiro,
che per molto tempo rimasero le prime scelte del suo guardaroba.
La gente giudicava strana quell'insistenza nel portare colori scuri in memoria di un marito con cui non era mai andata d'accordo.
Solo pochissimi riuscivano a capire che Diana Orsini portava il lutto per tutti i suoi cari, quelli morti anzitempo (due fratelli, due sorelle e il padre), quelli che aveva amato di più (Federico Traversari) e quelli che erano venuti meno negli ultimi anni, e cioè la madre Emilia, animatrice del Salotto Liberty e naturalmente Ettore Ricci, che era stato, nel bene e nel male, la colonna della casa e della famiglia.
Ma più in generale questo lutto si estendeva alla sua casa fatiscente e alla sua Contea sconfitta. le cui secolari tradizioni si stavano perdendo.







Silvia Ricci-Orsini Monterovere univa il decoro con lo stile indossando il venerato "tubino nero" inventato da Coco Chanel, perfezionato dal conte Hubert de Givenchy e indossato da Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany, la pellicola che dal 1961 in avanti ha rovinato intere generazioni di giovani donne, inoculando nella loro mente un'esagerata aspettativa nei confronti della vita, dell'amore, degli uomini e quant'altro.






Roberto era in tenuta da Piccolo Lord di campagna, pettinatura compresa, una mise che si portava dietro dall'infanzia e che, con coraggioso sprezzo del ridicolo ed olimpica indifferenza nei confronti di ogni commento sarcastico, continuò a portarsi dietro, salvo rare e brevi eccezioni, per il resto della sua esistenza mortale. In fondo era ancora e sarebbe sempre rimasto ciò che era stato nella sua età più felice: il bambino della campagna.




Diana si fece avanti, porgendo la mano alla viscontessa Antonietta, la quale sussurrò <<Vostra Grazia>> e, accennando persino a una riverenza, le baciò l'anello di ametista che gli Orsini di Casemurate si tramandavano di generazione in generazione dal remoto giorno in cui papa Niccolò III concesse l'investitura comitale ai suoi nipoti Bertoldo e Bernardo.
La Contessa sorrise e disse: <<Suvvia, mia cara, non sono ancora una "santa reliquia">>, che era una delle sue battute preferite, specie in tarda età e poi aggiunse <<Lei è davvero incantevole, viscontessa, e ha trasmesso tutto il suo charme a sua figlia Aurora>> 
Quest'ultima si esibì in riverenza e baciamano ancor meglio della madre, al che Diana, non potendo più avvalersi della sua battuta precedente, sfoggiò un sorriso ancora più benevolo:
<<Sei davvero uno splendore, Aurora, e che eleganza! Il tuo stile è divino e devo dire che coglie perfettamente l'atmosfera del mio salotto, che evidentemente mio nipote ti ha descritto>> e poi sospirò, chiedendosi, come tutti e come sempre, cosa mai avesse spinto una fanciulla tanto perfetta a mettersi con un personaggio eccentrico, sbadato e scontroso come Roberto.

Fu poi la volta di Silvia, che senza tante cerimonie abbracciò Antonietta come se fosse la sua migliore amica nell'universo, e poi ripeté l'abbraccio con Aurora, accompagnandolo però con il tipico sguardo inquisitorio e scettico che hanno le madri di figli maschi quando conoscono l'aspirante fidanzata del loro "pargolo", che continuano a difendere con la determinazione di una chioccia che vede minacciato il suo pulcino.
Del resto Silvia aveva capito subito che, nel rapporto tra Aurora e Roberto, era la ragazza che comandava, come del resto Silvia stessa, a sua volta, comandava ogni aspetto domestico della vita del povero Francesco Monterovere.
Subito la viscontessa si sentì in dovere di scusarsi:
<<Vostra Grazia, sono desolata per questo terribile ritardo. Non avevamo mai visto un ingorgo del genere. Oltre tutto, per l'emozione, mi sono dimenticata il mio Motorola MicroTac Platinum a casa... sì, il telefono cellulare, voi non l'avete? Se io l'avessi avuto con me, avrei subito chiamato per avvertire del ritardo e porre a tutti voi le mie scuse>>
Diana, con un cenno, indicò che non era necessaria alcuna scusa, e aggiunse:
<<Il traffico era bloccato anche a Casemurate, per cui non c'è nulla di cui dobbiate scusarvi. 
Piuttosto, dopo un viaggio così disagevole, se volete rinfrescarvi, la signora Rita vi indicherà la stanza da bagno>>
La viscontessa Antonietta, sollevata, ringraziò e accettò subito la cortesia, e dopo di lei fu il turno di Battista, che, per precauzione, si portò dietro pure il misterioso pacco.
Al contrario, Aurora rispose che era a posto così.
Roberto non ne era convinto: conosceva ormai certe stravaganti abitudini delle sua ragazza e anche i veri motivi che c'erano dietro. Era stata lei stessa a rivelargli tutto, la prima sera che erano usciti insieme, mentre erano al cinema.
Aveva sperato che, almeno per un giorno, Aurora avrebbe cercato di contrastare alcune ossessioni feticistiche sviluppate in seguito a traumi infantili.
Ma purtroppo, sperare che lei cambiasse tali masochistiche erotizzazioni senza l'aiuto di un terapeuta era un po' come la speranza dei Bretoni nel ritorno di re Artù da Avalon: una speranza vana.

Nel frattempo, Diana Orsini mostrò alcuni ritratti dei precedenti Conti di Casemurate, fino ad arrivare al proprio:
<<Io sono la diciottesima, come la Duchessa d'Alba, nelle cui vene scorre il sangue degli Stuart.
 Ma le generazioni che mi separano dal primo Conte, Bernardo Orsini, sono molte di più: il fatto è che spesso, purtroppo, i figli sono morti prima dei genitori. 
Tra l'altro, anche nella nostra famiglia, l'erede del Conte in carica porta un altro titolo, e cioè Visconte di San Zaccaria... certo non è il massimo, ma da queste parti bisogna sapersi accontentare>>
Subito Aurora intervenne con entusiasmo:
<<Ah, quindi siete dei visconti anche voi! E chi detiene il titolo adesso?>>
Diana sorrise:
<<Dunque, è un discorso che faccio fatica a comprendere persino io. 
Teoricamente spetterebbe al figlio primogenito maschio, ma io non ho figli maschi, come il mio defunto marito non perdeva occasione di ricordarmi.
Tuttavia, Ettore era riuscito, appena in tempo, ad ottenere dalla Consulta Araldica, la successione del cognome Orsini (senza però il cognome Paulucci, che mia madre mi trasmise perché i Calboli, dopo la morte di suo fratello Fulcieri, avevano ottenuto dalla stessa Consulta la trasmissione per via femminile del cognome). 
Così le mie figlie sono diventate le tre considerevoli sorelle Ricci-Orsini.
Riguardo ai titoli, il discorso è più complicato.
Ci sono delle regole della Consulta, che pur essendo stata formalmente abrogata dalla Repubblica, è arbitra in queste materie.
Quando morì il conte Achille, mio padre, la Consulta espresse una sentenza in mio favore, per cui, almeno agli occhi dei Pari, ho ereditato tutti i titoli di mio padre e li posso trasmettere alle mie figlie, seguendo la linea di successione.
Ora, la mia primogenita Margherita, essendo già, iure uxoris, Marchesa Spreti di Serachieda, ha rinunciato a favore della mia secondogenita Silvia, qui presente, la quale dopo molti tentennamenti si è degnata di accettare questo titolo di viscontessa di San Zaccaria, che le spetta suo iure, ma non lo usa, perché il suo Salotto Intellettuale è frequentato da personaggi di estrema sinistra che se lo sapessero le taglierebbero la testa...>>
Silvia intevenne:
<<Mamma, non incominciare con i tuoi sermoni altrimenti non ne usciamo vivi...>>
Ad Aurora brillavano gli occhi dalla gioia:
<<Quindi lei, signora Monterovere, potrebbe diventare la prossima Contessa?>>
Silvia fece un gesto vago con le mani, come se questi discorsi fossero per lei privi di qualunque rilevanza:
<<Mah, non lo so, forse ci vorrebbe un'altra sentenza, non è ben chiaro. 
Però, sinceramente, io preferirei mantenere un profilo basso, a differenza di mia madre e di mio figlio, che starebbero a parlare all'infinito di genealogie, araldica, stemmi, cavalieri e feudi, inserendo anche aneddoti, dettagli, curiosità e via dicendo sulle "gloriose" imprese dei nostri antenati, sorvolando sul fatto che erano pieni di debiti.
Adesso poi Roberto ha trovato un nuovo complice, mio cognato Lorenzo, che è fissato con un certo castello, non so dove... 
In ogni caso è del tutto prematuro parlare della successione di Diana Orsini, che come potete vedere è un'ottantenne in forma smagliante e potrebbe anche campare più di me!>>

Nel frattempo, la viscontessa Antonietta aveva fatto ritorno, fresca come una rosa, e aveva rivolto un cenno all'autista factotum.
A quel punto Battista si profuse in un grande inchino immotivato, per poi dichiarare solennemente:
<<Vostra Grazia, mi permetta di consegnarle questo presente come pensiero da parte dei Visconti di Bertinoro>>
L'attenzione di tutti si concentrò dunque sul pacco, che era piatto, rettangolare e molto grande.
Si capiva subito che era un quadro, ma nessun membro del clan Ricci-Orsini pensava si trattasse proprio di quel quadro.
E invece sì, era proprio lui...
Fu Antonietta a darle la felice comunicazione:
<<In verità, più che un presente, è una restituzione di qualcosa che avrebbe dovuto essere vostro.
E' un dipinto del 1912, intitolato Rêverie, realizzato da un pittore dell'età edoardiana, avente come soggetto qualcuno che forse Vostra Grazia potrebbe riconoscere>>
Diana era così ansiosa di verificare se fosse davvero ciò che lei pensava, che quasi lo strappò dalle mani di Battista, il quale osò perfino ricordarle che si trattava di un "oggetto delicato e di valore".
Rita era già pronta con le forbici per tagliare i lacci, la scatola e i cartoni vari.
Nel giro di meno di un minuto, Diana poté constatare che finalmente, dopo ottant'anni, poteva osservare con i suoi occhi quel dipinto di cui aveva tanto sentito parlare.

E a quel punto, tutta la sua usuale compostezza lasciò il posto ad una strana energia, quasi euforica, che le derivava dalla possibilità di chiudere un conto in sospeso da una vita.
<<Non ci posso credere! E' il ritratto di mia madre a ventidue anni. E sapete perché era così triste? Perché era incinta della sottoscritta, e Achille Orsini, mio padre, non l'aveva ancora sposata. 
Non avete idea di che scandalo fu, quando io nacqui dopo soli quattro mesi dalla cerimonia nuziale.
Ma forse donna Clotilde ve ne avrà parlato, perché poi è anche il motivo per cui il quadro è rimasto alla famiglia di mia madre, i Paulucci di Calboli, che vi hanno venduto il palazzo. 
Mio nonno materno, il conte Raniero, non sapeva nulla delle condizioni di mia madre, quando commissionò il quadro, e lei, pace all'anima sua, non aveva il coraggio di dirglielo. All'epoca una cosa del genere era uno scandalo intollerabile, specie in una cittadina di provincia.
E infatti dopo che il conte Orsini fu costretto a sposare mia madre Emilia, senza ricevere nemmeno un centesimo di dote, i Calboli non vollero avere più nulla a che fare con noi, e si tennero pure il quadro. 
E lo nascosero in soffitta! 
Come quello di Dorian Gray, e magari è proprio per questo che mia madre è vissuta così a lungo e in buona salute fisica, pur avendo abitudini non del tutto salutari.
Vi sembrerà assurdo, ma per anni non riuscivo a togliermi dalla testa l'idea che fosse il ritratto ad invecchiare al posto suo!>>





Tutti sorrisero, perché in effetti il paragone con Dorian Gray aveva un suo fondamento, 
La storia della lunga vita di donna Emilia Orsini Paulucci di Calboli, contessa iure uxoris di Casemurate, era risaputa, anzi, era diventata una leggenda, una delle tante che costellavano la Contea, il Feudo Orsini, il Maniero e soprattutto l'oasi felina di Confluentia Turriculae et Bevanus, considerata sede del culto pagano delle sacerdotesse della Vallis Padusa sive Candiana.

Diana era commossa:
<<Cara Antonietta, lei mi ha donato ciò che io ho pregato per anni di poter vedere almeno una volta nella vita.
Mia madre me ne parlava sempre, specie quando era depressa o ubriaca.
E infatti aveva incominciato a soffrire di crisi depressive proprio in quel periodo. 
Reverie... "fantasticheria"... Ah, se quel povero pittore avesse saputo a cosa stava pensando realmente mia madre! 
Eppure l'avrebbe dovuto capire, perché fu lei a scegliere quella posa strana, col cuscino, non solo per stare più comoda, ma perché il cuscino le coprisse un'eccessiva rotondità del ventre.
Dopo la mia nascita le venne pure l'esaurimento nervoso post partum, e fu da allora che iniziò a bere il Cabernet-Sauvignon al ritmo di una bottiglia al giorno.
Certo, c'erano anche altri problemi, più materiali, a cui poi si aggiunse tutta una serie di lutti, ma voi dovete capire che io sono cresciuta con il costante senso di colpa di aver causato la rovina di mia madre, cosa che lei peraltro provvedeva sempre a ricordarmi.
Ma io poi l'ho ripagata con la stessa moneta, perché non le ho mai perdonato il fatto di avermi costretta a sposare Ettore Ricci affinché pagasse tutti i debiti contratti da mio padre>>
A quel punto Silvia Ricci-Orsini Monterovere intervenne a gamba tesa:
<<Mamma, capisco l'emozione, ma c'è il tè in salotto che si raffredda. Facciamo entrare, insieme ai nostri ospiti, il ritratto perduto di nonna Emilia in quella che è stata la sua stanza preferita, il suo regno, il Salotto Liberty
Venire, care... è stato un pensiero così gentile da parte vostra, ringraziate anche il Visconte e la cara donna Clotilde, che è la gentilezza fatta persona>>
Naturalmente era un elogio ironico, perché tutti sapevano che i Ricci-Orsini detestavano, ricambiati, quella vecchia arpia di donna Clotilde Visconti-Ordelaffi

Entrarono dunque, e collocarono temporaneamente il ritratto proprio sulla poltrona preferita della defunta contessa Emilia, il cui spirito non aveva mai abbandonato il Salotto, tanto che la governante, nelle notti di luna piena, lasciava sempre sul tavolino un calice di Cabernet-Savignon, che alla mattina trovava miracolosamente vuoto. 
Chi lo bevesse, in memoria della buon'anima, non si seppe mai, anche se molti, in paese, evocavano i nomi di certe streghe che si nascondevano presso la confluenza della Torricchia nel Bevano.
Antonietta ed Aurora si sedettero sul divano floreale, che aveva ispirato l'intera scelta dei colori e dell'arredo di tutto il Salotto Liberty e di conseguenza anche del look della ragazza amata da Roberto.





Mentre la viscontessa Antonietta osservava il Salotto come se fosse la Sala del Trono di Versailles, a parlare per prima fu Aurora:
<<Io invidio molto Roberto per avere una famiglia così anticonvenzionale. Nel senso buono del termine, voglio dire...>> precisò dopo aver notato che le labbra di Silvia si erano leggermente arricciate <<...è una storia da romanzo! Una bisnonna che arriva a novantotto anni bevendo una bottiglia di vino al giorno... è qualcosa di veramente leggendario. 
E poi tutta la concatenazione degli eventi: il quadro, la gravidanza, il matrimonio, e poi di nuovo per la generazione successiva, il matrimonio combinato, le tre figlie, la guerra, i tradimenti, le morti misteriose, i nemici, gli scandali, le streghe, i processi, altri lutti, e poi tutto ricomincia per la terza e la quarta generazione... ma nemmeno "Via col vento" si sogna di avere una trama così avventurosa...>>
Antonietta si riscosse e diede un'occhiataccia alla figlia, che si interruppe subito.
Ma Diana sorrise:
<<Hai proprio ragione, Aurora. Io ho voluto raccontare tutto a Roberto, perché a volte, quando ci ripenso, mi chiedo io stessa come abbiamo fatto a sopravvivere. Ogni volta che tentavamo di rialzarci, ecco che ci cadeva un tegola in testa. 
Ma sai qual è la nostra forza? 
L'essere sempre e comunque orgogliosi di far parte di questa famiglia. E' un sentimento spontaneo, una specie di "mistica partecipatoria".
C'è una frase de "Il Marchese del Grillo", un film che rivedrei all'infinito, in cui il Marchese fa capire chiaramente il concetto. A tutti quelli che gli sparlano dietro e gli domandano chi si crede di essere per comportarsi in quel modo scandaloso, lui risponde: "Perché io so' io e voi nun siete un..." >> Si fermò in tempo: aveva reso l'idea.
Tutti risero, ma Aurora più degli altri.
La ragazza rideva proprio a crepapelle e Roberto si mise subito in allerta e con grande prontezza di spirito ed elegante nonchalance, le si recò vicino e le disse:
<<Vieni, amore, ti faccio vedere il resto della casa>>
Poi le porse la mano, l'aiutò ad alzarsi e con galante fermezza la condusse fuori dal salotto e poi, constatando di aver visto giusto. la scortò gentilmente e rapidamente in direzione del bagno, 
Arrivarono appena in tempo, un istante prima che la diga di Assuan cedesse e un'alluvione inondasse il costosissimo abito floreale su misura, per non parlare di tutto il resto.
Dopo due minuti ininterrotti di Diluvio Universale, alla fine le fonti del Nilo si esaurirono e Aurora, secondo un copione antico, ma reso più eccitante dalla presenza del suo garçon, passò dall'estasi para-orgasmica alla vergogna, e il suo viso assunse lo sguardo compunto dell'infante che sa di aver combinato una marachella. 
Roberto, che avrebbe voluto e dovuto porre un argine a tutto questo, ne era invece diventato complice. Aurora aveva sviluppato alcune malsane abitudini a partire dalla prima infanzia, quando, tra le altre cose, era stata costretta a fare "la damigella in interminabili matrimoni di illustri sconosciuti" o a presenziare per ore e ore, senza pause, ad altri simili eventi e cerimonie, come se fosse una Principessa del Sangue Reale che deve apprendere certe abilità. Era stata donna Clotilde a imporre quelle regole, con l'approvazione del Visconte e degli istitutori di vario genere che si erano presi cura di lei e di suo cugino. In seguito, durante l'adolescenza, in correlazione a tutto questo e la "scoperta di come si può stimolare il punto G in maniera alternativa" [testuali parole di lei], aveva sviluppato un delirante rituale con effetto incredibilmente e incomprensibilmente auto-erotico. Intendiamoci, non era l'unico segreto che Aurora nascondeva, ma forse il più strano
E la cosa peggiore era che poteva danneggiare sia se stessa che gli altri che si trovano coinvolti, loro malgrado, in quelle follie.
Roberto avrebbe avuto il dovere di avvertirla, invece si era vincolato al rispetto della "Promessa del Cinema Astoria", che tra loro aveva ormai la stessa importanza del Giuramento di Strasburgo tra Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico.
Ma quella era solo una mezza verità. 
L'altra mezza era che Roberto aveva accettato senza riserve il ruolo di "cavalier servente" di Aurora, completamente soggiogato dalla bellezza e dalla personalità di lei, e disposto a compiacerla in tutti i modi, pur di stare insieme a lei.
E le richieste della donzella si facevano di giorno in giorno più esigenti, in modo tale da invischiare il suo innamorato nelle sue stesse ossessioni, inoculando virus di depravazione nel candore ingenuo che Roberto era riuscito a mantenere puro per i suoi primi diciassette anni di vita.
Molti anni dopo, ripensando retrospettivamente alla follia a cui quell'amore l'aveva condotto, e alle conseguenze che ne erano derivate, Roberto trovò un nome appropriato per questo tipo di dinamica di coppia, e cioè il "Morbo di Windsor". La motivazione è ovvia: tutti sanno che i componenti maschili della dinastia hanno mostrato la tendenza ad essere soggiogati da donne forti come Wallis Simpson, Camilla Parker-Bowles, Meghan Markle, ma anche, seppur in maniera più costruttiva, la compianta Elizabeth Bowes-Lyon, che era la colonna a cui Giorgio VI si era appoggiato per trovare quella sicurezza che i genitori non gli avevano trasmesso.

Ma nel 1992, Roberto e Aurora erano disposti ad accettare, ironicamente, un'unica similitudine "reale" e cioè quella con Filippo I d'Asburgo, detto il Bello e Giovanna di Castiglia, detta la la Pazza.





In particolare Roberto, pur sapendo bene che Filippo I, Duca di Borgona, era morto giovanissimo, probabilmente avvelenato per ordine del suocero Ferdinando d'Aragona o del suo primo ministro cardinale Cisneros, pochi giorni dopo essere stato riconosciuto Re d Castiglia iure uxoris et suo iure, lo aveva preso a modello di riferimento, sia a livello estetico che a livello di politica matrimoniale.

Nel frattempo, ritrovata l'abituale compostezza, Aurora ringraziò Roberto:
<<Grazie, Rob, mi hai salvato la vita. Se avessi profanato il Salotto Liberty mia madre mi avrebbe scuoiata viva, e temo che lo avresti fatto anche tu. 
E' che proprio non pensavo che avrei riso tanto. Voglio dire, tua nonna è molto più simpatica di quanto mi aspettassi in base ai racconti di mia madre. Tu me l'avevi descritta come una persona quasi sempre malinconica e triste, per cui non ero preparata ad una battuta come quella del Marchese del Grillo>>
Roberto le rispose con una considerazione che riteneva molto importante:
<<Si può essere allegri e tristi nello stesso momento. A me succede spesso.
E' un modo con cui le persone tendenzialmente malinconiche reagiscono alla propria stessa malinconia: più sono tristi e più vogliono scherzare e ridere. 
Diana è così, la sua vita è sempre stata sospesa tra l'elegia e l'ironia, tra l'umorismo e la tragedia>>
Aurora annuì:
<<Credo che questa cosa dell'essere tristi e allegri insieme valga anche per me. Con in più il fatto che il conflitto tra la maschera e il mio "io" segreto diventa sempre più ingestibile>>
Lui la abbracciò;
<<Non preoccuparti. Puoi sempre contare su di me, come ti ho promesso l'altra sera al cinema.
Io ti amerò sempre e per sempre>>
Lei sorrise, sollevata:
<<Anch'io>>
Dopo un tenero bacio, Roberto disse:
<<E poi volevo dirti grazie per il quadro. Credo che Diana sia riuscita ad esorcizzare un senso di colpa infondato. Ha visto che in fondo quel quadro, per quanto di gran valore economico, come ci assicura il fido Battista, è comunque solo un quadro. 
Forse soltanto oggi è riuscita a seppellire definitivamente sua madre
Credo che fosse in vena di battute perché si sentiva finalmente libera dai fantasmi del passato.
E questo incontro è stato così spassoso, che il ghiaccio si è rotto subito, e nel momento in cui ridevamo, gli altri erano così presi dal discorso che non si sono accorti di nulla, riguardo al tuo problema idrico>>
Lei sorrise e poi lo abbracciò.
<<Come sei buono con me! Solo tu riesci a capire i traumi che ti ho descritto e quel che ne è derivato. 
Ora ti dico una cosa di cui presto o tardi ti saresti accorto comunque. 
Mio cugino Felix non solo sa tutto di queste cose, ma le sente, le prova e le vive anche lui, perché siamo cresciuti come gemelli, e abbiamo condiviso tutto.
Ma adesso io ho te, ti terrò stretto, e Felix dovrà farsene una ragione, come anche mio padre.
Temo però che tua madre abbia già capito che ho qualche rotella fuori posto, e non mi sembra di esserle particolarmente simpatica>>
Roberto minimizzò:
<<Mia madre ha un carattere diverso da Diana, è più simile ad Ettore e alla madre di lui, la severa maestra Clara Ricci, dal ferreo contegno, che ha scritto anche una fondamentale "Storia di Casemurate", pubblicata presso "Il Ponte Vecchio" di Cesena.
Però, mia madre è molto meno severa. E' molto affettuosa anche. Lei vuole vedermi felice ed io con te sono felice. Sempre>>
Ma "sempre" è una parola che non si dovrebbe dire mai.