lunedì 30 dicembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 41. Amore e morte

Diana si recava in città nei giorni di mercato. Come scusa non era un gran che, ma l'importante era salvare le apparenze.
L'autista la lasciava all'inizio del Corso.
Federico, il suo amante, la aspettava all'Hotel de Ville.
La cosa andava avanti ormai da tempo, ma l'entusiasmo era sempre grande, come se fosse la prima volta.
Nella vita di Diana, in cui tutto era arrivato tardi: l'amore, la felicità, ogni dono era maggiormente apprezzato e nulla era dato per certo.
Quando erano insieme, lei e Federico perdevano la cognizione del tempo.
Poteva anche crollare il mondo, ma loro non se ne sarebbero accorti.
L'amore in età adulta ha dei vantaggi: l'esperienza, la capacità di concentrarsi sul presente e la consapevolezza che ogni singolo istante va vissuto in sé e per sé, al di fuori da qualsiasi progettualità, perché la maturità è il momento in cui tutto è al suo apice.
Erano entrambi sposati, vincolati a matrimoni di convenienza, che erano stati scelti dalle rispettive famiglie, quando erano giovani.
In una vita che era stata come una tempesta con rari sprazzi di sole, Diana aveva imparato a trarre da quel breve sole la massima gioia possibile.
Certo sapeva che ci sarebbe stata una fine, che prima o poi qualcosa o qualcuno si sarebbe messo nel mezzo, come sempre succede quando un amore è vissuto in clandestinità, ma preferiva non pensarci, perché, quando si ama, il presente è tutto il tempo che esiste.
L'appagamento che le derivava dal tempo trascorso insieme all'uomo che amava, rendeva Diana pienamente tranquilla e lucida, e quindi anche attenta e discreta nel modo di gestire quella situazione.
Non era gelosa, non era possessiva, non era suscettibile.
E del resto non lo si è mai, quando si è felici.
Per tutto il tempo della loro storia, Federico e Diana non parlarono mai di se stessi in termini assoluti, con espressioni logore e iperboliche come "anima gemella" o "unico vero amore". Sapevano entrambi che certe cose si possono sapere soltanto alla fine della vita.
E forse anche questa capacità di non aver bisogno di parole e di etichette per essere felici insieme, derivava dal fatto di essere persone adulte.
Solo gli adulti riescono a tenere insieme amore e saggezza, perché hanno imparato a cogliere le occasioni quando si presentano, e a non rovinarle per futili motivi.
In modo particolare riescono ad essere saggi in amore coloro che in gioventù hanno subito un grave torto. Diana lo sapeva bene, e da questo traeva forza.
Era consapevole del fatto che le persone danneggiate hanno un vantaggio: sanno di poter sopravvivere.
Ci sarebbe stato, dopo, alla fine di tutto, un tempo per le riflessioni e per la rielaborazione del ricordo.
<<Prima si vive, poi si filosofeggia>> era uno dei proverbi preferiti di Diana e uno dei consigli che, in tarda età, avrebbe espresso ai nipoti, soprattutto a quelli che sembravano non imparare mai quella lezione.
Ma vivere significava prima di tutto sopravvivere.
E Federico Traversari non apprese mai quell'arte.
Per quanto fosse stato discreto e prudente, non lo fu abbastanza da sfuggire alle trame della famiglia Braghiri, che per l'ennesima volta decise di colpire una persona cara a Diana Orsini per far ricadere i sospetti sul marito di lei, Ettore Ricci.
Quest'ultimo, pur sapendo che Diana lo tradiva, aveva comunque tollerato la cosa, perché era avvenuta con estrema discrezione e in paese nessuno se n'era accorto.
Se invece fosse accaduto qualcosa di brutto a Federico Traversari, allora sì che un nuovo scandalo si sarebbe abbattuto sul clan Ricci-Orsini, ed era proprio questo che Ettore voleva evitare.
Ma il suo braccio destro Michele Braghiri, roso dall'invidia e dal desiderio di diventare il "numero uno" all'interno della Contea di Casemurate, decise di agire con i suoi consueti metodi, ossia mascherando la morte per un "tragico incidente".
Ancora una volta agì da solo, per assicurarsi di non lasciare tracce.
Bisognava che l'incidente avvenisse nella zona di giurisdizione dei cognati di Ettore, e cioè l'ispettore Onofrio Tartaglia e il giudice istruttore Guglielmo De Gubernatis.
Questa volta però sarebbe stato troppo rischioso manomettere un mezzo di trasporto.
Bisognava che Traversari fosse investito, nel luogo e nel momento opportuno.
Braghiri si procurò un'auto destinata alla demolizione, in un "cimitero" delle macchine che si trovava nelle vicinanze di un grande orto dove in gioventù aveva lavorato come semplice bracciante.
Poi si appostò nel punto in cui la via Ravegnana entrava nella provincia di Forlì, dalle parti di Borgo Sisa, e lì attese il passaggio dell'auto di Federico.
Michele conosceva bene quella zona, avendo trascorso l'infanzia a Durazzanino, un paese nelle vicinanze, che cadeva già nella provincia di Ravenna.
Non c'era ancora molto traffico all'epoca, specie a quell'ora del giorno.
Erano le quattro del pomeriggio, l'ora degli adulteri, e anche degli omicidi.
Quando finalmente la macchina di Traversari si avvicinò al punto in cui la via Ortolani, dove era appostato Braghiri, si immetteva nella via Ravegnana, in aperta campagna, la trappola mortale scattò.
Con velocità sostenuta, Michele Braghiri speronò Federico Traversari, e continuò a spingere sull'acceleratore finché l'automobile di quest'ultimo non precipitò nel fiume Ronco.
Poi Braghiri, illeso grazie al casco e alle altre misure protettive che aveva indossato, uscì dall'auto in fretta e furia, e le lanciò uno zolfanello per darle fuoco.
Infine si diede alla fuga, contando sull'anonimato che gli dava il casco.
A quell'ora tutti i contadini della zona erano ancora a dormire per la "siesta" pomeridiana.
Ancora una volta, Braghiri riuscì a farla franca, dimostrando che, a questo mondo, il male è la regola, non l'eccezione.