mercoledì 5 gennaio 2022

Vite quasi parallele. Capitolo 175. Aula Dickens

 


"Ma io che ci faccio qui?" fu il primo pensiero di Roberto Monterovere nel momento in cui, con una certa riluttanza, fece il suo ingresso nella remota aula che da sempre era stata riservata agli studenti del Clep come luogo di sosta, ripasso e riunione, in una zona poco frequentata dell'edificio centrale e storico della Bocconi.

Quella stessa domanda, Roberto se l'era già posta migliaia di volte nella propria vita, nelle più svariate circostanze, senza trovare quasi mai una risposta convincente.
Ma in questo caso la ragione era più chiara e persino strategica: "Sono qui per allacciare relazioni diplomatiche potenzialmente utili e neutralizzare eventuali ostilità".

Ma, come quasi tutti i Monterovere, il nostro anti-eroe era assai carente in materia di diplomazia e i geni materni derivanti dal collerico Ettore Ricci avevano peggiorato ulteriormente la situazione.
Tuttavia il famoso quarto di sangue Orsini e gli insegnamenti di nonna Diana erano riusciti a stemperare il furore selvaggio degli altri antenati.

L'aula era piccola, ma confortevole e conservava intatto l'arredamento originario, di quasi un secolo prima, tenuto in perfetto ordine, con tanto di biblioteca, banchi, tavoli e persino poltrone, tavolini e quadri alle pareti.
La Bocconi poteva permettersi questi piccoli "lussi", considerate le enormi rette universitarie che incassava ogni anno.
Nelle università pubbliche l'idea di un'aula riservata sarebbe impensabile, tranne nei periodi di "occupazione", dove comunque il "clima" è molto diverso.
La Bocconi, come le università private inglesi e americane, incoraggiava le iniziative tese a creare le confraternite, anche informali, vedendone i risultati positivi in termini di relazioni sociali, responsabilizzazione e rendimento negli esami.
Roberto già aderiva alla confraternita del Quinto Piano, che però era "extra moenia", mentre ora gli si aprivano le porte di un gruppo "intra moenia", molto più elitario ed esclusivo, le cui riunioni erano, in via semi-ufficiale, approvate dall'università stessa.
E tutto questo per merito di Leonardo da Monza.

L'aula si trovava in una zona appartata del piano terra, le cui finestre erano rivolte verso un cortile interno all'antica, che sembrava un chiostro con vegetazione abbondante.

La porta dell'aula, in fondo ad un corridoio poco frequentato, era sovrastata da un arco a sesto acuto: tutto ciò conferiva a quel luogo un'atmosfera ottocentesca e quasi medievaleggiante, che evocava alcuni tra i migliori elementi dell'estetica vittoriana.










Si era a lungo dibattuto sul nome da dare a quell'aula e si era deciso di optare per qualcosa che rappresentasse nel contempo la letteratura vittoriana e le tematiche socio-economiche, e così alla fine, fu deciso di soprannominarla, informalmente, Aula Dickens, per quanto riteniamo che non fossero in molti tra gli Economisti del Clep ad aver letto i romanzi del grande scrittore inglese.

E lì Dickens non era affatto fuori luogo, sia per l'anglofilia bocconiana, sia perché egli è il fondatore del "romanzo sociale", in cui i personaggi, specie nell'infanzia, devono fare i conti con la povertà e le ingiustizie, le stesse questioni di cui gli economisti dibattono da sempre.

Pur attingendo molto dal genere picaresco, da quello sentimentale (rivalutato nella narrativa romantica), e dal Bildungsroman tedesco, in Oliver TwistGrandi Speranze e David Copperfield, lo scrittore denuncia l'ipocrisia della classe dirigente vittoriana e ci descrive con crudo realismo la "vera" Inghilterra dei suoi tempi, dove l'infanzia subisce lo sfruttamento e il sadismo di viscidi imbroglioni, e la "vera" Londra, una città degradata, sudicia e con alto tasso di criminalità a causa delle ingiustizie sociali e della sovrappopolazione indotta dall'industrializzazione selvaggia e senza regole. 
Certo, negli stessi romanzi, i protagonisti riescono a diventare dei gentiluomini dai gusti raffinati, come lo stesso autore, ma niente può dirsi scontato e la minaccia si cela ad ogni angolo della strada.










Anche questa verità esistenziale era in linea con gli insegnamenti che gli studenti del Clep stavano studiando in quel periodo, specie nell'esame di Statistica, tanto che una volta, alla domanda "Ma ci potrà mai essere un investimento totalmente sicuro?", il professore di Statistica osservò con aria di rimprovero il malcapitato studente e scuotendo la testa rispose con domande retoriche: "Sicurezza? Un bocconiano che mi chiede questo? Ma non ti sei accorto che tutti noi camminiamo su un sottilissimo strato di ghiaccio che sovrasta gelidi abissi?".

Questo per dire che persino la statistica applicata all'economia dava ragione a Dickens.
Si potrà obiettare, tuttavia, che Dickens addolcisce fin troppo la pillola, bilanciando le tinte fosche delle sue rappresentazioni socio-economiche con forme un po' improbabili di generosità e altruismo, in un'ottica sostanzialmente paternalistica, ponendo i "buoni sentimenti" al di sopra di ogni altra considerazione.
Era pur sempre un vittoriano! Che altro ci si poteva aspettare? La sua critica sociale era fin troppo radicale, per i suoi tempi.
E anche l'appello ai buoni sentimenti non nega affatto ciò che i personaggi hanno appreso dall'esperienza delle privazioni e degli abusi subiti.
Il moralismo che oggi chiameremmo "buonista", in Dickens è sempre bilanciato da un messaggio più pragmatico: i buoni sentimenti sono auspicabili ed encomiabili, ma i mezzi economici sono indiscutibilmente necessari per dare compiutezza alla propria libertà, e vanno difesi da tutti gli opportunisti e gli avvoltoi che se ne vogliono appropriare in maniera fraudolenta, facilitati in questo dalla mancanza di una legislazione che tuteli i più deboli.
Dickens accusa l'avidità di chi accumula denaro con ogni mezzo al fine di dominare gli altri, e con questa accusa si pone sulla stessa linea di pensiero di economisti come John Stuart Mill, sensibili ai diritti civili e sociali. 
L'accumulazione fine a se stessa viene condannata, sia da Mill che da Dickens, il quale, forse un po' troppo "poeticamente", propone una sorta di compromesso morale secondo cui la ricchezza dell'individuo si misura in proporzione alle cose di cui riesce dignitosamente a fare a meno.
Ma anche su questo è possibile ironizzare, e già all'epoca Roberto lo faceva, per punzecchiare i miliardari che fingevano di disprezzare il denaro:
<<Ci sono cose che valgono di più dell'oro, ma costano un sacco di soldi>>





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Alcuni non gradivano la sua ironia e la contestavano con argomentazioni valide del tipo:
"L'ironia non è forse un insulto che si cela dietro un sorriso?"
Forse è proprio così, eppure soltanto l'ironia riesce ad esprimere un concetto potenzialmente offensivo in una maniera non offensiva e persino socialmente e moralmente encomiabile.
E l'ironia di certo non mancava a Dickens, specie agli esordi, ne Il circolo Pickwick, che ci descrive con felice umorismo l'Inghilterra del 1837, l'anno in cui la regina Vittoria salì al trono.
Ma bisogna fare attenzione, perché dietro all'immagine del dandy raffinato, Dickens nascondeva la tragedia della propria infanzia, durante la quale aveva visto il padre arrestato per debiti, e aveva dovuto lavorare da bambino in una fabbrica di lucido da scarpe: nessun romanziere conobbe mai così bene, sulla propria pelle, l'ingiustizia, la violenza, lo sfruttamento e la fatica, contraccambiati da un salario di mera sussistenza.
Eppure egli riuscì a emanciparsi da quella condizione, fino a raggiungere l'agiatezza e il successo.
Oggi invece la parabola di molti rischia di essere quella contraria, che si conclude con un futuro così incerto da sembrare un precipizio.

Roberto era consapevole di tutto questo, e poiché era già interessato di suo alla storia e all'arte del Regno Unito, per tutte le ragioni che i nostri affezionati lettori ben conoscono, trovò quasi commovente l'idea che quell'università commerciale contenesse un'aula dedicata, seppur in maniera informale, a Charles Dickens.









Fu con questo spirito che infine varcò la porta dell'Aula Dickens, accolto con moderato calore dai "confratelli" e dalle "consorelle", perché pur avendo aderito in ritardo, la sua scelta era stata coraggiosa, e avrebbe generato sicuramente, nell'ambito del Clep, una rivalità col Leader Fausto, che era membro del club rivale, il New Bloomsbury, appartenente all'estetica della  Light Academia, di cui si farà cenno tra poco.

Il Prefetto della Dark Academia dell'Aula Dickens era naturalmente Leonardo da Monza, che si era autoproclamato "il migliore amico di Robbie".
Non c'è dunque da meravigliarsi se Roberto fu trattato con riguardo, esteso, seppur con una certa circospezione, al suo compatriota forlivese Augusto Viroli. 
Tra Augusto e Leo emerse subito una certa competizione, come se il ruolo di "migliore amico" di Roberto potesse avere una qualche rilevanza, cosa che al giovane Monterovere risultava del tutto incomprensibile.
Che cosa si aspettano da me? Che cosa cercano? Io sono un mistero persino per me stesso, che cosa mai posso essere per loro?
Ma i suoi dubbi non riguardavano soltanto lo zelo di Augusto o di Leonardo: era tutta quella situazione che gli sembrava assurda.
Se da un lato era certamente lodevole che degli studenti di economia sentissero l'esigenza di coltivare altre conoscenze culturali, dall'altro c'era il dubbio riguardo alla volontà di fare una cosa simile in gruppo, invece di leggersi un libro a casa propria.
In fin dei conti, il pregiudiziale individualismo di Roberto prevaleva sulle altre considerazioni, rendendolo scettico e disincantato.
Trovava un po' eccessivo e velleitario l'entusiasmo dei membri della confraternita, che sembravano convinti di "fare la Storia" e di fondare chissà quale cenacolo di intellettuali.
Gli sembrava di rivedere in loro i frequentatori del "Salotto Intellettuale" dei suoi genitori.
C'era un eguale fervore e una eguale pretenziosità, tra alcuni dei loro ospiti, specie Piero Giovannelli e l'ineffabile signorina De Toschi: alcune tipologie umane gli parevano fatte con lo stampo.
Oppure quello sbagliato era lui, Roberto Monterovere, con la sua ossessiva coazione a ripetere gli stessi errori, ovunque andasse, finendo per ritrovarsi in situazioni analoghe a quella originaria, come se i trecento chilometri che aveva volutamente messo tra sé e Forlì non esistessero.
Gli tornarono in mente i versi di Kavafis:

"...la città ti verrà dietro, andrai vagando per le stesse strade, / perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto / tu l'hai sciupata su tutta la terra"

Era quello, ciò che stava facendo? Stava sciupando la sua vita tra economisti che facevano finta di essere letterati o artisti? Oppure, come un protagonista dickensiano, si preparava già a una nuova fase della sua lunga e avventurosa formazione?
Il dubbio era sempre lì, annidato nella sua mente, pronto a ripresentarsi alla prima occasione.
Noi conosciamo la risposta, ma la riveleremo soltanto al momento opportuno.

Quel giorno, comunque, Roberto apprese molte cose che gli tornarono alla mente soltanto venticinque anni dopo, in un contesto completamente diverso.
Oggi, l'espressione "Dark Academia", denomina un particolare tipo di estetica che ha trovato ampia diffusione sul web e nei social, in particolare su Tumblr, e questo può far pensare che sia stata coniata di recente, intorno al 2015, ma, in base a quel che Roberto ci ha raccontato, tale nome circolava già dagli Anni Novanta nelle università anglosassoni, su ispirazione del romanzo di Donna Tartt, The Secret History, pubblicato nel 1992, che racconta la storia di un omicidio che ha luogo all'interno di un gruppo di studenti di materie umanistiche in un college d'élite del New England.
Quel tipo di ambientazione creò un'estetica che si ripropose nel decennio e influenzò scrittori destinati ad avere un grande successo nelle nuove generazioni, prima tra tutti J.K. Rowling, che creò l'universo potteriano di Hogwarts proprio in quegli anni.
E dunque, mentre iniziava la riunione della Dark Academia nell'Aula Dickens, la Rowling aveva già iniziato a scrivere il suo primo romanzo. 

















Quel giorno si decise, per conoscersi meglio, di dedicare un'ora a uno scambio di opinioni riguardo a quali fossero i concetti e le tematiche che si potevano associare a un termine come Dark Academia.

Il primo a parlare, in quanto Prefetto, fu Leonardo:
<<Dark Academia, Accademia oscura: un nome e un aggettivo. 
Il nome riguarda il mondo universitario o culturale in senso lato, e all'interno di esso gli studenti volenterosi che, a prescindere dal tipo di facoltà che seguono, si interessano anche di discipline umanistiche ed artistiche.
L'aggettivo "oscura" è legato al fatto che i colori che ci piacciono di più sono quelli dell'autunno, della sera e della notte.
Ci piace la campagna, la natura selvaggia, la montagna. Ci piacciono i boschi, i ruscelli e i laghi.  Ci piace l'arte, la letteratura e la musica dell'Ottocento. Ci piace l'estetica romantico-decadente.
Ci piace l'arte gotica e neogotica, l'estetica medievale o medievaleggiante, ma anche la rigorosa conoscenza storica del Medioevo, che comporta anche la conoscenza della lingua latina.
Tutto questo ci distingue dalla Light Academia, che predilige colori chiari, primaverili, e un'estetica più vicina al classicismo e dunque anche alla storia antica del mondo ellenistico-romano. Ma non deve esserci una netta contrapposizione tra questi due filoni, che anzi possono e devono convivere e dialogare proficuamente>>
















Questa introduzione fu molto apprezzata, se non altro per la sua brevità, e noi stessi riteniamo di non doverci dilungare troppo nel riportare i singoli interventi.
Basti sapere che l'obiettivo di fondo, e cioè la creazione di un certo spirito di fratellanza che mitigasse l'atmosfera competitiva di quell'università, fu sostanzialmente raggiunto.
Roberto fece dunque la conoscenza di persone che riuscirono a mitigare quel suo innato individualismo scettico di cui si è parlato prima.
Lo mitigarono, ma soltanto un po', con il paradossale risultato che la sua caparbia ritrosia fu interpretata come una forma di benevola umiltà e di elegante undestatement, laddove invece, a volte, era tutto il contrario.
Riuscirono comunque, persino quel primo giorno, a fargli dire due parole:
<<Se, come è capitato, qualcuno mi dice, con aria di rimprovero, che sono "ottocentesco" o addirittura "medievale", io gli sorrido e lo ringrazio, perché, pur senza volerlo, mi ha fatto un complimento>>