Il cambiamento climatico è uno dei fondamentali fattori di qualsiasi analisi geopolitica sul mondo di oggi. Il riscaldamento dell’atmosfera prodotto dalla concentrazione dell’anidride carbonica (gas serra), che nella seconda metà di questo secolo (fra 2050 e 2070) sarà doppia rispetto al livello toccato prima della rivoluzione industriale (560 parti per milione contro le 280 di allora), è infatti un macrofenomeno destinato a incidere su tutti gli aspetti della vita associata, non escluse le strutture istituzionali e politiche.
Non si possono capire i conflitti di potere attuali senza considerare quanto siano influenzati dai mutamenti nella configurazione geofisica dei territori prodotti dall’innalzamento delle temperature e dalle conseguenze sociali e politiche da esso prodotte. Le quali sono molto diverse a seconda degli spazi geografici su cui impattano. Insomma, se il riscaldamento è un fenomeno globale, i suoi effetti sono molto specifici e variati. Ma insieme a questa diversità bisogna considerare, nella valutazione geopolitica del cambiamento climatico, le peculiarità di continenti e nazioni diverse, anche sotto il profilo sociale ed economico.
Prendiamo per esempio l’Africa. Qui il riscaldamento dell’atmosfera significa accelerare la desertificazione (vedi il report Unesco con le mappe di Laura Canali per Connect4Climate). Questo vuol dire più fame, più povertà, più migrazioni alla ricerca di regioni meno ostili alla vita umana. Il paradosso è che a soffrire di più è un continente che produce emissioni di gas serra – fonte primaria del cambiamento climatico – relativamente modeste. Le emissioni pro capite in Africa nel 2008 (stime più recenti) sono il triplo del 1950, ma appena il 6,6% di quelle registrate in Nordamerica.
Un altro esempio sono le isole e gli arcipelaghi particolarmente esposti all’innalzamento del livello delle acque marine – altro effetto del riscaldamento dell’atmosfera. Un evento che sta letteralmente cambiando la faccia del pianeta. Si consideri solo che l’innalzamento del livello dei mari nel decennio 2001-2010 è stato di 3 millimetri all’anno, ossia il doppio della tendenza osservata nel Novecento, quando si trattava di 1,6 millimetri/anno. Restando all’Africa, i delta del Nilo e del Niger sono direttamente minacciati dalla penetrazione di acqua salata. Con effetti disastrosi, anzitutto, sulle economie di due fra i massimi paesi del continente, Egitto e Nigeria.
Ci sono poi i fenomeni climatici estremi, visibili ormai in tutto il mondo, Occidente sviluppato compreso. Nelle più povere regioni dell’Africa subsahariana, ad esempio, le piogge particolarmente intense minacciano l’habitat di molte regioni, specie presso le coste del Golfo di Guinea o tra Kenya e Mozambico. Mettendo fra l’altro a rischio i raccolti agricoli.
Tutti questi fenomeni hanno il potere di incrementare il rischio di conflitti di origine climatica. La caccia alle risorse naturali – a cominciare dall’acqua – è un vettore di guerre destinato a diventare sempre più visibile nel prossimo futuro. Si pensi solo all’importanza del controllo delle falde acquifere e della Valle del Giordano nel caso israelo-palestinese, o alla competizione per le acque del Nilo, che tocca principalmente Etiopia, Sudan ed Egitto.
La conoscenza di questi rischi è ancora limitata, ma sarà una delle frontiere dell’analisi strategica nel prossimo futuro, come dimostrano le risorse impiegate dalle maggiori potenze mondiali per lo studio delle conseguenze geopolitiche del cambiamento climatico.
Articolo originariamente pubblicato in inglese su The Guardian
(26/02/2014)
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