venerdì 27 marzo 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 56. Chiare, fresche e dolci acque

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Sostiene una nota canzone "primaverile" che per innamorarsi basta un'ora
Non fu così per Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini. 
Non ci fu il cosiddetto "colpo di fulmine" in stile petrarchesco, con lui che viene trafitto dalla freccia di Cupido non appena la vede, il venerdì santo del 1327, e benedice quel giorno e quel luogo in uno dei suoi più famosi sonetti.
Niente di tutto questo.
O per lo meno, se proprio deve esserci uno sfondo idilliaco, con tanto di "chiare, fresche et dolci acque", si trattò, al massimo, di quelle del Canale Emiliano Romagnolo.
E questo perché  la realtà è tremendamente prosaica, a dispetto di tutte le romanticherie immaginarie che si ripetono di generazione in generazione, dai grandi esempi letterari fino alle loro vulgate cinematografiche, fatte di film con Audrey Hepburn o Julia Roberts, via via decadendo, fino alle serie tv per adolescenti, tipo Riverdale, dove le coppie e gli amori sono falsi come l'ottone, per esprimersi con un'espressione che Ettore Ricci usava di frequente.



 Ma torniamo ai nostri "anti-eroi" per ricostruire i loro primi dialoghi, tenendo conto che essi avvennero all'inizio degli Anni Settanta.
Innanzitutto va detto che il prof. Giovannelli, richiesto da Silvia di descrivere il collega Monterovere, non fu particolarmente generoso nei suoi confronti:
<<Mah, è un tipo strano. Dicono che venga dai monti. Ha dei modi bruschi, si mangia le parole, divora i cibi come un selvaggio, si sbriciola tutto. E poi come si esprime! Sembra dislessico...
E come insegnante non ne parliamo! E' pieno di controsensi: è laureato in matematica e non sa fare i conti, in compenso però ha messo in programma delle cose assurde, inaudite : la logica, gli insiemi, le relazioni... sta dei mesi a parlare di quella roba. E niente algebra, niente geometria! E poi è un fanatico di quelle cose strane di elettronica... non so cosa siano, li chiama calcolatori, ma non servono per fare i conti... sono delle macchine assurde, enormi, totalmente inutili... sai, la classica americanata... lui le chiama anche con un nome in inglese che non mi ricordo nemmeno, tanto si capisce subito che non hanno futuro...
Lui poi è una testa calda, un anticonformista, uno che ci tiene a épater le bourgeois... 
Però, nonostante tutto, ho deciso di invitarlo per la gita a Parigi perché sono sicuro che ci farà ridere, senza volerlo, naturalmente>> 
Questa dunque, la presentazione,
Ma cerchiamo di ricostruire insieme quello che accadde nel giorno in cui "il club di Piero" (ossia la cerchia eletta del prof. Giovannelli) si ritrovò sul treno che li avrebbe portati a Parigi.
Silvia non era molto alta di statura, ma nascondeva astutamente questo fatto avvalendosi della moda degli Anni Settanta: i pantaloni svasati, a zampa o a palazzo, le permettevano di indossare tacchi vertiginosi senza dare scandalo.
In quel fatidico giorno, Silvia vide avvicinarsi Francesco e lo osservò con attenzione: era molto alto, aveva capelli folti e castani, occhi nocciola screziati di verde, lo sguardo distratto, che sembrava sempre guardare altrove, in qualche dimensione parallela.
Quando però riconobbe Silvia, fu lui a farsi avanti e dopo le presentazioni e i convenevoli, iniziò subito a sondare il terreno:
<<Mi hanno detto che sei una letterata d'eccezione e una latinista insuperabile>>
<<Oh, che esagerazioni! Sono solo una che ha studiato molto>>
<<Ma per essere bravi in latino bisogna essere anche molto intelligenti. E' una materia logica>>
<<Be', sì...>>
<<E poi... ehm... ho sentito dire anche altre coseChe i tuoi genitori hanno un feudo addirittura, e conoscenze nell'alta società>>
Lei sorrise per quella descrizione bambinesca, ma cercò di minimizzare, col suo solito undestatement:
<<Mah, a dire il vero mio padre è un semplice contadino che ha fatto fortuna e mia madre appartiene a una famiglia nobile decaduta. Hanno delle terre, ma il nome "Feudo Orsini", che hanno voluto mantenere in onore di mia madre, è fuorviante: è più che altro un'azienda agricola. E riguardo alla cosiddetta "alta società", che dire? Abbiamo qualche parente che ha fatto carriera, ma io non ho mai voluto favori. Quello che ho fatto, l'ho fatto con le mie forze. Non dare retta a tutte le chiacchiere di Piero>>
Lui la squadrò con attenzione:
<<Non è stato solo lui a parlarmi della tua famiglia. Hai presente i lavori per il Canale Emiliano-Romagnolo?>>
<<Sì, certo. Dovrà proprio passare per le terre di mio padre. Lui teme un esproprio da parte della Province di Ravenna e di Forlì. E' arrabbiatissimo per questa storia: sai, le giunte sono di sinistra e mio padre è sempre stato di destra, per cui è certo che non gli daranno gran che, come indennizzo>>
Francesco sorrise:
<<Ecco, tu pensa che i lavori per il tratto della Romagna Centrale sono stati affidati all'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere, che è attualmente diretta da mio padre.
E nella famosa giunta "di sinistra" di Ravenna, l'assessore alle opere pubbliche è mio zio Edoardo, un comunista della prima ora.
E' lui che ha preso informazioni sul Feudo Ricci-Orsini>>
Silvia rimase di sasso:
<<Ma guarda che scherzo del destino! Mi ritrovo come collega e compagno di viaggio il figlio di un nemico di mio padre... Neanche in un romanzo d'appendice da quattro soldi si potrebbe trovare una trama così stereotipata>>
Francesco esitò qualche istante, poi disse:
<<Ad essere sinceri, mi pare che la storia dei Ricci-Orsini assomigli più che altro ad un romanzo giallo, un thriller, forse persino un noir con venature horror.
Mio padre mi ha raccontato delle storie veramente strane su certi episodi del vostro passato, si parla di delitti irrisolti, di alcune morti sospette...>>
Silvia si rabbuiò:
<<Tutte sciocchezze! Sono solo dicerie senza fondamento. Vaneggiamenti! E spero bene che tu non dia alcun credito a queste chiacchiere. Noi siamo gente per bene. Non dimenticarlo!>>
Detto questo, Silvia tirò dritto per il corridoio del treno, alla ricerca dello scompartimento di Piero e dei suoi eletti, facendo ticchettare i suoi tacchi alti, mentre Francesco la fissava con interesse accresciuto, perché gli piacevano le donne battagliere, specie quelle che sapevano combattere, per così dire, "in punta di tacco"...
In ogni caso, il ghiaccio era stato rotto.
La gita a Parigi permise a Francesco Monterovere di stringere amicizia con tutti i componenti del "club di Piero", compreso lo stesso Piero, il quale ebbe modo di apprezzare due qualità del nuovo "adepto" ossia l'indubbia intelligenza e la capacità di ascoltare senza mai pretendere di diventare il protagonista, ruolo che era "de iure" destinato al prof. Giovannelli.
Anche Silvia ebbe modo di rendersi conto che in fondo il Monterovere era un uomo interessante, che la faceva sentire a suo agio e la cui compagnia aveva il raro dono di rallegrarla, tanto che, in quella gita a Parigi, ella sentì alleviarsi, dopo tanto, tanto tempo, il peso della propria coscienza.

sabato 21 marzo 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 55. Partners in crime

Nessuno aveva mai capito perché Silvia Ricci-Orsini, nonostante fosse corteggiata, fin dai tempi del liceo, da tanti validi pretendenti, li avesse respinti uno dietro l'altro fino all'età di trent'anni.
A dire il vero, non lo capiva esattamente nemmeno lei.
La sua personalità era infatti piuttosto complessa e lacerata da numerosi conflitti interiori.
In lei la componente genetica paterna dei Ricci e quella materna degli Orsini si erano trovate in perfetta parità, e dunque nessuna delle due riusciva a prendere stabilmente il sopravvento sull'altra.
E questo aveva riprodotto, dentro di lei, qualcosa che accadeva da sempre fuori di lei e intorno a lei, ossia le interminabili liti tra suo padre e sua madre.
Ettore Ricci e Diana Orsini continuavano a farsi la guerra all'interno della psiche della loro figlia di mezzo, che comprendeva le ragioni di entrambi e  non riusciva a scegliere da che parte stare e di conseguenza che tipo di persona essere.
Del padre ammirava la forza, la determinazione, il coraggio e la laboriosità, ma si vergognava dei suoi modi rozzi, della sua insaziabile sete di denaro e di potere, dei suoi metodi poco ortodossi e dei collaboratori di cui si era circondato, e che sua madre divideva in due categorie: i "pendagli da forca" e quelli che non valevano la corda per impiccarli.
Della madre ammirava la gentilezza, il garbo, la raffinatezza e la cultura, ma non poteva fare a meno di notarne la sensibilità eccessiva, l'ironia corrosiva, il pessimismo radicale e assoluto (per quanto fondato su esperienze terribili e ragionamenti inconfutabili), tutti elementi che la portavano a indulgere all'accidia, in una sorta di quasi masochistica voluptas dolendi.
E ciò che preoccupava Silvia più di ogni altra cosa, era il riscontrare in se stessa gli stessi pregi, ma purtroppo anche, seppure in maniera attenuata e nascosta, una parte degli stessi difetti.
Ogni volta che individuava in sé un sentimento o un atteggiamento che le ricordava tali difetti, cercava subito di porvi rimedio, e ci riusciva, ma a caro prezzo, poiché la repressione degli istinti tende a ripresentarsi sotto forma di nevrosi.
E a voler essere sinceri, i primi sintomi di certe forme di ansia, di fobia, di pensieri ossessivi, o di emozioni troppo intense, avevano già fatto la comparsa nella sua mente a partire dall'adolescenza, sebbene nascosti dietro una facciata assolutamente irreprensibile.
Si era dunque convinta, e non senza validi argomenti, di non essere adatta al matrimonio o alla maternità, e per questo aveva rifuggito ogni relazione sentimentale, e fatto tacere ogni forma di sentimento o di desiderio.
Aveva adottato come suo motto due versi di una canzone francese dei tempi di Maria Antonietta, che spesso aveva sentito canticchiare da sua nonna, la Contessa Vedova Emilia, quando il delirio etilico allentava i già piuttosto deboli freni inibitori:
"Plaisir d'amour ne dure qu'un moment / Chagrin d'amour dure toute la vie"
Quel motto, a dire il vero, era stato trasmesso di generazione in generazione, probabilmente fin dai tempi dell'Ancien Regime, e fatto proprio da ogni Contessa Orsini di Casemurate, quasi che l'infelicità matrimoniale fosse una maledizione di famiglia.
E se anche, per puro caso, qualche matrimonio fosse stato meno fallimentare degli altri, era comunque stato funestato (poiché non è dato all'uomo di godere di gioie incontaminate), da una prole quasi del tutto fallimentare.
E dunque niente relazioni, niente amori, niente sesso, niente matrimonio, niente figli, niente di niente di niente...
Queste almeno erano le intenzioni di Silvia Ricci-Orsini nell'anno 1971.
Ma come si è detto nel capitolo precedente, la volontà umana incontra i suoi limiti di fronte ai principi fondamentali dell'universo, che restano pur sempre l'Errore e il Caso.
Tali forze erano state evocate dal collega e organizzatore di eventi ricreativi, prof. Piero Giovannelli, e avevano trovato la loro caotica incarnazione in Francesco Monterovere, un uomo che era un enigma persino per se stesso, e che fino a quel momento aveva attraversato la propria vita come un sonnambulo, dimenticando tutto e rimuovendo ogni ricordo sgradevole, e cioè dunque la quasi totalità.
Anche in lui, sebbene non ne fosse consapevole, si consumava il conflitto tra le tare ereditarie dei Monterovere, in particolare il carattere iracondo, ansioso, ombroso ed ossessivo e quelle materne dei Lanni, di indole introversa, malinconica e afflitta da fobie di ogni genere.
Il trentatreenne professor Monterovere era entrato da poco, per cooptazione, nel Club esclusivissimo del Giovannelli, di cui Silvia era tra le fondatrici, e dunque era stato nel contesto delle numerose cene e gite di quell'illustre comitiva che i due, ossia Silvia e Francesco, avevano avuto occasione di scambiare le loro prime parole e di conoscersi meglio.
Sappiamo che Francesco era già infatuato di lei, ma questo non giocò affatto a suo favore, perché i suoi tentativi di seduzione erano talmente goffi e maldestri da risultare comici nella migliore delle ipotesi, e profondamente imbarazzanti in tutte le altre.
E allora quale fu la scintilla che fece nascere tra quelle due persone così diverse e distanti il desiderio di unire le proprie sorti, dimenticando tutti i buoni propositi del passato?
Non è facile trovare una risposta, ma dopo lunghe ricerche crediamo infine di averla individuata.
Ci vuole molta forza per riuscire a percorrere l'intero cammino della vita da soli, senza l'appoggio di qualcuno che dice di amarci, e che sembra avere compreso il nostro animo meglio di tutti gli altri.
Ma a volte succede che questo "qualcuno" non ci ama come vorremmo e non ha realmente capito chi siamo, e di questo ci accorgiamo solo in un secondo momento, quando la lucidità torna a prendere il controllo sulle emozioni e sulle passioni. E accade che, per dirla con Lucrezio, dimidio de fonte leporum surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat. E allora ci svegliamo un giorno di fianco a una persona sconosciuta e veniamo colti dallo sgomento e dalla tentazione di fuggire.
Pochi, però, hanno sufficiente lucidità per capirlo e determinazione per farlo.
Ciò che intendiamo dire è che le coppie che restano unite non sono necessariamente entusiaste di questa unione, ma semplicemente ci si ritrovano a tal punto invischiate che non riescono a trovare la forza per uscirne, anche perché il ritornare da soli richiede un coraggio immenso.
E' forse questa paura della solitudine che tiene insieme le coppie e le spinge a cementare la loro unione col matrimonio e la procreazione?
Dispiace dirlo, ma forse è proprio così: ciò che garantisce la sopravvivenza del genere umano non è l'amore, ma è la paura della solitudine.
Mentre scriviamo queste cose, ci torna alla mente una canzone dal titolo significativo: "Home", perché è quello, e non l'amore, ciò che una coppia crea: una casa, un nido dove riscaldarsi a vicenda e fecondarsi e deporre le uova, e covarle finché non si schiudono e i piccoli non hanno imparato a volare, ammesso che ci riescano.

"Heaven knows- what keeps mankind alive
Ev'ry hand- goes searching for its partner
In crime- under chairs and behind tables"

Ogni mano cerca la sua complice in un crimine. Per un pessimista radicale il semplice mettere al mondo qualcuno è un sopruso. Non stiamo dicendo nulla di nuovo : già Sofocle, duemila e quattrocento anni fa, nella sua ultima tragedia, l'Edipo a Colono, espresse, novantenne, il suo pensiero: «Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti. Quando passa la giovinezza con le sue lievi follie, quale pena mai manca? Invidie, lotte, battaglie, contese, sangue, e infine, spregiata e odiosa a tutti, la vecchiaia» (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-1237). In molti, e tra i più saggi, nei secoli seguenti si sono espressi in tal senso: non nascere può essere il più grande dei doni.
Chi si scrive si trova alquanto d'accordo su questo punto, ma ammette che tale asserzione non può essere sufficiente nell'esaminare ciò che rese realmente Silvia e Francesco "partners in crime".
La ragione essenziale è un'altra, di cui nessuno dei due all'epoca era pienamente consapevole, e cioè che l'unione di due corredi genetici portatori di predisposizioni patologiche (nel loro caso prevalentemente di tipo psichico), rende estremamente probabile che una predisposizione patologica ancor più grave si manifesti nella prole.
Eppure in fin dei conti furono proprio quelle tare genetiche che finirono col buttarli l'una nelle braccia dell'altro.
Silvia infatti, che era così abituata e determinata nel respingere la corte degli uomini forti, che le ricordavano troppo suo padre, e dunque le facevano paura, finì con l'abbassare la guardia di fronte a quello che riteneva dopo tutto un personaggio innocuo, un animo gentile e una valida spalla su cui piangere.


giovedì 12 marzo 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 54. L'errore e il caso

In un ipotetico mondo perfetto e razionale, governato da un ordine geometrico euclideo, Silvia Ricci-Orsini e Francesco Monterovere sarebbero stati come due rette parallele destinate a non incontrarsi mai, se non, astrattamente, all'infinito.
Ma il cosmo, a dispetto del suo stesso nome, è talmente complesso e caotico da sfuggire ad ogni modello matematico per mezzo del quale gli scienziati vorrebbero ingabbiarlo, e per quanto ci si sforzi di trovare una formula che riesca a ricondurre le leggi fisiche ad un unico grande disegno, prima o poi si giunge, più o meno apertamente, alla rivelazione secondo cui i principi fondamentali dell'universo restano pur sempre l'errore e il caso.
E' soltanto alla luce di questa considerazione che si può tentare di capire come sia stato possibile che due personalità così distanti da sembrare incompatibili abbiano deciso di unire i loro destini per il resto della vita "nel sacro vincolo del matrimonio", e siano riusciti, nonostante ogni genere di avversità e di probabilità, a mantener fede a questo giuramento per mezzo secolo, fino all'ultimo respiro.
I loro stessi familiari, e più di tutti gli altri il loro figlio ed erede, Roberto Monterovere, avrebbero trascorso la vita intera domandandosi che cosa mai li avesse spinti, in un lontano giorno degli Anni Settanta, a finire l'una delle braccia dell'altro per poi proseguire questa unione contro ogni pronostico, attribuendo all'arbitrarietà del fatto compiuto e poi all'abitudine, il colore rosa pallido di un sentimento indefinibile e quello rosso sangue che lega per sempre i complici in un crimine. 
Della natura di questo crimine, se di crimine si può parlare, tratteremo nel prossimo capitolo.
Prima di tutto, infatti, è necessario cercare di ricostruire la sottile dinamica degli eventi che precedettero e favorirono il loro primo incontro e quali meccanismi si misero in moto, all'inizio in maniera quasi impercettibile, poi gradualmente in maniera via via più marcata, verso una direzione che rimase comunque incerta fino all'ultimo e quasi sconosciuta negli esiti non solo ai testimoni, ma persino ai protagonisti.
Non c'è da prestar fede ai racconti celebrativi confezionati col senno di poi, mezzo secolo dopo: si tratta solo di ricostruzioni ex post , che poggiano la loro precaria sicurezza sul fatto che il tempo funge da collante per tutto ciò che si sedimenta, comprese le coppie, e conferisce un'aura di venerabilità a tutto ciò che è longevo.
Le abitudini diventano tradizioni, gli errori si trasformano, nel ricordo, in scelte ponderate e il caso assume le sembianze inconfutabili della necessità.
Gli inizi furono invece alquanto incerti e fumosi, frutto di equivoci e malintesi, tali per cui entrambi svilupparono inizialmente l'uno riguardo all'altra, prima ancora che avessero avuto occasione di parlarsi, un'idea non del tutto corrispondente alla realtà.
Del resto bisogna tener presente che ognuno dei due, quando immaginava chi sarebbe potuto essere un eventuale futuro coniuge, partiva dal presupposto che non si sarebbero dovute in alcun modo riprodurre le dinamiche del rapporto coniugale dei propri genitori, che veniva preso come modello negativo da evitare come la peste.
Non essendo colleghi di sezione, Silvia e Francesco si erano soltanto visti di straforo, senza mai aver avuto l'occasione di parlare o di essere presentati.
Del resto, nessuno dei due era particolarmente portato a socializzare: avevano alcuni amici, ma non tanti, e questo perché una delle poche cose che condividevano era la convinzione che le persone oneste e sincere non hanno tanti amici.
Non si erano nemmeno, per così dire, "notati", e questo perché Francesco, per natura, aveva sempre la testa tra le nuvole, ed era quasi completamente privo di memoria visiva, mentre Silvia, che al contrario aveva lo spirito di osservazione di un detective, non era rimasta particolarmente colpita da quel personaggio allampanato e trasandato.
A svolgere il ruolo di Cupido, seppur in maniera non intenzionale, fu il professor Giovannelli, amico di entrambi, e animatore di un gruppo di colleghi che organizzava gite, pranzi, cene ed altri eventi ricreativi.
Da quel gruppo, va subito precisato, era escluso Massimo Braghiri, non solo per la sua presunzione e il suo livore verso chiunque potesse metterlo in ombra, ma anche per la ben nota legge secondo cui non ci possono essere due galli nel pollaio.
E infatti non era un caso se la cerchia, per lo più femminile, animata da Piero Giovannelli, era chiamata da tutti "il club di Piero".
A questa elite erano ammesse solo persone selezionate con cura.
I requisiti essenziali consistevano principalmente nell'essere persone "di cultura e di spirito", con raffinato senso dell'umorismo, ma senza la pretesa di stare al centro dell'attenzione, ruolo che spettava indiscutibilmente, quasi per diritto divino, al professor Giovannelli.
Silvia era stata tra le prime ad essere cooptata tra i "soci fondatori" di quel gruppo, mentre per molto tempo Francesco Monterovere non aveva ricevuto alcun invito.
E tuttavia fu proprio il suo modo di fare distratto e maldestro che attirò la curiosità di Piero Giovannelli, che lo trovava particolarmente buffo e nel contempo innocuo, due elementi che ispiravano una certa simpatia.
Fu così che un giorno, mentre si trovavano alla macchinetta del caffé, Giovannelli attaccò bottone con Francesco, e scoprì, con una certa meraviglia, che il collega Monterovere aveva tutti i requisiti per entrare nel suo club.
Prima di presentarlo ufficialmente agli altri membri, però, gliene volle dare, in anticipo, una descrizione informale.
Quando fu il momento di parlare di Silvia Ricci-Orsini, il prof. Giovanelli sondò il terreno:
<<Tu non hai mai sentito parlare di lei o della sua famiglia?>>
Francesco, come al solito, cadde dalle nuvole:
<<No... io vengo da Faenza>>
Lo disse come se Faenza distasse da Forlì quanto il Polo Nord dall'Equatore.
Piero Giovannelli sorrise con l'indulgente bonomia che si riserverebbe a un bambino o a un simpatico animaletto da compagnia:
<<Il clan Ricci-Orsini è un insieme di famiglie che controllano praticamente tutto dalle nostre parti, e al vertice di questa potenza ci sono proprio i genitori di Silvia, e cioè Ettore Ricci, un uomo d'affari spregiudicato e la nobildonna Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, che ai suoi tempi è stata una bellezza leggendaria, e ancora oggi è una specie di icona, un mito vivente>>
Chiunque altro sarebbe rimasto colpito da quel tipo di discorso, ma la reazione di Francesco Monterovere fu del tutto diversa:
<<Casemurate... ho già sentito quel nome... cosa c'è una specie di casello autostradale da quelle parti?>>
Giovannelli, che non aveva nemmeno la patente, trovò quella risposta particolarmente buffa:
<<Ah, ah, che soggetto che sei... comunque penso di sì, dev'esserci la stazione del Bevano, che è il torrente che passa di fianco a Villa Orsini>>
A quel punto Francesco ebbe una specie di illuminazione:
<<Bevano, sì... ne ho sentito parlare da mio padre, che lavora in un'azienda escavatrice e idraulica. Hanno vinto un appalto per far passare un canale di irrigazione da quelle parti>>
Gli occhi di Piero Giovannelli si illuminarono, nell'intravedere, in questa informazione, un preavviso di eventi interessanti:
<<Un canale nel bel mezzo del Feudo Orsini? Non credo proprio che Ettore Ricci lo permetterà!>>
Francesco non capiva:
<<E perché non dovrebbe? Conviene anche a lui. E' poi è un'opera pubblica, la pagheranno gli enti locali, penso. E per la terra requisita credo che ci sarà un qualche indennizzo...>>
Giovanelli rise:
<<Terra requisita? Ah ah ah! Ettore scatenerà l'inferno>>
Francesco era sempre più confuso:
<<Non capisco...>>
<<Tu non hai la minima idea...>>
<<Di cosa?>>
<<Di tutto>>
E a quel punto suonò la fine della ricreazione, lasciando Francesco Monterovere con un palmo di naso.
Per la prima volta, quel giorno, alla fine delle lezioni, osservò Silvia con attenzione.
Ciò che prima gli era parso come il frutto di un'eccessiva cura di sé, di ore trascorse dal parrucchiere e dall'estetista, o dal sarto e dal calzolaio, per rendersi più bella e più alta, gli si rivelò essere in realtà una naturale e spontanea tendenza al buon gusto, appresa tra le mura domestiche, assunta e assimilata insieme al latte materno.
Ed era naturale che fosse così, ora lo sapeva per certo, se sua madre era davvero, come il Giovannelli asseriva, "una bellezza leggendaria, una specie di icona, un mito vivente", nonché la "diciottesima Contessa Orsini di Casemurate".
Come per incanto, tutte le diciotto generazioni di nobildonne che avevano preceduto Silvia, apparvero improvvisamente disegnate nei suoi tratti, che Francesco trovò simili a quelli dell'attrice francese Anouk Aimée, per la quale aveva provato qualcosa di simile ad un innamoramento, quando l'aveva vista recitare ne La dolce vita e in Fellini 8 e 1/2.
Quella somiglianza, che gli era parsa tale soltanto dopo le informazioni ricevute dal Giovannelli, fu decisiva nel trasformare, agli occhi di Francesco, la collega Silvia Ricci-Orsini in una sorta di creatura mitologica, sicuramente dotata delle massime doti del corpo e dello spirito, che fino a quel giorno gli erano rimaste celate, come il Noumeno kantiano dietro a quello che Schopenauer, memore della sapienza induista, chiamava "Il velo di Maya".
Quando tornò a casa, Francesco chiese a suo padre se conosceva qualcosa riguardo a Ettore Ricci e Diana Orsini.
Romano Monterovere sgranò i suoi famosi occhi di ghiaccio e guardò il figlio con una nuova considerazione:
<<Vedo che finalmente hai deciso di interessarti agli affari di famiglia! Ettore Ricci possiede o controlla per mezzo di alleanze strategiche, quasi tutte le terre che vanno da Forlì a Ravenna. Suo padre era un contadino, ma aveva il bernoccolo degli affari, ed è riuscito a farlo sposare con...>>
<<Con la mitica Diana Orsini di Casemurate, una leggenda vivente>> concluse Francesco.
Romano lo fissò:
<<Come fai a saperlo, tu che hai sempre la testa per aria e non ti sei mai degnato di chiedermi chi è che ci sta creando tanti problemi per il tracciato del Canale Emiliano Romagnolo?>>
Francesco, contento di essere riuscito, forse per la prima volta in vita sua, ad impressionare il padre, dichiarò:
<<Silvia Ricci-Orsini, la figlia di Ettore e Diana, è mia collega, a scuola>>
Romano era scettico;
<<Con tutti i soldi che hanno i suoi, non capisco perché debba abbassarsi a insegnare in un istituto tecnico>>
Francesco sorrise:
<<Forse perché non vuole dipendere dai soldi del padre, e in questo avrebbe tutta la mia comprensione. E comunque l'insegnamento è una nobile arte>>
Romano scosse il capo in segno di generica e universale disapprovazione:
<<Dev'essere una testa calda come te. O come sua madre... perché circolano molte voci su tutti gli scandali che hanno avuto come protagonista donna Diana e la sua cerchia più intima: fratelli, sorelle, amanti, tutti coinvolti in vicende oscure, compresi tradimenti, incidenti mortali e presunti suicidi>>
E qui si mise a raccontare ciò che noi già conosciamo più approfonditamente e in maniera più corretta.
La versione data da Romano a suo figlio, riguardo a tutte le leggende che si narravano con grande immaginazione riguardo alla contessa Diana e al clan Ricci-Orsini, manco fosse la Famiglia Reale Inglese, non fece altro che proiettare intorno all'immagine di Silvia un'aura di luce semi-divina, che abbagliò Francesco in modo irreparabile, folgorandolo come Paolo sulla via di Damasco.




domenica 1 marzo 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 53. Niente è come sembra

<<Sai, mi sono chiesta spesso qual è il reale motivo che ci spinge a fare dei figli>> disse Diana alla sua secondogenita, Silvia <<e la conclusione a cui sono arrivata è che, a un certo punto delle nostre vite, ci rendiamo conto che le cose sono andate a rotoli in modo irreparabile, e così decidiamo di ricominciare da capo, di ripartire da zero: un nuovo inizio. E facciamo dei figli, piccole copie carbone alle quali dire: "Tu farai quello che io non ho potuto fare, tu avrai successo là dove io ho fallito", perché vogliamo qualcuno che faccia la cosa giusta, questa volta.
Poi i figli crescono, e cresce anche la nostra apprensione, la nostra paura che possano soffrire, che vadano incontro ai pericoli, e vorremmo trattenerli, anche se non ne abbiamo il diritto, perché la loro vita appartiene solo a loro, e noi abbiamo già commesso un grande atto di prevaricazione nel decidere di metterli al mondo senza il loro consenso>>
Quel discorso era coerente col suo comportamento, perché Diana Orsini non era mai stata una madre invadente, anzi, al contrario aveva sempre mantenuto un comportamento alquanto permissivo, limitandosi a qualche consiglio mirato o a pochi e cauti avvertimenti. 
Quel giorno però c'era qualcosa che la preoccupava più del solito.
Approfittando dell'assenza del marito, in viaggio d'affari con i fratelli, le sorelle e i soci, e della governante, in visita al figlio prediletto a Forlì, Diana aveva chiamato sua figlia Silvia nel Salotto Liberty per esprimere il suo pensiero su alcune questioni che le stavano molto a cuore.
Era presente anche la madre di Diana, la vecchia contessa vedova Emilia.
Le altre due figlie, Margherita e Isabella, parevano aver formato famiglie felici, ma Diana pensava a ciò che Tolstoj aveva scritto in Anna Karenina:
 "Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo".
E la famiglia di Diana era stata un cumulo di scandali, lutti e infelicità.
<<Ci sono tante persone sciocche che si vantano della loro felicità coniugale e familiare, come se fosse un dato di fatto acquisito una volta per tutte. Ma non è mica finita! I conti si fanno alla fine...>>
Silvia aveva annuito:
<<Basta guardare cos'è successo ai De Gubernatis. Zia Ginevra sembrava così sicura della fedeltà di suo marito, l'irreprensibile giudice istruttore, e poi viene a scoprire che ha avuto un figlio dalla segretaria>>
Era lo scandalo del momento, che era quasi costato la carriera al giudice Guglielmo De Gubernatis, marito di Ginevra Orsini.
Le parole di Silvia aleggiarono come corvi negli arredi floreali del Salotto Liberty di Villa Orsini.
Diana era consapevole che una eventuale caduta in disgrazia del giudice avrebbe reso più vulnerabile tutto il clan Ricci-Orsini. Per questo la sua collera era così grande.
<<Se quel disgraziato di De Gubernatis non conoscesse tutte le magagne di Ettore>> riprese Diana riferendosi rispettivamente al cognato e al marito <<non avrei mai approvato la scelta di quella sciocca di Ginevra di riprenderselo in casa come se niente fosse>>
Questo aspro commento risvegliò la vecchia contessa vedova Emilia dal suo torpore etilico:
<<Oh, avanti, Diana, non devi essere così dura con tua sorella. E poi, in questo modo, non fai altro che spaventare la nostra cara Silvia, che ancora non ha incontrato la sua anima gemella>>
Diana scosse il capo:
<<Non l'ha incontrata perché non esiste! Credere nell'anima gemella è come credere a Babbo Natale>>
Silvia sorrise: era abituata ai battibecchi tra sua madre e sua nonna riguardo al matrimonio.
<<Per me la libertà viene prima di ogni altra cosa. E poi ormai siamo negli Anni Settanta, non è necessario sposarsi per fare l'amore>>
A queste parole sia Diana che Emilia la guardarono con sospetto.
Un conto era parlare di certe cose in astratto, e un conto era insinuare un dubbio sulla questione della verginità.
La prima a parlare fu la contessa vedova Emilia:
<<Mia cara nipote, tu frequenti delle brutte compagnie. E non mi riferisco solo a quelle amiche "femministe" o come si fanno chiamare...>>
Subito però intervenne Diana, in qualità di Contessa in carica e capo formale del clan Ricci-Orsini:
<<Io ti capisco, Silvia e so benissimo che i tempi sono cambiati, ma purtroppo noi viviamo in una piccola Contea di campagna, in provincia di una piccola città che è un misto tra un covo di vipere e un nido di vespe. Per cui occorre prudenza. 
Tuo padre non vuole credermi, ma io so per certo che la famiglia Braghiri è disposta a tutto pur di rovinarci>>
Silvia conosceva le ipotesi di sua madre riguardo al ruolo di Michele Braghiri nella morte di zia Isabella, di zio Arturo e del nobile Federico Traversari, l'amante di Diana.
E suo figlio Massimo era quasi peggio del padre.
<<Non so più come comportarmi con Massimo. Gli ho fatto capire in tutti i modi che non sono interessata a lui, ma è come se parlassi a un muro. E' ossessionato da me...>>
La contessa vedova Emilia, che era alla seconda bottiglia di Cabernet-Sauvignon, sbottò:
<<Non da te, ma dal tuo cognome! Lui gira per casa e vede i ritratti di tutti i Conti Orsini di Casemurate, di tutti i Papi e i Principi che appartengono al nostro casato e naturalmente...>>
Di nuovo Diana intervenne per fermare il delirio etilico dell'anziana madre:
<<Non esageriamo, in fondo Silvia è una Orsini solo per metà. Per l'altra metà è una Ricci, e i Ricci, nonostante i loro soldi, non sono principi di nessun luogo>>
Silvia rise e sollevò la sua tazza di tè:
<<E allora brindiamo a Silvia Ricci-Orsini, Principessa di Nessun Luogo>>
Sua nonna Emilia si unì al brindisi, scolandosi altro vino.
Diana avrebbe voluto sorridere, ma la sua mente era tormentata dai fantasmi del passato e dalle paure del futuro.
<<Perdonatemi se non condivido la vostra spensieratezza, ma ci sono cose che non posso dimenticare, neanche se bevessi come mia madre o se fossi giovane e libera come mia figlia.
Nei lunghi e sconfinati inverni che ho trascorso chiusa nella mia camera da letto, sono arrivata alla conclusione che sarebbe stato meglio non nascere, e in ogni caso non sposarsi e non fare figli, ma dal momento che il passato non si può cambiare, ho cercato di concentrarmi sul futuro, affinché non si ripetano certi eventi oscuri su cui per paura io stessa ho evitato di far luce.
Forse ho danzato per troppo tempo con i miei fantasmi, lassù nella stanza dai muri di pietra, ma non posso fare a meno di temere che il passato ritorni e ci chieda il suo tributo>>
Silvia comprendeva la sofferenza di sua madre, le coercizioni a cui era stata sottoposta, gli anni della guerra, i lutti, i tradimenti, gli scandali.
<<Io sono consapevole che nel passato della nostra famiglia niente è come sembra.
C'ero anch'io quando trovarono il corpo di zia Isabella, e quando ci dissero dell'incidente di zio Arturo, e anche quando morì Federico Traversari.
Ero piccola, ma mi ricordo tutto, perché i bambini e gli adolescenti hanno buona memoria.
Però ho sempre cercato di non pensarci troppo, perché non volevo essere travolta da questo peso. So che la verità, se mai ce ne fosse una, è sepolta dietro ad infiniti veli, ma non mi sono posta domande su ciò che è veramente accaduto.
Le mie domande sono altre.
Fino a che punto i nostri ricordi ci definiscono?
Fino a che punto noi siamo il risultato delle circostanze della nostra nascita e della nostra crescita?
Forse un fiore è responsabile del proprio colore?>>
Gli occhi grandi e belli di Diana, che in un tempo lontano avevano fatto innamorate tanti giovani sgraditi a suo padre, sembravano guardare lontano, in un altro tempo, forse in un'altra dimensione.
<<Mi sono posta anch'io le stesse domande, e dal punto di vista teorico credo che il libero arbitrio non esista. Questo però non deve essere una scusa per rifuggire dalle proprie responsabilità.
Io mi sento responsabile per compromessi che ho accettato, per i ricatti a cui ho ceduto, per i silenzi e le omissioni con cui ho coperto la colpevolezza di altre persone.
Quando è morto mio padre e gli sono succeduta come guida di questa Contea, mi ero ripromessa di cambiare.
Avevo guardato i ritratti degli antenati e avevo pensato che sarei stata degna della loro eredità, perché: "I giganti sono come montagne: si parlano attraverso i secoli".
Ero convinta di poter essere persino meglio di loro.
Mi ero detta: "Questo è un regno di rettitudine, oppure non è niente".
E infatti non rimane più niente.
Etiam periere ruinae>>
Silvia si sentì gelare:
<<Non è tutto perduto, mamma. Ci sono io al tuo fianco, e io non mi arrendo, e non mi arrenderò mai>>
Diana sapeva che sua figlia avrebbe risposto in quel modo.
Era proprio quella determinazione ciò che la esponeva maggiormente al pericolo:
<<Ammiro il tuo coraggio, ma ti invito a non fidarti di nessuno, tranne me e le tue sorelle, perché, come hai ammesso tu stessa, da queste parti niente è come sembra.
Ricordatelo bene, Silvia.
Niente è come sembra!>>