martedì 27 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 15. Le nozze di Ettore e Diana

In una ridente domenica di giugno del 1938 ebbe luogo l'ultimo grande evento mondano della Contea di Casemurate prima della Seconda Guerra Mondiale, ossia il matrimonio di Diana Orsini Balducci, primogenita del conte Achille, con Ettore Ricci, suo fidanzato da meno di un anno.
Quelle nozze furono anche l'ultima occasione, in assoluto, nella quale le antiche famiglie aristocratiche e dell'alta società si degnarono di partecipare ad una cerimonia insieme alla gente comune del luogo e se lo fecero, fu soprattutto per mera curiosità, e magari per una segreta speranza di assistere ad episodi imbarazzanti.
Nei mesi precedenti, i promessi sposi si erano visti poche volte, per non rischiare spiacevoli inconvenienti che avrebbero potuto mandare a monte l'alleanza tra il clan dei Ricci e quello degli Orsini.
Erano stati comunque mesi intensi.
La famiglia Ricci, per una volta, non aveva badato a spese e aveva organizzato l'evento cercando di mantenere un equilibrio tra la solennità elegante desiderata dagli Orsini e la sfarzosità un po' pacchiana che mirava a far colpo sulla folla.
Clara Ricci assunse persino uno stuolo di esperti di bon ton incaricati d'impresa quasi disperata di "dirozzare" suo figlio Ettore una volta per tutte.
Nel frattempo, Diana era rimasta in disparte, in silenzio, riducendo al minimo possibile le interazioni sociali, anche con i parenti, per i quali provava un senso di delusione e di estraneità che soltanto il tempo e gli eventi eccezionali e terribili degli anni futuri avrebbero potuto attenuare.
In particolare stava attenta a non lasciarsi sfuggire nessuna protesta in presenza della governante Ida Braghiri, di cui aveva intuito, oltre alla natura maligna e pettegola, anche il ruolo di spia per conto del suo futuro suocero, il vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci, e tutto il suo clan, di cui Ettore, in fondo, era il membro più onesto e meno compromesso con certi affaristi e politicanti senza scrupoli.
Aveva finito per accettare il ruolo che le era toccato in sorte, ma aveva giurato a se stessa che la famiglia che sarebbe sorta dal suo matrimonio sarebbe stata migliore di quella in cui lei era nata e cresciuta. E per "migliore" intendeva qualcosa di molto diverso rispetto alle cose a cui suo padre e sua madre davano importanza. Lei non avrebbe mai permesso che i suoi figli fossero costretti a sposarsi contro la loro volontà, e avrebbe fatto in modo che si sentissero protetti, e che crescessero imparando il valore del sostegno reciproco, senza che nessuno di loro dovesse sacrificarsi in nome di tutti gli altri.
Certo, per poter riuscire in questo, Diana avrebbe dovuto lottare contro la famiglia del marito, ma sperava ancora che Ettore fosse veramente innamorato di lei, e dunque disposto ad ascoltarla e a rispettarla, soprattutto per quel che riguardava l'educazione dei figli che sarebbero nati.
Per ottenere questo era disposta a salvare le apparenze in pubblico, mantenendo un contegno impeccabile, a partire dalla cerimonia nuziale.
Entrambe le famiglie avevano convenuto sulla necessità di spedire un numero enorme di inviti, per garantire una partecipazione straordinaria all'evento, che ne avrebbe sancito il successo.
E in effetti sia numero dei partecipanti, sia la loro importanza e varietà, furono superiori alle più rosee aspettative.
C'erano i grandi proprietari dei latifondi circostanti, e si trattava di personaggi i cui nobili cognomi erano venerati più degli dei dell'Olimpo nell'Antica Grecia.
Primi tra tutti, i marchesi Spreti di Serachieda avevano persino anticipato l'apertura estiva della loro famosa Villa con tanto di torre, che si trovava nelle vicinanze della chiesa, nel punto esatto dove il torrente Serachieda faceva da confine tra la provincia di Forlì e quella di Ravennna, di modo che Casemurate, già così piccola, risultava pure divisa in due.
E, sia detto per inciso, i casemuratensi di Ravenna si consideravano i più antichi e i più raffinati, facendo risalire le loro origini familiari ai tempi dell'Esarcato bizantino, laddove invece i casemuratensi di Forlì erano considerati come dei barbari discendenti dai Galli Senoni, mandati a lavorare la terra come schiavi dei conquistatori romani.
Ma dall'antica e romana Forum Livii giunsero per quelle nozze famiglie leggendarie, alcune persino citate da Dante, come i Paolucci de' Calboli, che peraltro erano la famiglia natale della contessa madre Emilia, sorella dell'illustre e compianto milite Fulcieri, il cui nome era lo stesso del famoso antenato di dantesca memoria.
Parteciparono anche i conti Zanetti Protonotari Campi, proprietari di antichissimi vigneti da cui la loro azienda produceva vini pregiati di eccellente qualità.
Vennero addirittura i conti Orsi-Mangelli, il cui capofamiglia aveva fondato un famoso setificio.
Grande stupore suscitò la partecipazione dell'anziano conte Leopoldo Gagni di Montescudo, che non usciva di casa da vent'anni e andava a dormire alle sette di sera come i polli. La sua presenza aveva valide motivazioni: essendo vedovo e ormai senza soldi, desiderava risposarsi con una brava ragazza che avesse sostanzialmente due qualità: una buona dote e uno spirito di servizio da crocerossina.
Aveva chiesto consiglio all'unica persona che sapeva tutto di tutti e la cui parola era decisiva in qualsiasi questione: la Signorina De Toschi.
Quest'ultima aveva pensato bene di utilizzare questa unione per accrescere il potere del nascente clan Ricci-Orsini. In men che non si dica, Carolina Ricci, una delle numerose sorelle di Ettore, era stata fidanzata ufficialmente al conte Gagni.
Considerato il prestigio di questi invitati, ad officiare la messa nuziale fu l'allora vescovo di Forlì, Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Giuseppe Maria Caetani, anche lui appartenente a una nobile famiglia romana, per quanto fosse un prelato molto gioviale e alla mano, tanto che i fedeli lo chiamavano affettuosamente "don Pippo" e i maligni Monsignor Panzone.
Sul versante delle autorità politiche, istituzionali, culturali, clericali e militari, la partecipazione fu sollecitata, ovviamente, dalla Signorina De Toschi, autoproclamatasi testimone di nozze della sposa,  e addirittura dal Generale De Toschi in persona, che,  insieme ad un drappello di attendenti e ufficiali in alta uniforme, aveva imposto la presenza del picchetto d'onore, da lui stesso presieduto, con tanto di sfoderamento delle spade all'uscita degli sposi, in deroga a tutte le norme cerimoniali.
L'anziano Generale, fervente monarchico, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell'Ordine Militare di Savoia e di quello della Corona Italiana, nonché Grande Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, si sentì in dovere di comunicare agli sposi e alle loro famiglie, nonché a gran parte degli aristocratici presenti, che "Sua Maestà il Re, per il tramite di Sua Altezza Reale Maria José, Principessa di Piemonte, rivolge agli sposi e a tutti gli intervenuti le sue più vive felicitazioni".
Mancò poco che questa sbruffonata da miles gloriosus del Generale De Toschi causasse un incidente diplomatico con la milizia fascista, che voleva a sua volta far parte del picchetto d'onore, dal momento che il padre dello sposo, il vecchio Giorgio Ricci, si vantava di essere un amico d'infanzia del Duce, e i suoi figli maggiori, Oreste e Roderico, erano arrivati persino a dare per certa la partecipazione del conte Ciano e consorte, notizia che si rivelò, com'era da prevedersi, del tutto priva di fondamento.
Ma Ettore, che era il meno politicizzato tra i membri della famiglia Ricci, riuscì a convincere il padre e i fratelli a evitare ulteriori spacconate che suscitassero le ironie dei nobili di ben più antico lignaggio e le tensioni con gli stessi conti Orsini di Casemurate, liberali conservatori di vecchio stampo, piuttosto tiepidi di fronte al fascismo.
La gente comune partecipò in massa: i popolani volevano essere testimoni di un evento che sarebbe stato ricordato molto a lungo nei decenni seguenti e che vedeva il trionfo di uno di loro, che per la prima volta entrava a far parte di una famiglia nobile.
Quando videro la sposa incedere verso l'altare al braccio del Conte, suo padre, rimasero stupefatti dall'eleganza sobria dell'abito nuziale e del velo, che, unite al fisico snello e alla pelle diafana, le conferivano quasi l'aspetto di una fata.
Suo fratello Arturo e le sorelle Ginevra e Isabella sapevano bene che dietro a quell'alone sovrannaturale c'era in realtà una grande sofferenza, e di ciò si sentivano in colpa, perché sapevano che, salvando il buon nome e la solvibilità degli Orsini di Casemurate, Diana permetteva a loro di avere ciò che a lei non era stato concesso, e cioè la possibilità di scegliere la persona con cui trascorrere il resto della propria vita.
La contessa Emilia, divorata dall'ansia che potesse succedere qualche disguido dell'ultimo minuto, cercava di smorzare la tensione osservando lo spettacolo offerto dal vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci, che osservata la futura nuora con la bocca aperta e mezza sdentata.
Ma il vero spettacolo era offerto dalla Signorina de Toschi: portava un enorme cappello a tesa larga, come quelli delle dame inglesi dell'età edoardiana, tutto inghirlandato di fiori finti e di penne di uccelli, tanto che ci avrebbero potuto nidificare comodamente due coppie di cicogne. Per tener fermo quell'enorme cespuglio piumato, c'era un nastro che passava tra il suo secondo mento e il terzo, al di sotto del quale l'attempata signorina Mariuccia sfoggiava una parure di diamanti che avrebbe fatto invidia a quelle della Corona Britannica. Il resto dell'abito era un'accozzaglia di balze in pizzo e in tulle, inframmezzate da lunghissime collane di perle che le ricadevano fino alla scollatura. Da lì, non essendo possibile far indossare un corpetto a quel corpo così panciuto, partiva un'enorme gonna, con diecimila sottane e un diametro, a terra, di quasi due metri.
A sorvegliare la Signorina, il cui onore era più sacro di quello della sposa, c'era, come si è detto, il Babbo, il grand'uomo, il Generale Ardito De Toschi.
La sua presenza incuteva terrore: era una specie di incrocio tra Bismarck e il Kaiser Guglielmo II, con tanto di baffoni inamidati e arricciati verso l'alto.
Gli occhi erano a tal punto spiritati, e il cipiglio così corrucciato, che il suo solo sguardo era già di per sé una dichiarazione di guerra.
Le decorazioni appuntate sulla sua divisa di generale di corpo d'armata occupavano tutto lo spazio disponibile. Oltre a quelle di cui si è accennato sopra, c'era persino chi giurava di aver scorto la Legion d'Onore, la Croce di Ferro prussiana, il Toson d'Oro di asburgica memoria e addirittura la stella dell'Ordine della Giarrettiera.
Tra le innumerevoli le medaglie al valor militare e civile, spiccavano le mostrine e i galloni del grado di comando, a commemorare con gloria le sue gesta immortali.
La sciabola tintinnava al suo fianco, ogni volta che il vegliardo si alzava e si sedeva, ma non si inginocchiava mai, adducendo come causa una fastidiosa artrosi: in realtà era un uomo talmente orgoglioso che, pur essendo credente, riteneva che lui e Dio potessero guardarsi negli occhi, l'uno di fronte all'altro, da pari a fari.
Non meno orgogliosi erano i parenti dello sposo, a cominciare da sua madre, la maestra Clara Ricci, i cui intrighi erano stati degni di una specie di Guerra delle Due Rose, tanto che, nel porle un cenno di saluto, il conte Achille non poté fare a meno, per un istante, di paragonarla a Margaret Beaufort, la madre di Enrico VII Tudor, nel giorno in cui il re sposava l'erede della dinastia sconfitta, la principessa Elisabetta di York.
Preferì tuttavia non soffermarsi sulla sorte degli altri York sopravvissuti, tutti destinati a cadere, uno dopo l'altro, sotto i colpi di mannaia dei Tudor.
Al passaggio di Diana, ci fu grande silenzio non solo nella navata di destra, dove sedevano i nobili, ma anche in quella di sinistra, dove si trovava la famiglia dello sposo, e tutti i personaggi, di non poco conto, collegati al grande clan dei Ricci.
Ettore si era strategicamente collocato su un gradino più in alto, in modo da rendere meno evidente la propria bassa statura.
Aveva lo sguardo soddisfatto di un re che stava per essere consacrato e legittimato agli occhi di un popolo che per troppo tempo non aveva creduto in lui.
Oreste Ricci, suo fratello maggiore, gli faceva da testimone di nozze.
A differenza di Ettore, che assomigliava più al padre, Oreste aveva i capelli rossicci della madre, che lo adorava a tal punto da fargli avere l'incarico di vicedirettore dell'Azienda Meccanica Ricci, specializzata nella produzione, all'avanguardia per l'epoca, di macchinari agricoli.
Gli altri fratelli e sorelle dello sposo erano come in attesa di spartirsi una torta, e non era soltanto quella nuziale.
Roderico, considerato l'intellettuale di famiglia in quanto diplomato all'istituto tecnico agrario, aveva un carattere talmente insopportabile che, qualche anno prima, la moglie era fuggita dal talamo coniugale dopo soli due giorni di matrimonio. Da allora il suo umore era divenuto talmente collerico che persino un cane ringhioso sarebbe apparso un moderato, in confronto a lui.
Caterina era insieme al marito, l'avvocato Edoardo Baroni, esponente dell'Azione Cattolica con ottime aderenze e relazioni nella Curia forlivese.
Maria Teresa era fidanzata con il vice-ispettore della polizia Onofrio Tartaglia, di ferrea fede fascista.
Carolina osservava vecchio il conte Gagni con una certa apprensione, facendosi forza al pensiero che sarebbe presto diventata una vedova rispettabile ed economicamente indipendente.
Adriana, l'ultimogenita, era stata scelta dalla madre come "bastone per la vecchiaia", e dunque destinata al nubilato, non fosse altro che per il suo aspetto non proprio attraente e per il carattere alquanto burrascoso.
Vicino alla famiglia Ricci, c'erano anche i coniugi Braghiri, entrambi nel contempo divorati dall'ambizione e illividiti dall'invidia.
Vedendo tutta la sfilata di nobili che, come divinità celesti, erano scese dall'alto dei mondi sereni calandosi in quell'atomo opaco del male, i Braghiri, nel cui sangue il male scorreva come un nutrimento, sentivano rinnovarsi nel cuore la bramosia di impadronirsi di tutto, con qualunque mezzo, a qualunque costo.
Tale è la brama del successo, il quale come una droga crea dipendenza e corrompe il corpo e la mente di chi lo insegue, rendendolo disposto a fare qualsiasi cosa pur di conservarlo e accrescerlo.
Ben pochi riuscivano a salvarsi da quel demone, e se ce la facevano era solo perché protetti dall'unica medicina che rendeva felici e immuni dalle ansie, e cioè la stupidità.
Uno stupido di successo è felice perché è stupido, a prescindere dal successo stesso.
Una persona intelligente, al contrario, può diventare un mostro se la droga del successo mette radici troppo profonde nella sua anima.
Diana aveva appreso tutto questo da molto tempo.
Sua madre, nei momenti di sincerità indotti dall'alcool, aveva confessato che era stata la brama di successo a rovinare la loro famiglia, e quando la figlia le chiedeva se sarebbero mai più riusciti ad essere felici, lei aveva riso: "Felici? E che cos'è la felicità, se non il premio di consolazione degli idioti?".
Diana aveva obiettato che quella frase avrebbe potuto offendere tante persone intelligenti che si ritenevano felici.
La contessa Emilia aveva scosso il capo: "Non sono felici, mentono a se stessi, e si offendono perché noi smascheriamo la loro menzogna".
"Dunque conoscere la verità rende infelici?"
"Nei limiti in cui la verità è conoscibile".
Tutte quelle parole tornarono alla mente della sposa, durante quella tediosa cerimonia.
Quando si giunse alla fatidica domanda "Vuoi tu, Diana, prendere il qui presente Ettore come tuo legittimo sposo, per amarlo e onorarlo... "  il silenzio calò nella chiesa.
Se avesse potuto dire la verità, la risposta sarebbe stata negativa.
Ma Diana aveva imparato che, per quanto dire la verità sia generalmente una cosa giusta, ci sono casi in cui può scatenare la fine del mondo, e sarebbe sbagliato provocare la fine del mondo in nome di una cosa giusta.