sabato 21 marzo 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 55. Partners in crime

Nessuno aveva mai capito perché Silvia Ricci-Orsini, nonostante fosse corteggiata, fin dai tempi del liceo, da tanti validi pretendenti, li avesse respinti uno dietro l'altro fino all'età di trent'anni.
A dire il vero, non lo capiva esattamente nemmeno lei.
La sua personalità era infatti piuttosto complessa e lacerata da numerosi conflitti interiori.
In lei la componente genetica paterna dei Ricci e quella materna degli Orsini si erano trovate in perfetta parità, e dunque nessuna delle due riusciva a prendere stabilmente il sopravvento sull'altra.
E questo aveva riprodotto, dentro di lei, qualcosa che accadeva da sempre fuori di lei e intorno a lei, ossia le interminabili liti tra suo padre e sua madre.
Ettore Ricci e Diana Orsini continuavano a farsi la guerra all'interno della psiche della loro figlia di mezzo, che comprendeva le ragioni di entrambi e  non riusciva a scegliere da che parte stare e di conseguenza che tipo di persona essere.
Del padre ammirava la forza, la determinazione, il coraggio e la laboriosità, ma si vergognava dei suoi modi rozzi, della sua insaziabile sete di denaro e di potere, dei suoi metodi poco ortodossi e dei collaboratori di cui si era circondato, e che sua madre divideva in due categorie: i "pendagli da forca" e quelli che non valevano la corda per impiccarli.
Della madre ammirava la gentilezza, il garbo, la raffinatezza e la cultura, ma non poteva fare a meno di notarne la sensibilità eccessiva, l'ironia corrosiva, il pessimismo radicale e assoluto (per quanto fondato su esperienze terribili e ragionamenti inconfutabili), tutti elementi che la portavano a indulgere all'accidia, in una sorta di quasi masochistica voluptas dolendi.
E ciò che preoccupava Silvia più di ogni altra cosa, era il riscontrare in se stessa gli stessi pregi, ma purtroppo anche, seppure in maniera attenuata e nascosta, una parte degli stessi difetti.
Ogni volta che individuava in sé un sentimento o un atteggiamento che le ricordava tali difetti, cercava subito di porvi rimedio, e ci riusciva, ma a caro prezzo, poiché la repressione degli istinti tende a ripresentarsi sotto forma di nevrosi.
E a voler essere sinceri, i primi sintomi di certe forme di ansia, di fobia, di pensieri ossessivi, o di emozioni troppo intense, avevano già fatto la comparsa nella sua mente a partire dall'adolescenza, sebbene nascosti dietro una facciata assolutamente irreprensibile.
Si era dunque convinta, e non senza validi argomenti, di non essere adatta al matrimonio o alla maternità, e per questo aveva rifuggito ogni relazione sentimentale, e fatto tacere ogni forma di sentimento o di desiderio.
Aveva adottato come suo motto due versi di una canzone francese dei tempi di Maria Antonietta, che spesso aveva sentito canticchiare da sua nonna, la Contessa Vedova Emilia, quando il delirio etilico allentava i già piuttosto deboli freni inibitori:
"Plaisir d'amour ne dure qu'un moment / Chagrin d'amour dure toute la vie"
Quel motto, a dire il vero, era stato trasmesso di generazione in generazione, probabilmente fin dai tempi dell'Ancien Regime, e fatto proprio da ogni Contessa Orsini di Casemurate, quasi che l'infelicità matrimoniale fosse una maledizione di famiglia.
E se anche, per puro caso, qualche matrimonio fosse stato meno fallimentare degli altri, era comunque stato funestato (poiché non è dato all'uomo di godere di gioie incontaminate), da una prole quasi del tutto fallimentare.
E dunque niente relazioni, niente amori, niente sesso, niente matrimonio, niente figli, niente di niente di niente...
Queste almeno erano le intenzioni di Silvia Ricci-Orsini nell'anno 1971.
Ma come si è detto nel capitolo precedente, la volontà umana incontra i suoi limiti di fronte ai principi fondamentali dell'universo, che restano pur sempre l'Errore e il Caso.
Tali forze erano state evocate dal collega e organizzatore di eventi ricreativi, prof. Piero Giovannelli, e avevano trovato la loro caotica incarnazione in Francesco Monterovere, un uomo che era un enigma persino per se stesso, e che fino a quel momento aveva attraversato la propria vita come un sonnambulo, dimenticando tutto e rimuovendo ogni ricordo sgradevole, e cioè dunque la quasi totalità.
Anche in lui, sebbene non ne fosse consapevole, si consumava il conflitto tra le tare ereditarie dei Monterovere, in particolare il carattere iracondo, ansioso, ombroso ed ossessivo e quelle materne dei Lanni, di indole introversa, malinconica e afflitta da fobie di ogni genere.
Il trentatreenne professor Monterovere era entrato da poco, per cooptazione, nel Club esclusivissimo del Giovannelli, di cui Silvia era tra le fondatrici, e dunque era stato nel contesto delle numerose cene e gite di quell'illustre comitiva che i due, ossia Silvia e Francesco, avevano avuto occasione di scambiare le loro prime parole e di conoscersi meglio.
Sappiamo che Francesco era già infatuato di lei, ma questo non giocò affatto a suo favore, perché i suoi tentativi di seduzione erano talmente goffi e maldestri da risultare comici nella migliore delle ipotesi, e profondamente imbarazzanti in tutte le altre.
E allora quale fu la scintilla che fece nascere tra quelle due persone così diverse e distanti il desiderio di unire le proprie sorti, dimenticando tutti i buoni propositi del passato?
Non è facile trovare una risposta, ma dopo lunghe ricerche crediamo infine di averla individuata.
Ci vuole molta forza per riuscire a percorrere l'intero cammino della vita da soli, senza l'appoggio di qualcuno che dice di amarci, e che sembra avere compreso il nostro animo meglio di tutti gli altri.
Ma a volte succede che questo "qualcuno" non ci ama come vorremmo e non ha realmente capito chi siamo, e di questo ci accorgiamo solo in un secondo momento, quando la lucidità torna a prendere il controllo sulle emozioni e sulle passioni. E accade che, per dirla con Lucrezio, dimidio de fonte leporum surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat. E allora ci svegliamo un giorno di fianco a una persona sconosciuta e veniamo colti dallo sgomento e dalla tentazione di fuggire.
Pochi, però, hanno sufficiente lucidità per capirlo e determinazione per farlo.
Ciò che intendiamo dire è che le coppie che restano unite non sono necessariamente entusiaste di questa unione, ma semplicemente ci si ritrovano a tal punto invischiate che non riescono a trovare la forza per uscirne, anche perché il ritornare da soli richiede un coraggio immenso.
E' forse questa paura della solitudine che tiene insieme le coppie e le spinge a cementare la loro unione col matrimonio e la procreazione?
Dispiace dirlo, ma forse è proprio così: ciò che garantisce la sopravvivenza del genere umano non è l'amore, ma è la paura della solitudine.
Mentre scriviamo queste cose, ci torna alla mente una canzone dal titolo significativo: "Home", perché è quello, e non l'amore, ciò che una coppia crea: una casa, un nido dove riscaldarsi a vicenda e fecondarsi e deporre le uova, e covarle finché non si schiudono e i piccoli non hanno imparato a volare, ammesso che ci riescano.

"Heaven knows- what keeps mankind alive
Ev'ry hand- goes searching for its partner
In crime- under chairs and behind tables"

Ogni mano cerca la sua complice in un crimine. Per un pessimista radicale il semplice mettere al mondo qualcuno è un sopruso. Non stiamo dicendo nulla di nuovo : già Sofocle, duemila e quattrocento anni fa, nella sua ultima tragedia, l'Edipo a Colono, espresse, novantenne, il suo pensiero: «Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti. Quando passa la giovinezza con le sue lievi follie, quale pena mai manca? Invidie, lotte, battaglie, contese, sangue, e infine, spregiata e odiosa a tutti, la vecchiaia» (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-1237). In molti, e tra i più saggi, nei secoli seguenti si sono espressi in tal senso: non nascere può essere il più grande dei doni.
Chi si scrive si trova alquanto d'accordo su questo punto, ma ammette che tale asserzione non può essere sufficiente nell'esaminare ciò che rese realmente Silvia e Francesco "partners in crime".
La ragione essenziale è un'altra, di cui nessuno dei due all'epoca era pienamente consapevole, e cioè che l'unione di due corredi genetici portatori di predisposizioni patologiche (nel loro caso prevalentemente di tipo psichico), rende estremamente probabile che una predisposizione patologica ancor più grave si manifesti nella prole.
Eppure in fin dei conti furono proprio quelle tare genetiche che finirono col buttarli l'una nelle braccia dell'altro.
Silvia infatti, che era così abituata e determinata nel respingere la corte degli uomini forti, che le ricordavano troppo suo padre, e dunque le facevano paura, finì con l'abbassare la guardia di fronte a quello che riteneva dopo tutto un personaggio innocuo, un animo gentile e una valida spalla su cui piangere.