martedì 28 settembre 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 161.Tutto l'oro del mondo





L'anziano "patriarca" Romano Monterovere (1907-2003) non rideva mai, ma ogni tanto, pur rimanendo serissimo, se ne usciva con battute ironiche paradossali, a volte sottili, a volte no, che coglievano comunque di sorpresa l'interlocutore, per il fatto di essere pronunciate con la massima solennità, dall'alto del suo metro e novanta.
Non si sapeva mai quale reazione il vecchio preferisse o cercasse di ottenere, perché rimaneva sempre torvo e minaccioso, a prescindere dal tipo di comportamento di colui che cercava, invano, di ottenere la sua benevolenza.
Nel 1992, a 85 anni suonati, era ancora un uomo in grado di incutere timore.
Gli occhi azzurri erano gelidi, il naso era arcigno e bitorzoluto, la testa quasi calva, con intorno una corona di capelli giallastri e la bocca era ridotta a una fessura che aveva conosciuto ben pochi sorrisi.

Eppure l'ironia non gli mancava, quasi sempre unita al sarcasmo, a volte anche pesante: sapeva che una battuta efficace poteva chiarire un concetto meglio di un lungo sermone.
Una volta, al termine di una filippica sull'importanza del risparmio e su come attuarlo, dichiarò a bruciapelo:
<<C'era un libro intitolato: "Come vivere con 15.000 lire al giorno". Costava 30.000 lire>>




Se qualche avventato osava chiedergli a quanto ammontasse il suo patrimonio, Romano si accigliava e rispondeva, sdegnato:
<<Un uomo che è in grado di quantificare il valore del suo patrimonio non può essere considerato un uomo ricco>> e non aggiungeva alcun dettaglio.
Tutti sapevano che lui era molto ricco, ma rimanevano stupefatti dalla sobrietà del suo stile di vita, che pareva quella di un pensionato con la minima.
A chi gli faceva notare che un risparmio così esagerato non era necessario lui replicava, serio:
<<Risparmiare è necessario, vivere no>>
Era una "sententia" derivata dall'adattamento di una famosa frase di Pompeo Magno, riportata da Plutarco, che sua sorella Anita, diplomata al Liceo classico, gli aveva citato per confortarlo in un momento difficile:
"Navigare necesse est, vivere non est necesse", esortazione al coraggio che, sempre secondo Plutarco, Gneo Pompeo, richiamato nella capitale per gravi e improrogabili necessità della Patria, disse ai suoi marinai, i quali, a causa del cattivo tempo, opponevano resistenza a imbarcarsi alla volta di Roma.

In generale, riguardo alla vita, esprimeva un giudizio sotto forma di bilancio:
<<Cos'è la vita? Qualche momento di gioia in qua e in là, e tutto il resto è noia, fatica, sacrificio e dolore. Non ne vale proprio la pena. Il prezzo è troppo alto. L'unico motivo per cui la si sopporta è quello di non dare ai propri nemici la soddisfazione di vederci morire in disgrazia  e la possibilità di sputare sulla nostra tomba>>
In questo, ma soltanto in questo, condivideva il parere della sua illustre consuocera Diana Orsini, e del loro comune nipote.
In seguito cambiò opinione quando si riavvicinò al Cattolicesimo, dopo la morte dell'amatissima moglie.

Romano era stato militare, caporal maggiore nella Guerra d'Abissinia, come ricordammo in un remoto capitolo di questo romanzo, ma aveva operato quasi sempre nelle retrovie e dunque tale esperienza aveva inciso solo nel favorire la sua abitudinarietà e il suo rigore spartano.

Ma lo spirito battagliero, ormai, veniva fuori solo se la contesa riguardava i suoi soldi: in quel caso diventava più furente di Attila.
Allo stesso modo la pensava riguardo alla politica: gli interessava solo se poteva favorire i suoi affari.
Era sempre stato suo fratello Edoardo il politico di famiglia e si era rivelato utilissimo per quel che riguardava gli appalti, i rapporti privilegiati con gli enti pubblici, la concessione di autorizzazioni e la soluzione di eventuali problemi giudiziari. Edoardo era il segretario regionale del partito che all'epoca si chiamava ancora PDS (adesso la S non c'è più e il segretario è un ex-democristiano che si è radicalizzato insegnando non si sa cosa a Parigi).
Quando però non c'era suo fratello in circolazione, Romano condannava tutti i partiti senza distinzione e amava citare una massima universale che, come al solito, gli era stata detta da sua sorella Anita, la quale la attribuiva a Kafka:
"Un cretino è un cretino, due cretini sono due cretini, diecimila cretini sono un partito politico"

Viveva ancora a Faenza, in una casa che si trovava vicino al fiume Lamone e davanti a una piazzetta rotonda, privata, con al centro una fontana e un piccolo canale circolare, unica concessione alle glorie dell'azienda Fratelli Monterovere.
La casa aveva un pianoterra, un primo piano ed un sottotetto con alcuni abbaini. 
Le pareti esterne erano quasi tutte ricoperte dall'edera.




 Non c'era l'ascensore, e Romano ne spiegava il motivo con il consueto sarcasmo:
<<Gente che va su e giù per le scale mobili, negli ascensori, che guida automobili, che ha le porte dei garage che si aprono schiacciando un pulsante. E poi vanno in palestra per smaltire il grasso!>>
A chi osava obiettare che: "Per chi è malato o anziano l'ascensore non è un lusso, ma una necessità", lui replicava: <<E' vero, in questo caso starò nell'appartamento al piano terra. E grazie tante per l'interessamento!>>.
E lo fece sul serio, alcuni anni dopo.
Questo eccesso di understatement non era solo tirchieria, era anche una strategia fiscale:
<<Dal momento che mia sorella Anita mi fa da prestanome, le sanguisughe della Finanza non devono trovare alcun motivo per credere che io abbia più soldi di quelli che dichiaro>>

Il problema, però, era che Anita, una bionda platinata in età da botulino, stava acquisendo troppo potere e troppa indipendenza, come dimostrava il fatto che ricevesse spesso le visite di Lorenzo, con la ridicola scusa della presunta parentela dei Monterovere coi Montecuccoli, argomento di cui Romano non voleva nemmeno sentir parlare: 
"Non c'è alcuna eredità in ballo, e allora perché perdere tanto tempo e risorse in una simile scempiaggine?".
La verità era che Romano non si fidava più di nessuno, a parte sua figlia Enrichetta, la mastodontica Amministratrice Delegata della Fratelli Monterovere Srl.

Da quando Giulia Lanni, la figlia del cofondatore dell'azienda, l'ingegner Francesco Lanni, detto "Il Profeta delle Acque", era morta prematuramente per aneurisma all'aorta insorto in un quadro di insufficienza cardiaca ereditaria, suo marito Romano era caduto in una spirale depressiva che col tempo si era trasformata in ipocondria e paranoia.
Giulia era stata l'unica donna che lui avesse amato veramente.
Da quando lei non c'era più, Romano non sopportava più le donne, tranne sua madre Eleonora, sua sorella Anita e sua figlia Enrichetta: tutte le altre, ai suoi occhi, erano donnacce.
Era diventato ferocemente maschilista:
<<Perché il cervello delle donne è piccolo? Perché l'hanno gonfiato!>>
Era diventato intollerante e per questo perché, oltre alla motivata paura per i ladri, i rapitori e i terroristi, erano insorte altre fobie che all'epoca erano molto più di diffuse di adesso: xenofobia e omofobia in primis.
Faceva vigilare la casa da una scorta che il Comune, dietro insistenza di Edoardo, gli aveva fornito a spese dei contribuenti.
Nonostante questo, le sue paure e le sue ire non si erano placate, specie per chi osava rimanere sveglio o addirittura uscire dopo le 9 di sera, quando Romano andava a dormire.
<<Chi è che va in giro di notte?>> e si dava la risposta in dialetto <<gl'imbarieg, i leidar, i zengan, i nigar, al puteni e i fnoc>>
Crediamo che non ci sia bisogno di traduzione.
Oppure se ne usciva con quesiti in apparenza generali, ma poi mirati ad personam:
<<Come mai la maggioranza delle donne crede nell'oroscopo, mentre i maschi ci ridono sopra? Perché i maschi hanno più cervello, tranne mio figlio Lorenzo, ammesso che sia un maschio>>
Nutriva dubbi sulle preferenze sessuali di Lorenzo, (e certo il fatto che quest'ultimo si vestisse di viola non era d'aiuto) e sentiva quindi, come padre, di avere il diritto, anzi, il dovere, di manifestare il suo dissenso chiamandolo con epiteti non certo edificanti, tipo: "Il cavaliere del Santo Deretano".

La sua spietatezza verso il terzogenito era ricambiata da un disprezzo assoluto da parte di quest'ultimo.
L'ultima volta che Romano aveva parlato con Lorenzo era stato dopo il funerale di Giulia Lanni, il 28 agosto 1976.
Era stata una scenata sconvolgente, sul sagrato della chiesa.
Romano, ancora sconvolto per la morte della moglie, aveva incolpato Lorenzo:
"E' morta di crepacuore per causa tua! Aveva capito che frequentavi gente losca come quel Fernando Albedo!"
E Lorenzo aveva replicato:
"Albedo è un grand'uomo, un filantropo, ma per te la generosità è un concetto incomprensibile. 
E comunque, sappi che la mamma soffriva per il modo in cui mi trattavi, la colpa è tua se il suo cuore si è spezzato!"
Romano, infuriato, aveva urlato il suo anatema più temibile:
<<Come osi dare la colpa a me! Io amavo tua madre più di me stesso! Ma tu che ne sai di queste cose? Sei solo un viscido eunuco, un ragno tessitore che vive di complotti! Io ti rinnego e ti diseredo! Non avrai neanche un centesimo da me!"
E Lorenzo gli aveva risposto con una frase che sarebbe rimasta incisa a lettere di fuoco negli annali della famiglia Monterovere:
<<Tanto meglio! Rifiuterei di essere il tuo erede anche se tu mi lasciassi tutto l'oro del mondo!"

E passò molto tempo.
Durante quel periodo tra il '76 e il '92, Romano aveva attraversato una profonda crisi depressiva che lo aveva portato di fronte al famoso dilemma di Huysmans (che il vecchio non aveva mai sentito nominare, sia ben chiaro) e cioè, secondo la formulazione del critico Barbey D’Aurévilly nella recensione di "À Rebours", scegliere tra spararsi un colpo di pistola o buttarsi ai piedi della Croce.

Romano scelse la Croce, ma per il parroco non fu affatto facile tentare di riportare l'anima del vecchio Monterovere sulla retta via.
L'umore di questo ingombrante parrocchiano era talmente ondivago che passava da momenti di crisi mistica, in cui sembrava pentirsi di tutti i suoi errori, a momenti di immotivata euforia nei quali tornava ad essere quello di un tempo, cinico e sferzante.
Il vero motivo che lo spingeva ad andare sempre a Messa e a confessarsi era la speranza di poter rivedere Giulia in Paradiso, ma Romano era sufficientemente sveglio per capire che, per uno come lui, non sarebbe stato facile e consono al carattere irrequieto nonostante l'età, scampare alle fiamme dell'Inferno.
Ancora non era arrivato alla fase della redenzione: diciamo che si trovava più o meno nelle condizioni di Ebenezer Scrooge subito dopo la morte del socio Jacob Marley, prima di essere visitato dai tre Spiriti del Natale.

Era venuto a sapere che c'era stato un dissapore tra Francesco, il suo primogenito, e Lorenzo.
Glielo aveva riferito la figlia di mezzo, la sua preferita, Enrichetta, che a sua volta l'aveva saputo da Luisa, la moglie di Edoardo, che era ancora in buoni rapporti con Silvia (funziona sempre così, nelle famiglie ramificate dove ci sono, quasi sempre, dissidi e faide interne).
Secondo queste voci, Lorenzo si stava intromettendo nella vita del figlio di Francesco, Roberto, che Romano chiamava, con disprezzo: "Il Principino".







E qui, dopo tanto tempo, Romano si trovava a condividere qualcosa con Francesco, quel figlio primogenito che gli era costato "un occhio della testa" (secondo lui) in rette universitarie.

I rapporti tra i due erano stati altalenanti: dopo il matrimonio di Francesco con Silvia Ricci-Orsini, Romano aveva ripreso una parvenza di rapporti formali col primogenito, a condizione che rispettasse alcune regole.
Gli aveva inviato una lettera con le sue richieste, senza rivolgersi a lui in maniera diretta:
<<Sono disposto a mantenere un atteggiamento benevolo verso mio figlio Francesco, fino a quando si comporterà bene (quamdiu se bene gesserit)>> 
La locuzione latina era chiaramente opera di sua sorella Anita o della zia Valentina Bassi-Pallai, sorella di Eleonora Bonaccorsi Monterovere, la madre di Romano, nonché, pure lei, azionista prestanome dell'azienda e moglie di un nobiluomo scapestrato che a cent'anni faceva ancora il donnaiolo.
<<Le condizioni sono: 
1) che Francesco, sua moglie e suo figlio, per almeno due domeniche al mese, partecipino a una messa in suffragio dell'anima della mia defunta moglie. Naturalmente sarà Francesco a pagare il parroco e ad offrire una cospicua donazione alla parrocchia;
2) che al termine di tale messa accompagnino me e mia sorella Anita alla residenza di quest'ultima, per un frugale pasto offerto dalla mia cara sorella;
3) che al termine di tale pasto ci si rechi tutti, sempre con l'automobile di Francesco, al cimitero, per rendere omaggio alla tomba della mia defunta moglie.
4) che al termine della visita mio figlio riaccompagni me a casa e poi mia sorella a casa, dove si tratterrà per una partita a carte a cui parteciperà anche mio fratello Edoardo con sua moglie;
5) che io sia ospite per un periodo di un mese all'anno (a mia scelta) nella residenza cervese di mia nuora per poter fare "la cura del mare e del sole" nonché le terme>>
Per alcuni anni quel rituale era stato rispettato, poi col tempo la disponibilità di Silvia a seguire il marito e il figlio in quella via crucis imposta dal vecchio, era venuta meno.
Francesco e Roberto, senza Silvia, erano andati da Romano e Anita per dire che ormai quel tour de force li aveva stancati.

Il vecchio e sua sorella non aspettavano altro che quello per poter sparlare di Silvia e di sua madre.
Anita in particolare nutriva per Silvia un astio feroce, memore del fatto che Silvia era stata preferita alla propria "candidata", una certa Ivana, ex allieva e poi collega della terribile signorina maestra Monterovere.
<<Se lei ti dice: Il problema sono io e non tu, ricorda che ti sta implicitamente dicendo che tu non sei neanche la soluzione>>

Francesco ne aveva avuto abbastanza:
<<Sentite, io non amo le persone mattiniere. E nemmeno le mattine. E soprattutto le mattine in cui devo svegliarmi presto per venire qui a Faenza per farvi da autista e raccogliere solo insulti!>>.

La zia non lo perdonò mai, ma fece finta di non aver sentito, per poter ancora esercitare un ascendente sul nipote anche dopo averlo (in segreto) diseredato.
Romano invece la prese malissimo:
<<Se sei venuto qui solo per mortificarmi, puoi anche tornare a lucidare gli stivali di Ettore Ricci.
Che ingrato! Dopo tutto quello che ho fatto per te!>>
E qui partiva una requisitoria che incominciava "ab ovo":
Francesco era nato nel 1941, in piena Seconda Guerra Mondiale, in un momento in cui, in effetti, la famiglia Monterovere aveva conosciuto la miseria più nera, e mangiato cibi andati a male o pieni di vermi e questo era stato un trauma per tutti loro, che su una cosa almeno concordarono sempre, ossia: se vengono a mancare alcune condizioni essenziali per la propria dignità, la vita stessa vale poco.
Ma le reazioni personali erano poi state diverse.
Francesco, cresciuto nella miseria, da adulto non si era mai fatto mancare niente.

Per Anita e Romano, invece, ciò che contava era ammassare denaro in maniera ossessiva per non doversi mai trovare di nuovo in quelle condizioni. Ma di quel denaro non spendevano quasi nulla.
Romano in particolare, la cui mente era turbata dalle paure, accentuò la sua condotta di vita improntata alla prudenza, all'abitudinarietà e all'estrema parsimonia.
Pur diventando sempre più ricco, diventava anche più taccagno e divorato da fobie di ogni genere, fino alla paranoia.
Sospettava di tutti, persino di Roberto.

Aveva sempre trattato in maniera gelida e distaccata il nipote, cosa inspiegabile, apparentemente, perché Roberto, come sappiamo, era l'ultimo erede maschio dei Monterovere, e questo avrebbe dovuto significare qualcosa per suo nonno, ma Romano gli aveva fatto capire, (con il suo comportamento, prima ancora che con le sue parole), che l'unico Monterovere che gli stava a cuore era se stesso.

Roberto aveva cercato per anni, invano, di conquistarsi se non l'affetto, quantomeno il rispetto del nonno paterno.
Tentava persino di giustificarlo, di convincersi che i vizi di Romano fossero virtù, che la sua tirchieria fosse una giusta e sobria frugalità, che la sua totale indifferenza fosse una forma di dignitas e di gravitas, come nel mos maiorum romano e che dunque suo nonno paterno fosse un integer vitae scelerisque purus.




Ma Romano aveva interpretato le virtù del popolo suo omonimo nella maniera in cui le avrebbe potute interpretare un Longobardo o un Ostrogoto, come del resto anche la sua fisionomia era decisamente più germanica e "ariana" che latina.
E alla fine Roberto dovette ammettere a se stesso che Romano era quello era.
La frattura nei loro già esilissimi rapporti avvenne nello stesso giorno in cui Romano aveva rampognato Francesco e sparlato di Silvia.
Il vecchio era così infuriato che non resistette alla tentazione di sfogare la sua ira anche sul nipote.
Roberto aveva solo quattordici anni quando, quella domenica, il nonno paterno gli disse:
<<Tua nonna Giulia morì di aneurisma poche ore dopo averti tenuto in braccio 
Non te l'hanno mai detto, vero? Be', è ora che tu lo sappia, caro il mio Principino! Avevi un anno, ma per lei anche un neonato sarebbe stato un peso enorme. Non avrei dovuto permettere che ti toccasse.
Sei stato l'Angelo della Morte per lei e la maledizione della mia vita: è per questo che non sono mai riuscito a volerti bene!>>
Francesco stava per intervenire, ma Roberto disse:
<<Continua, nonno, è da tempo che aspettavo una spiegazione che mi facesse capire da dove nasceva il tuo evidente rancore nei miei confronti>>
E Romano non si lasciò pregare:
<<Sei solo un Principino viziato. I tuoi genitori sono stati troppo teneri con te.
Non parliamo poi della Nobildonna! La Contessa di Casemurate! Sua Signoria! 
Lei ti ha viziato più di tutti gli altri! 
Persino Ettore Ricci, che io ritenevo un duro come me, è stato troppo tenero nei tuoi confronti.
E adesso sei diventato un lacchè della nobile stirpe degli Orsini, tutta gente con la puzza sotto al naso, incapace di fare qualsiasi lavoro o di conoscere il senso del risparmio>>
Roberto aveva protestato:
<<Io non sono né un lacchè, né un incapace! Ho sempre fatto il mio dovere!>>
Romano aveva scosso il capo:
<<Non basta! Se vuoi il mio rispetto e il mio affetto, caro altezzoso Principino, te li dovrai guadagnare! 
Non è sufficiente amare i fiumi e i canali per essere un vero discendente dell'ingegner Lanni.
Lui sì che era un grand'uomo, e questo nessuno può negarlo!
Prendi esempio da lui! 
Dici di essere bravo a scuola, ma voglio vedere cosa farai all'università.
Ecco la mia proposta: laureati in Ingegneria civile con specializzazione in idraulica e allora forse, e ripeto forse, potrai avere una piccola quota dell'azienda Monterovere>>





Roberto allora, fissandolo con uno sguardo severo ed inquietante, e gli rispose con la compostezza e la pacatezza di chi, da lungo tempo, si era preparato un discorso importante:
<<Ammiro l'ingegner Lanni, era davvero un grand'uomo. E' un esempio che terrò presente.
La scelta universitaria non sarà facile, ma ingegneria civile è una delle opzioni.
Però ti devo dire una cosa. Se è vero quello che dici, riguardo alla morte di nonna Giulia, tu non hai compreso che lei, prendendomi in braccio quando avevo solo un anno, mi dimostrò il suo amore, consapevole che la malattia le lasciava pochissimo tempo. 
Lei ha voluto che il suo ultimo gesto, nella vita, fosse un gesto d'amore.
Era una scelta che spettava a lei, era un suo diritto, di fronte ad una malattia che non le lasciava scampo. Conosceva le conseguenze di ogni singolo atto, ed ha preso una decisione.
La sua morte non è colpa di nessuno, ma è un dolore immenso per tutti, non è soltanto il tuo dolore. Se l'avessi condiviso con i tuoi figli e con me, saresti stato un uomo migliore e forse avresti trovato la serenità che non hai mai avuto.
Il tuo rancore ti confonde e ti impedisce di vedere le cose in maniera obiettiva.
Io ho atteso per quattordici anni, invano, un sorriso, una carezza, una buona parola: mi sarebbero bastate per provare affetto per te, ma non sono arrivate mai.
L'affetto non si compra e non si vende, e tutto l'oro del mondo non servirà a renderti sereno, se non imparerai a rispettare gli altri e a provare affetto per un nipote verso cui hai mostrato solo indifferenza e disprezzo, senza averne alcun motivo.
Ma io non ti serbo rancore e ti chiedo solo due cose: rispetto e affetto, nient'altro>>
Roberto era sincero.
In quel momento stava pensando ad una frase che aveva letto da qualche parte, ma non ricordava più dove:
"Sarai sicuro di aver vinto solo quando avrai guardato nel profondo della mente del nemico, e avrai provato pietà"

Romano era rimasto senza parole, aveva fissato a lungo il nipote, come se avesse davanti un alieno che parlava un linguaggio incomprensibile. 
Poi, senza dire un nulla, senza muovere nemmeno un muscolo della faccia, si era ritirato in camera sua.
E soltanto quando fu certo che nessuno potesse vederlo o sentirlo, pianse, perché in fondo aveva capito che il nipote aveva ragione.
Eppure temeva che fosse ormai troppo tardi per cambiare, anche se qualcosa nella sua mente si era ridestato ed aveva avviato un processo di redenzione che avrebbe però avuto bisogno di tempo per potersi fare strada nei suoi pensieri e nelle sue decisioni.
Da quel giorno, per tre anni, non ci furono più contatti tra loro.
Romano delegò sempre più incarichi ad Enrichetta, a suo marito e ai suoi figli.
Ma quando, in quel fatidico 1992, Lorenzo mostrò interesse verso "il Principino", Romano incominciò a provare uno strano senso di gelosia.
Ma com'era possibile saldare una frattura senza averla curata per così tanti anni?
Romano si ritrovò a domandarsi da dove avesse avuto inizio tutto quel rancore tra lui e i figli, e poi il nipote? Perché li aveva trattati così male? Da dove era nato tutto quel male?
E arrivò a ciò che nei "prequel" cinematografici degli horror di successo, viene intitolato "L'origine del male", risalendo sempre più a ritroso.

I lodevoli lettori che ci seguono fin dal primo capitolo, (a cui va tutta la nostra riconoscenza), forse ricorderanno che questa narrazione si apriva con la morte dell'antenato Ferdinando Monterovere, disarcionato da cavallo presso l'Orma del Diavolo, nella selva di Querciagrossa.




Tutte le storie di spiritelli e folletti, di riti pagani e querce abbattute, di maledizioni e di scongiuri, e chi più ne ha, più ne metta, furono talmente sconvolgenti da convincere il figlio di Ferdinando, Enrico Monterovere, e sua moglie Eleonora Bonaccorsi, a vendere tutte le proprietà di famiglia e a trasferirsi nella bassa romagnola.
Per i nove figli di Enrico ed Eleonora quella serie di eventi fu ancora più traumatica, specie per i maggiori, e cioè Anita e Romano.
Molti mali della mente nascono a causa dello sradicamento e molti altri quando qualcuno, o qualcosa, convince il soggetto a non essere degno di essere amato.
Nel caso di Anita e Romano si trattò di entrambi i genitori.
Dopo il trasferimento nella bassa romagnola, erano piombati in una crisi depressiva involutiva senza vie d'uscita. 
E qui i lettori ci consentano di far notare come il gene della depressione (più correttamente si dovrebbe dire della predisposizione alla depressione) era presente sia nei Monterovere che nei Bonaccorsi, la famiglia della madre di Romano.
Se poi si considera che tale gene era presente anche negli Orsini in maniera massiccia, e nei Lanni, in maniera più lieve, ma più insidiosa, perché agiva "sotto traccia", si potrà capire perché l'incrocio di tutte queste linee di sangue doveva essere evitato.
("Perisca il giorno in cui nacqui, e la notte in cui si disse: è stato concepito un uomo")

Enrico Monterovere si era dato all'alcolismo, Eleonora Bonaccorsi aveva rimosso il passato, rifiutando i figli maggiori e concentrando le sue attenzioni sui figli più piccoli, specie quelli che, a causa del clima malsano di quelle zone paludose, si erano ammalati di tubercolosi.

Anita, Romano e i due fratelli  si erano trovati senza punti di riferimento, con un padre che sapeva solo ubriacarsi, sbraitare, infuriarsi e distribuire pugni e calci alla prole e una madre che passava il tempo a lamentarsi, brontolare, pregare per la salvezza dei piccoli malati di tisi, che poi regolarmente passavano a miglior vita, tranne Tommaso ed Edoardo, che infine ebbero tutte le attenzioni di Eleonora.

Alla fine Anita aveva scelto di proseguire gli studi e diventare insegnante elementare, mentre Romano, Umberto, Ferdinando, Tommaso ed Edoardo avevano fondato l'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere, con l'apporto dei capitali degli zii Bassi-Pallai (Valentina Bonaccorsi aveva sposato il ricco Carlo Bassi-Pallai) e dell'ingegner Francesco Lanni, il suocero di Romano.
Poi Umberto era morto pure lui di tisi, Tommaso era morto in guerra, Edoardo si era dato alla politica e il resto è storia nota.
La penicillina guarì Romano dalla tubercolosi, la guerra lo risparmiò, e l'azienda lo fece diventare ricco e influente, ma tutto questo non bastò a ridargli la serenità perduta della sua infanzia.
Era passati molti decenni da quegli eventi, ma "ci sono cose che il tempo non può accomodare, ferite talmente profonde che lasciano un segno", una cicatrice indelebile, profonda, nell'anima.
Come si fa a raccogliere le fila di una vita spezzata? Come si fa ad andare avanti quando nel tuo cuore cominci a capire che non si torna indietro?
C'è una cosa che col tempo le persone che hanno sofferto iniziano a capire, e cioè che il passato diventa passato solo quando non può più ferirti e questo non accade quasi mai, persino quando le cose tornano ad andare bene. 
Per Anita e Romano quel passato, ormai ridotto a un cumulo di rovine, faceva ancora male.






Forse nemmeno Freud sarebbe riuscito a cavare fuori qualcosa di buono da quelle anime perse e da quei cervelli danneggiati e segnati dal dolore e dalle nevrosi.
"Non possiamo cambiarli, ma possiamo aiutarli ad accettare se stessi. Non possiamo guarirli, ma possiamo aiutarli a vivere meglio", questa è la sintesi del discorso psicoanalitico, ma a volte non si riesce ad arrivare nemmeno a questi obiettivi minimali.
E poi c'erano le tare ereditarie: tutti i Monterovere erano uomini iracondi, oltre che depressi.
Quando i predatori diventano troppi e troppo aggressivi, e le prede troppo poche e troppo deboli, allora il sistema va in crisi strutturale. In tale crisi, entrambe le razze rischiano l'estinzione.
Ed era proprio quello che stava capitando ai Monterovere, che erano sia predatori che prede e si distruggevano lottando tra di loro.
Erano però uomini di parola, persone ritenute almeno coerenti con il proprio pensiero.
Ma la coerenza non deve degenerare nella prevedibilità: se sei prevedibile, il nemico sa bene come, dove e quando colpirti. 
Romano rifletteva su tutto questo e si chiedeva cosa fare.
Dialogava con se stesso, formulando pensieri e meditando.
C'è una purezza negli oggetti che non sono mai riuscito a trovare in un essere vivente: gli oggetti non cambiano, non ti deludono mai.
Quando si trovava in quello stato d'animo, non gli restava altro che telefonare a sua sorella Anita.
Conversarono, in quel giorno di fine settembre, mentre il sole d'autunno tramontava e l'aria si faceva più fredda.
Non a lungo brillerà qualche luce sull'Acropoli in questa estate già finita.
Era un pensiero di Anita, che lo comunicò al fratello e poi gli disse:
<<Anche noi discendiamo da grandi uomini, e neppure a noi mancano volontà e coraggio. E dunque non piegarti, Romano. Una volta che ti sei piegato anche di poco, loro ti piegheranno ancora, fino a schiacciarti del tutto. Sprofonda le tue radici nella roccia e resisti al vento, anche se fa volar via tutte le tue foglie>>
Romano sentiva già il freddo dell'autunno incipiente nelle ossa, ed i suoi pensieri erano simili a quelli espressi mirabilmente da Montale in una delle sue ultime poesie.

Proteggetemi
custodi  miei silenziosi
perché il sole si raffredda
e l'ultima foglia dell'alloro
era polverosa
e non servì nemmeno per la casseruola
dell'arrosto -
proteggetemi da questa pellicola
da quattro soldi
che continua a svolgersi
davanti a me
e pretende di coinvolgermi
come attore o comparsa
non prevista dal copione -
proteggetemi persino dalla vostra presenza
quasi sempre inutile
e intempestiva
proteggetemi
dalle vostre spaventose assenze -
dal vuoto che create
attorno a me
proteggetemi dalle Muse
che vidi appollaiate
o anche dimezzate a mezzo busto
per nascondersi meglio
dal mio passo di fantasma -
proteggetemi o meglio ancora
ignoratemi
quando entrerò nel loculo che ho già pagato da anni -
proteggetemi dalla fama/farsa
che mi ha introdotto nel Larousse illustrato
per scancellarmi poi
dalla nuova edizione -
proteggetemi
da chi impetra la vostra permanenza
attorno al mio catafalco -
proteggetemi con la vostra dimenticanza
se questo può servire a tenermi in piedi
poveri lari sempre chiusi nella vostra 
dubbiosa identità -
proteggetemi senza che alcuno
ne sia informato
perché il sole si raffredda e chi lo sa
malvagiamente se ne rallegra
o miei piccoli numi
divinità di terz'ordine scacciate
dall'etere.

[Quaderno di quattro anni, Montale tutte le poesie, I Meridiani Mondadori, 1984 (pag 628-629)]

Romano non riusciva più a fidarsi nemmeno di sua sorella:
«Ci attendono giorni difficili: temo il tradimento più di ogni altra cosa e non mi piace il fatto che frequenti Lorenzo»
Anita fu colta impreparata:
«Ma…»
«Ma cosa?» chiese suo fratello «Ti concedo un solo “ma” questa sera.»
Anita soppesò le parole:
«E' solo un modo per tenerlo d'occhio»
Romano non ne era affatto convinto:
<<Spero per il tuo bene che non ci siano altre ragioni. 
Ricordati che un traditore può causare paradossalmente l'esatto opposto delle sue intenzioni, portando soltanto se stesso alla rovina e compiendo, nei confronti del nemico, del bene che non intendeva fare. A volte può accadere, Anita.
Buona notte!>>
Le sue telefonate non duravano mai troppo.
Il suo pensiero andò inevitabilmente a Giulia, l'unica di cui si sarebbe potuto fidare ciecamente.
Poiché era un devoto cattolico, sapeva che lei era in Paradiso, mentre lui rischiava seriamente di finire all'Inferno, perché il parroco lo aveva ammonito più volte: 
"Ricadi troppo spesso negli stessi peccati. Il che mi porta a sospettare che il tuo pentimento non sia sincero. Se fosse così, non potrei darti l'Assoluzione. Quindi io ti dico: pentiti finché sei in tempo, perché soltanto così potrai salvare la tua anima e rivedere Giulia"
Forse era venuto il momento di pentirsi sul serio.
Si ricordò di una frase che de La cavalleria rusticana, l'ultima volta che era andato con sua moglie a teatro, all'opera, perché lei era colta e riusciva a fargli conoscere le cose belle.
"E s'iddu muoru e vaju mparadisu | si nun ce truovu a ttia, mancu ce trasu" 
“E se muoio e vado in paradiso, se non ci trovo te non ci entro nemmeno”.
Era una delle piú belle frasi d'amore dell'opera lirica italiana. L'ultima frase dei versi che Turiddu dedica a Lola.
Rivolse allora la sua preghiera all'anima della cara moglie:
"Aiutami, Giulia, aiutami a diventare una persona migliore, aiutami a cambiare, aiutami a  ricominciare..."













martedì 21 settembre 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 160. Il mio nome è Ozymandias




Aurora mise alla prova il Maestro Monterovere e pensò:
"Se sai leggere veramente nel pensiero, Lorenzo, parlami di Jessica! Fammi un discorso che riguardi Jessica!"
Lorenzo con apparente noncuranza, intervenne ad alta voce nel dialogo tra i commensali:
<<Ah, dimenticavo di dirvi che ho letto sul Financial Times che lady Jessica Burke-Roche è stata nominata Vicepresidente del Consiglio di Amministrazione della Tessier-Ashpool Corporation, ed ha ottenuto anche la Direzione Generale della sede londinese e la delega al ruolo di Direttrice del Laboratorio OGM, organismi geneticamente modificati>>
Lo sconcerto di Aurora fu enorme, per due ragioni.
In primo luogo perché Lorenzo Monterovere aveva dimostrato senza ombra di dubbio che, con l'adeguata concentrazione, poteva recepire il pensiero di chi gli stava davanti, il che era sconcertante. (Se Piero Angela avesse partecipato all'esperimento, avrebbe cambiato idea sui chiaroveggenti e magari, con una pubblicazione ad hoc e un documentario annesso avrebbe cambiato il corso della Scienza e vinto il Premio Nobel. Ma gli Iniziati mantenevano ben nascosta l'informazione che i loro migliori Maestri erano in grado di praticare la telepatia).
In secondo luogo, l'informazione riguardante Jessica era incredibile, assurda e spiazzante. 
Bisognava chiarirne i retroscena.
Cercò di mascherare lo shock, ma non ci riuscì:
<<Cosa? E che azienda è? Di cosa si occupa?>>
Il Maestro rispose con orgoglio, perché di fatto era lui che dirigeva tutto:
<<E' una multinazionale farmaceutica, che si occupa anche di biotecnologie, robotica medica e soprattutto di ingegneria genetica.
E' un vero colosso, se consideriamo che controlla a sua volta migliaia di altre imprese e crea un indotto per miliardi di dollari e innumerevoli posti di lavoro in tutti i continenti, compreso l'Antartide.
Dicono che la Tessier-Ashpool abbia già concluso la mappatura o sequenziamento dell'intero genoma umano. Detto in parole povere il DNA umano non ha più segreti, anche se ufficialmente la notizia non è stata resa nota.
Il Progetto Genoma Umano guidato da Renato Dulbecco fornirà i dati ufficiali soltanto tra qualche anno.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione nel mondo delle scienze biologiche e mediche.
Questa mappatura sarà il vero oroscopo ed oracolo in grado di mostrare in maniera statisticamente definita le predisposizioni di ognuno di noi>>
Aurora comprendeva le implicazioni enormi di questa scoperta, ma prima di parlarne, doveva chiarire un punto che le stava molto a cuore:
<<E Jessica cosa c'entra in tutto questo? E' una ragazzina che non ha alcuna competenza in materia... non capisco...>>
Il Maestro le spiegò:
<<La madre di Jessica era Marie Gabrielle Tessier-Ashpool, biologa specializzata in genetica e biotecnologie, ma soprattutto figlia dei due fondatori dell'azienda, Marie France Tessier e John Ashpool>>







Per Aurora non bastava:
<<Anche se avesse ereditato la quota di controllo, come può dirigere un laboratorio senza avere le competenze necessarie?>>
Lorenzo sospirò, perché non poteva trattare di alcuni argomenti davanti a Roberto:
<<E' ben consigliata, posso assicurartelo, e poi è cresciuta in un ambiente dove questi argomenti erano il pane quotidiano e l'aria da respirare.
Voi sapete già tutto sulla famiglia paterna di Jessica, ma credo sia molto più interessante conoscere i misteri che riguardano i suoi antenati materni.

Marie France Tessier, nonna materna di Jessica, era figlia di un banchiere di Ginevra e di una nobildonna parigina, ed era laureata in Medicina con specializzazione in Farmacologia. 
John Ashpool, nonno materno di Jessica, era australiano, laureato in Farmacia, chimica industriale e farmaceutica, ed economia aziendale.
I due si conobbero a Oxford, dove frequentarono insieme alcuni corsi di chimica del Master of Science.
Erano accomunati, oltre che da una forte attrazione reciproca, anche da un'immensa ambizione e dal sogno di realizzare, insieme, un grande progetto. E ci riuscirono.
Inizialmente vissero in Australia, dove Ashpool creò un impero partendo dalla farmacia di suo padre, anche se i soldi glieli prestò il suocero e le scoperte farmacologiche le fece la moglie.

E infatti Marie France pretese che il suo cognome precedesse quello del marito nel nominativo dell'azienda Tessier-Ashpool, così come nel cognome dei loro due figli.
La società fu fondata nel 1962 e fu quotata in borsa nel 1982.
Il logo dell'azienda era formato da una A circolare che conteneva al suo interno una T arrotondata.




Il figlio primogenito John Junior fu una delusione: studiò economia e finanza, ma non riuscì mai a laurearsi. Il suo unico interesse per la farmacologia riguardava i narcotici, di cui abusava ed era dipendente. I genitori tollerarono la cosa, ma lo esclusero completamente dall'azienda di famiglia, liquidandolo con una cospicua donazione.
Andò a vivere in California e sposò una modella da cui ebbe un figlio, John III. 
L'ex modella poi chiese ed ottenne il divorzio e l'affidamento del figlio. Insomma, la solita storia. 
Di John Junior non si è saputo più niente, se non che ha ottenuto il cavalierato "per la generosità dei contributi filantropici, specie nel settore sportivo".
John III invece è stato menzionato nel testamento del nonno>>
Anche Roberto ascoltava, interessato, ma faticava a seguire i dettagli:
<<Quindi il vecchio Ashpool è morto? Quand'è successo?>>
Lorenzo:
<<Sono morti quasi tutti, ed in modo strano. E' una vicenda molto oscura.

La prima crisi familiare si verificò quando tra i due coniugi fondatori, che detenevano ciascuno il 50% del capitale, prima della quotazione in borsa, sorse un disaccordo strategico importante.
Marie France voleva puntare più sulla la robotica medica, lui invece voleva destinare all'ingegneria genetica la maggior parte dei fondi per la ricerca e sviluppo. 
"Io scommetto sugli uomini, lei vorrebbe scommettere sugli automi" disse John Ashpool davanti all'Assemblea dei soci. La discussione che ne seguì fu lunga e controversa.
Era un momento di grande tensione e di stallo.
Ashpool si rivolse a Fernando Albedo, il quale gli diede il suo appoggio finanziario (e non solo).

Proprio mentre era in corso questa diatriba, la figlia Marie Gabrielle morì in un incidente stradale, mentre viaggiava col marito, lord Burke-Roche, morto pure lui. 
Marie France morì pochi mesi dopo in circostanze misteriose: secondo alcuni si trattò di un suicidio, per altri di un avvelenamento, e il principale sospettato era il marito, ma nessuno riuscì a inchiodare il vecchio Ashpool.

Lui mantenne la presidenza del CdA, scegliendo quindi di destinare i fondi alla genetica.
E qui sarò molto sincero, perché ormai tra noi non ci devono essere segreti: Fernando Albedo ha acquisito la quota di Marie-France, in modo da poter avere un laboratorio moderno e all'avanguardia per il nostro Programma Genetico, dove realizzare quella che in termini esatti è chiamata Tecnologia del DNA ricombinante.

John Ashpool portò avanti anche un suo progetto personale, nel laboratorio di Villa Straylight, la sua tetra residenza scozzese, dove si narra che abbia condotto esperimenti ai limiti della legalità, alla Victor Frankenstein o alla Dottor Jekyll. 
Un maggiordomo che riuscì a fuggire da Villa Straylight, raccontò che il vecchio pazzo, un giorno, nel suo laboratorio, fece una scoperta che lo rese così euforico da mettersi in piedi su un tavolo anatomico declamando alcuni versi di Shelley, che in italiano suonano così:

«Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re, / ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!» 

Immagino che conosciate il significato di queste parole>>

Roberto rispose:
<<Ozymandias era uno dei soprannomi principali di Ramsete II, o Ramesse II, il famoso, potente e longevo Faraone della diciannovesima dinastia dell'Antico Egitto. E' quello di cui si parla nell'Esodo.
Il soprannome proviene da una traslitterazione in greco di una parte del nome regale di Ramesse, User-maat-re Setep-en-re.
La prima parte della poesia riprende la traduzione di Diodoro Siculo dell'iscrizione alla base della statua colossale, in cui Ramesse solleciterebbe, per aiutare chi chiedesse chi fosse e che cosa mai avesse fatto, di portare come prova la grandezza delle sue opere.
Shelley, però, aggiunge:  "nulla accanto rimane"; infatti per quanto grandi siano state le opere di Ramesse, il tempo le ha cancellate lentamente, come svanito nel nulla è il suo impero, e il poeta sembra rivolgere lo stesso monito agli imperi a lui contemporanei.
Una giusta profezia, anche se si verificò soltanto un secolo dopo.
I critici concordano sul fatto che sia la seconda parte quella che dà il significato alla poesia, ma la citazione della frase e il nome stesso di Ozymandias conferiscono un tono epico e solenne al sonetto, ed è questo che sicuramente si addiceva allo stato d'animo euforico ed esaltato di John Ashpool.>>




Lorenzo approvò:
<<Infatti Ashpool era ormai fuori di testa. In circostante normali, l'avrebbero ricoverato in una clinica per disturbi mentali, ma come potrete immaginare, noi Iniziati eravamo molto interessati alle sue ricerche, di cui non posso parlare.
Riuscimmo quindi a permettergli di continuare a lavorare, e di tenere sotto la propria custodia una sua nipote, lady Jane.
La morte di John Ashpool ha avuto un aspetto inquietante.
Anno scorso ci rivelò di essere gravemente malato, e di trovarsi ormai allo stadio terminale, per questo decise di farsi ibernare, in attesa della scoperta di nuove cure. 
Vi rendete conto? Ibernare! 
E così prima fu anestetizzato e poi portato progressivamente verso il congelamento.
Naturalmente il suo cuore si è fermato e lui è stato dichiarato deceduto sia a livello medico che a livello giuridico.
Insomma, è morto, ma i suoi fedelissimi preferiscono dire che è in criostasi.
Tutta l'attenzione si è poi concentrata sul testamento, in cui nominava Jessica Burke-Roche erede universale, esclusi i lasciti destinati ad altri.
Ed è per questo che Jessica detiene il 51% della Tessier-Ashpool Corporation. 
La cosa ancor più strana è che il vecchio non ha lasciato nulla alle sorelle minori di Jessica, tranne che a lady Jane, la sua preferita, che avuto un lascito consistente>>

Aurora era sempre più meravigliata:
<<Jessica ha delle sorelle minori? Non ne ha fatto il minimo cenno>>
Lorenzo annuì:
<<Sembra che siano tutte minorenni, ma non si conosce la loro età esatta
Ad essere sinceri, non si sa quasi nulla di loro. Si conoscono solo i nomi: Jennifer, Jane, Julia e Joelle>>
Aurora rise:
<<Che fantasia! Tutte con il nome che inizia con la J!>>
Lorenzo era divertito:
<<Forse per onorare il patriarca. Dicono che John Ashpool le chiamasse per numero, perché non le distingueva tra loro, tanto erano simili, ma è senz'altro una leggenda metropolitana.
Comunque Jessica era la 1 e così via in ordine di età decrescente.
La numero 3, lady Jane, viveva con lui, a Villa Straylight, e infatti nel testamento la villa è andata a lei, insieme a un fondo fiduciario consistente, amministrato dal suo tutore legale, un vecchio avvocato, che è riuscito a conciliare le due famiglie dei genitori defunti, i Burke-Roche e i Tessier-Ashpool.
Le altre nipoti non sono state nemmeno menzionate, ma nessuno ha impugnato il testamento. Vivono con lady Jane a Villa Straylight>>




Ormai il baricentro del discorso si era spostato in una ben precisa direzione.
Roberto aveva capito che Aurora voleva informazioni su Jessica e che Lorenzo era reticente perché non voleva che lui sentisse.
Poteva essere il momento per lasciare che lo zio dicesse ad Aurora in maniera più esplicita ciò che stava pensando.
Che dica pure quel che gli pare. Aurora non si farà certo influenzare da lui.
Si alzò e andò in bagno, lasciando che suo zio desse il meglio e il peggio di sé con tutte le sue sottigliezze.
Aurora stette al gioco e si rivolse subito a Lorenzo:
<<Tu conosci Jessica di persona, vero?>>
Lorenzo sorrise:
<<Oh, sì, sono stato il suo Maestro, per prepararla ad entrare nell'Ordine. 
E Jessica è stata la mia migliore allieva. E' come una figlia per me>>
Aurora l'aveva sospettato fin dall'inizio:
<<Questo spiega la sua perfetta conoscenza dell'italiano. Ma perché mi ha mentito, dicendomi di non averti mai conosciuto di persona?>>
Lui aveva gli occhi vigili e scintillanti:
<<Roberto non era e non è ancora pronto per saperlo. E' ancora nella fase iniziale del suo risveglio interiore, e non voglio che ci siano cambiamenti troppo rapidi. 
Conviene anche a te che questo non accada.
Ricorda: una volta che il "dormiente" si risveglia, non lo può fermare più nessuno. 
Tu sai molte cose che lui non sa. Confido nella tua discrezione>>
Aurora sapeva anche di avere poco tempo per porre liberamente le sue domande:
<<Sarò discreta, a patto che tu mi dica quali sono le intenzioni di Jessica. Costituisce una minaccia per il rapporto che c'è tra me e Roberto?>>
Lorenzo si fece serissimo:
<<Non una minaccia immediata. La vera minaccia è un'altra e viene "da dentro"
Mi dispiace doverlo dire, ma è voglio essere onesto con te: mio nipote ha un carattere instabile, una personalità evitante: tiene le persone a distanza.
E poi è volubile, incostante, l'avrai notato anche tu, forse le l'ha detto lui stesso. 
Il meccanismo è sempre lo stesso: a un certo punto, all'improvviso esclude alcune persone dalla propria vita senza una spiegazione convincente. Forse nemmeno lui sa esattamente il perché. 
Nei casi in cui ci sia un conflitto, mostra poca pazienza e pochissimo equilibrio: opera delle vere e proprie "epurazioni". Cercherò di porre un freno a tutto questo, ma ci vorranno anni, forse anche decenni.
Per adesso, se un amico "cade in disgrazia", molti dei comuni conoscenti sono "epurati" a loro volta e su tutti cade una specie di "damnatio memoriae">>
Lei non si scompose:
<<So tutto, lo conosco e lo tengo d'occhio da sei anni. Ed non sono né una stupida, né una semplice "amica". 
Lui è innamorato di me, e credimi se ti dico che ne ha dato prova in maniera inoppugnabile, perché nel privato ho anch'io le mie stranezze, anche maggiori delle sue, e lui ha sempre fatto di tutto per compiacermi, pur chiamandomi narcisista, edonista e sadomasochista.
Ben pochi sarebbero stati capaci di sopportare tutto questo, ma lui l'ha fatto.
Non avrei potuto chiedere di più e di meglio di quanto lui è in grado di darmi>>




Anche Lorenzo non si scompose:
<<Ti credo e non ne dubito. Quando è innamorato, Roberto idealizza la fanciulla e la fa sentire una dea. 
Ma innamoramento e amore non sono la stessa cosa.
Col passare del tempo, nelle persone comuni, l'innamoramento si trasforma in amore: un sentimento più stabile e profondo. 
Ma questo a Roberto non accade: incomincia a notare i difetti e li mette sull'altro piatto della bilancia e quando l'innamoramento, come è naturale che sia, diminuisce, viene sostituito dal fastidio per quel piatto di difetti che si fa sempre più pieno e pesante. 
E' una dinamica accaduta numerose volte, glielo leggevo in faccia.
Era così anche Ettore Ricci, con le donne, tranne che con una, l'unica che lui abbia mai amato e l'unica che non lo ha mai ricambiato>>
Aurora fu pervasa dalla consapevolezza di tutto:
<<Diana Orsini. Alla fine si torna sempre a lei. Tutto gira intorno a lei, fin dall'inizio di questa storia. E' sempre girato tutto intorno a lei>>
Lorenzo si illuminò:
<<Esatto. E' lei la protagonista! Diana, in tutta la sua vita, ha amato una persona sola, e non era né suo marito, né il suo amante. Lei ha amato solo Roberto, lo ha sommerso con un oceano di amore, un amore puro e incondizionato.
Non hanno mai litigato, nemmeno discusso, neanche una volta e non lo faranno mai.
Un'intesa così lui non l'ha e non l'avrà mai con nessun'altra persona.
E non amerà mai nessun'altra donna come ama lei. 
Di te è innamorato, follemente, ma come ho detto esiste una grandissima differenza tra l'innamoramento e l'amore.
Se dovesse scegliere chi buttare dalla torre, non ci penserebbe neanche un secondobutterebbe te, non lei.





Il posto che Diana occupa nel suo cuore potrà essere preso soltanto da una ragazza che in qualche modo possa ricordagli Diana, com'era nelle sue foto di quando aveva tra i venti e i trent'anni.
E, senza offesa, quella ragazza non sei tu>>
Aurora avrebbe voluto strangolarlo, ma doveva prima scoprire le sue trame:
<<Se è per questo non lo è neanche Jessica! Non ha nemmeno un millesimo del carisma di Diana Orsini, e anche fisicamente è molto diversa: è più bassa, ha i capelli color topo e in generale tutta la faccia "da topo". Non ha quegli occhi grandi, neri e malinconici che hanno fatto cadere Ettore Ricci ai suoi piedi. 
Non illuderti, non vincerà lei!>>
Lorenzo, a sorpresa, si mostrò d'accordo:
<<Lo so. Nessuna delle due vincerà, ammesso che si possa considerare una vittoria stare con una testa calda come mio nipote.
Lascerà anche lei, e per un po' non vorrà nemmeno sentir parlare di matrimonio>>
Aurora ribatté:
<<Ma tu non lascerai certo estinguere la "gloriosa stirpe" dei Monterovere!
Anzi, quando le generazioni precedenti si estingueranno, tu vorrai far risorgere l'albero dal ceppo, con un nuovo rampollo, quello destinato alla grandezza, non è così?




La soluzione del rebus è nella scoperta realizzata da John Ashpool e sperimentata "in corpore vili" su lady Jane.
Non lo dico ad alta voce, ma ho capito di cosa si tratta.
La Tessier-Ashpool Corporation ci sta lavorando da molto più tempo di quanto tu abbia voluto dirci.
John Ashpool non chiamava le nipoti vere per numero, ma soltanto le loro... non ho nemmeno il coraggio di dirlo, ma tu puoi leggermi nel pensiero>>
Il Maestro fu deliziato da tanta intuizione:
<<Che splendida allieva saresti stata! Avrai un grande futuro, ma non con mio nipote: non ne vale la pena>>
E qui si fermò, perché Roberto stava tornando, sveglio e fresco, e avrebbe capito tutto in una frazione di secondo se non si fosse tornati a parlare per enigmi.
<<Sparlavi di me! Lo so quindi non provare a negarlo, ma Aurora conosce già tutti i miei difetti, per cui non temo le tue stilettate>>
Lorenzo, candidamente, rispose:
<<Parlavamo di te, senza la "s": descrivevo il forte legame che avevi con Ettore e che hai con Diana e con la loro terra, con quella magione neogotica, quei due torrentelli, quel bosco. 
Che male c'è, se non che il tempo tenterà di spazzare via tutto, e noi dovremo cercare di impedirlo?>>
Roberto sapeva che c'era dell'altro, ma si riservava di chiederlo ad Aurora, in seguito.
<<Farò finta che tra voi non sia stato detto altro. 
L'unica cosa che conta è che io e Aurora ci amiamo, e io ringrazio il Cielo per questo, e prego che si mantenga "con l'aiuto del buon Dio, stando sempre attenti al lupo" come canta il tuo illustre concittadino, zio. L'hai mai conosciuto?>>
Lorenzo rimase per un attimo spiazzato da quella domanda e poi la sua faccia divenne di un colore tra il magenta e il fucsia:
<<Chi, Lucio Dalla? Ma sì, ogni tanto, se ne sta sempre là in quella panchina, come un barbone. Che strano tipo. Ma in fondo ognuno è pazzo a modo suo!>>
Tutti ne convennero, ma si creò un silenzio imbarazzante.
E poi, con grande stupore di tutti, Lorenzo uscì dall'impasse con un'improvvisazione:
<<Da ragazzo, per un breve periodo, studiai musica e canto, perché ero bravo nel coro della parrocchia. E così mia nonna Eleonora, che era una donna istruita, mi faceva imparare delle arie o romanze tratte dai melodrammi più popolari dei nostri grandi compositori.
Molte di queste le ho ritrovate in un album di due anni fa che raccoglie molte romanze liriche interpretate da Luciano Pavarotti.
La sua voce è unica perché è a metà strada tra un tenore e un soprano, sì non sto scherzando, è quella punta acuta, limpida e decisa come una sorgente impetuosa e inesauribile, che ha reso uniche le sue performance.
E' inconfondibile così come lo era la voce Callas, non c'era paragone, lo capivi subito se era lei: il suo timbro, la sua coloratura e l'estensione vocalica erano realmente divini.
Avete presente "O mio babbino caro", dal Gianni Schicchi di Puccini? 
La versione della Callas si riconosce immediatamente: si sente che la voce vibra, si rimodula senza alcuna fatica, viaggia su un ampio spettro vocalico, si eleva e subito diventa un acuto potente, trascinante, pieno di energia, di vigore, di passione senza che lei abbia bisogno di prendere respiro.
Non parliamo poi della sua presenza scenica, della sua gestualità, della mimica, tutte capacità che la rendevano completa, perché era anche attrice.
Se confrontiamo lo stesso brano cantato da altre sue colleghe illustri, non c'è gara.
Persino Monserrat Caballé, al confronto, sembra Orietta Berti. 
Le sue "rivali" vere o presunte, come Renata Tebaldi, tecnicamente potevano anche essere considerate perfette, ma mancava il sapore, mancava il sale, mancava l'originalità interpretativa, lo stile che ti rende unico al mondo.
Perdonate le mie divagazioni, ma servono tutte a ricordare cos'era la qualità di un tempo, a ricordarvi la bellezza: Roberto, prima di bollare la vita come un puro supplizio, riempi la tua giornata di contenuti artisticamente elevati, scoprine l'unicità, riconosci il miracolo che c'è dietro!
Ci vuole qualcuno che ricordi gli artisti non per il loro aspetto mondano o la loro vita tempestosa, ma per la qualità unica della loro arte.
Perché è vero che in ogni opera l'artista mette una parte di sé, ma non si tratta necessariamente di elementi autobiografici, a volte il contributo personale sta nel modo in cui alcune opere o vicende altrui vengono rielaborate dalle nostre emozioni, conoscenze ed esperienze: questo è lo stile.
Chi ha carisma può rendere, anche senza volerlo e senza nemmeno immaginarlo, il proprio stile un punto di riferimento per un'intera generazione, o per un periodo storico, o addirittura per un intero genere artistico o letterario.
Ne parlo spesso ai miei allievi, specie a quelli che sono destinati all'insegnamento profondo.
Ogni giorno dovremmo nutrire la nostra anima con un brano di musica o una poesia d'autore, un capitolo di un romanzo o di un saggio, un film di qualità, una riproduzione di qualche quadro o scultura o edificio, un elemento di cultura scientifica naturale o sociale o linguistica: un'etimologia per esempio. 
Borges riteneva che lo studio delle etimologie fosse uno dei più completi ed io sono assolutamente d'accordo.
Dobbiamo cercare di essere onnivori, spaziare il più possibile: la risposta non sta in una sola "versione", in un solo punto di vista, ma nel mosaico complessivo in cui queste tessere si inseriscono.
Non si tratta né di eclettismo, né di sincretismo: il mosaico finale è sempre lo stesso, anche se ognuno di noi ne ricompone solo una parte. 
Per questo è sempre meglio spaziare. Lo specialista sa molto su poche cose e tende a specializzarsi ulteriormente, sapendo sempre di più su sempre di meno, fino a che arriverà il momento in cui saprà tutto su niente. E' il paradosso della specializzazione, che si evita spaziando.
Certo, il tempo è poco, siamo stanchi, vogliamo riposare la mente, rilassarci, dormire, io lo so, lo capisco benissimo, ma se non riusciamo a ritagliare uno spazio per ciò che di meglio la creatività umana ha realizzato, diventeremo automi, ingranaggi, e allora sì che avremo sprecato la nostra occasione.
Vi dico questo perché vorrei che entrambi foste almeno in parte miei allievi nell'insegnamento profondo e lo dico in particolare a Roberto non perché è mio nipote, ma perché ha una visione eccessivamente catastrofista, e detto da me, che sono considerato tale, dev'essere proprio vero.
A ognuno di noi si presenta, almeno una volta nella vita, la possibilità di dare il proprio contributo in maniera costruttiva, di fare la differenza in positivo: ve ne accorgerete quando accadrà, e vorrei che ricordaste queste mie parole, affinché vi indirizzino a non perdere la vostra opportunità.
Ero partito dalla musica, dal melodramma e dalle canzoni, specie quelle liriche.
Grandi concetti possono essere veicolati in maniera efficace dalle romanze liriche, anche quelle che sembrano a noi più lontane nello stile o nel lessico, e qui torno al disco di cui vi ho parlato: c'è una particolare aria, che non conoscevo, i cui versi sono stati scritti da Pietro Metastasio, mentre la musica è di Vincenzo Bellini.
Ho scoperto che, dietro la sua apparente semplicità, è un brano meraviglioso, su cui si sono cimentati non solo i tenori dalla voce limpida, ma anche molte soprano.
Intensa e struggente è la musica, ed estremamente significative sono le parole, che oltre ad avere l'efficacia tipica e ritmica del Metastasio (un grandissimo "artigiano della poesia", ingiustamente sottovalutato), hanno un valore semantico illuminante.
Ecco, se cercate una definizione dell'amore vero, pensate alla romanza che ora tenterò, complice il vino e il clima conviviale, di riprodurre in falsetto, perché si presta, ma a bassa voce:

Ma rendi pur contento
della mia bella il core
e ti perdono, amore
se lieto il mio non è.
Gli affanni suoi pavento
più degli affanni miei
perché più vivo in lei
di quel ch'io vivo in me.

Lo capite qual è il punto chiave: temere i dispiaceri della persona amata più dei propri!
Fatevi un esame di coscienza, lo provate davvero questo sentimento? Sì?
Ecco, se lo provate è amore, se non lo provate è solo innamoramento, che è tutta un'altra cosa>>
Roberto si sentì chiamato in causa:
<<Certo! E' una distinzione che hai espresso molto efficacemente. Purtroppo io non ho talento in campo musicale, per cui non posso azzardarmi a cantare neanche una sola nota. 
Posso dire, però che mi piacerebbe dedicare ad Aurora la romanza Mattinata, di Leoncavallo, che ho ascoltato in uno dei dischi di mio padre, interpretata addirittura da Enrico Caruso che si distingue per quel sapore di "piccolo mondo antico" dei primi del Novecento, un po' crepuscolare, un po' malinconica, forse un po' leziosa, diciamolo pure, perché la nostra sensibilità rifiuta un'enfasi eccessiva. Ho ascoltato anche la versione di Pavarotti e sono d'accordo con te, zio, è limpida, decisa ed esaltante, ma senza affettazione, senza l'enfasi leziosa del periodo anteguerra.
Mi limiterò a rievocarla limitandomi all'elemento metrico e prosodico, per quel che riguarda l'aspetto fonosimbolico:

L'aurora di bianco vestita
Già l'uscio dischiude al gran sol;
Di già con le rosee sue dita
Carezza de' fiori lo stuol!
Commosso da un fremito arcano
Intorno il creato già par;
E tu non ti desti, ed invano
Mi sto qui dolente a cantar.

In particolare mi piace la frase "commosso da un fremito arcano": è come il vento sugli alberi, la pioggia sui prati, i volteggi delle rondini nel cielo, le nuvole che si allontanano dietro le colline, prima che sorga il sole.
E poi l'attesa, il senso della mancanza, perché tutta questa meraviglia non ha senso se la persona amata non c'è a condividerla con noi>>

Solo quando fu troppo tardi Roberto si accorse che, pur essendo meraviglioso, quel testo non esprimeva l'amore secondo la definizione di Lorenzo. 
Seppe di essere caduto nella trappola del vecchio.
Certo, c'è il senso di mancanza, che qualcosa di più dell'assenza: la mancanza è un "venir meno", però questo è un dolore dell'innamorato, un dolore egoista, non è preoccupato del perché lei non compare, si concentra sul proprio dolore, non su quello di lei.
E così lo zio lo aveva messo di fronte alla verità.
Quello non era amore, era innamoramento.
Tale pensiero lo turbò profondamente.
La prova d'amore si ha quando viene richiesto un sacrificio: a cosa saremmo disposti a rinunciare per il bene della persona amata?
Saremmo disposti a donarle un rene?
"Gli affanni suoi pavento più degli affanni miei"... maledizione a te, Lorenzo, mi hai steso con una sola frase...
Io non ce la farei, sono debole, temo il dolore, temo la malattia, vivo nel terrore: questo è Roberto Monterovere, che si innamora facilmente ("per innamorarsi basta un'ora"), è capace di grandi manifestazioni di affetto, ma alla fine ama soltanto se stesso.
Questa risposta attraversò veloce la mente di Roberto, e che fu quasi immediatamente censurata, per poi ricomparire molti anni dopo.
E così quel pensiero scivolò nell'inconscio, ma sarebbe tornato indietro, perché si può far tacere la coscienza, ma l'inconscio no. Tutto ciò che reprimiamo o rimuoviamo ritorna indietro sotto forma di nevrosi ... o peggio...
La nostra mente registra tutto e lo cataloga a modo suo, e soltanto in rari casi una voce dentro di noi ci dice: <<E' passato, certo, ma ritornerà. Possiamo illuderci quanto ci pare, ma prima o poi ritornerà>>
E' come dire che "il postino suona sempre due volte", così come il destino torna a riscuotere il conto.
Roberto se ne sarebbe ricordato molti anni dopo, quando si iscrisse a Storia, come seconda laurea e si convinse che lo storico è come uno psicanalista: deve cercare di far ricordare ciò che gli altri preferirebbero dimenticare, o non sapere affatto.