mercoledì 8 gennaio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 44. L'Antagonista

In ogni narrazione che si rispetti, a contrapporsi ai protagonisti, devono esserci degli antagonisti, e tra questi deve essercene uno che rappresenti, in un certo qual modo, l'incarnazione del Male.
Ecco, costui è l'Antagonista per antonomasia.
Nel nostro romanzo si potrebbe pensare che questo ruolo spetti al traditore pluriomicida Michele Braghiri, o alla sua diabolica moglie Ida, una sorta di Lady Macbeth "de' noantri", come si direbbe in romanesco.
Ma ai coniugi Braghiri mancava il carisma: erano cattivi, capaci di tutto, ma rimanevano comunque troppo rozzi, ridicoli, quasi caricaturali, per poter ricoprire il ruolo elevato dell'Antagonista.
Quest'ultimo deve avere una personalità più complessa, una mente più sottile, una cultura più ampia e un'astuzia più raffinata, capace di compiere anche cose grandi: terribili, certo, ma grandi.
E dunque il ruolo di Antagonista, nel nostro romanzo, spetta a un personaggio malvagio e odioso quanto loro, ma più sottile, erudito e subdolo, e cioè il loro adorato figlio, Massimo Braghiri, nato nel 1938, cresciuto a Villa Orsini quasi come un familiare dei padroni.
Ed era proprio quel "quasi" a rendere così totalizzante la sua invidia nei confronti del potente clan Ricci-Orsini, i Conti di Casemurate, proprietari del Feudo e della Villa, imparentati con tutti gli aristocratici e i notabili dell'alta società.
Massimo aveva maturato un'altissima considerazione di sé, dovuta alla venerazione che gli tributavano i genitori, che con tutti gli altri avevano un atteggiamento duro e sprezzante, e anche alla predilezione che aveva mostrato nei suoi confronti nientemeno che la Signorina De Toschi.
In realtà quest'ultima "corrispondenza di amorosi sensi" era una conseguenza della spontanea tendenza di Massimo Braghiri ad adulare i personaggi influenti, salvo poi pugnalarli alle spalle quando non servivano più ai suoi scopi.
Le lusinghe verso la De Toschi avevano una duplice motivazione: in primo luogo l'attempata Signorina, ora che il Generale suo padre era stato "assunto in Cielo" dopo un funerale solenne con tanto di banda, canti bersaglieri e squilli di fanfara, aveva ereditato un patrimonio immenso e una serie di "clientele" in alto loco da far concorrenza al ministro Andreotti; in secondo luogo la suddetta De Toschi era anche sua insegnante di ripetizione di latino, dal momento che Massimo, studente del Liceo Scientifico, aveva qualche difficoltà in quella materia.
In realtà, tutti coloro che ambivano a diventare "qualcuno" nell'alta società andavano a lezione privata dalla Signorina, le cui raccomandazioni erano un passepartout senza eguali.
Persino i suoi parenti si sentivano in soggezione nei suoi confronti, a tal punto che la stessa Silvia Ricci-Orsini, che pure andava benissimo in tutte le materie, compreso il latino e il greco, era stata obbligata da sua nonna Emilia a prendere lezioni dalla De Toschi, con la motivazione che "è sempre meglio avere la Signorina dalla nostra parte".
La madre di Silvia, Diana Orsini, che ai suoi tempi era stata una vittima delle trame della Signorina, si era opposta in tutti i modi, ma suo marito Ettore Ricci, di solito assai tirchio, si era mostrato estremamente prodigo in quella circostanza, vincendo così le resistenze della figlia.
La pensava allo stesso modo di Ettore anche Ginevra Orsini, l'unica sorella superstite di Diana, nonché moglie del giudice De Gubernatis, che aveva insistito perché anche le sue figlie Anna ed Elisabetta frequentassero quella "centrale di ripetizioni greco-latine" che era il Villino De Toschi.
E così, tutti questi allievi, si incontravano spesso nell'anticamera del salottino a piano terra, dove la Signorina educava i suoi discepoli all'ossequio del classicismo canonico e dell'ordine costituito.
E qui, nell'anticamera, Massimo Braghiri, con voce altissima, si prodigava a dipingere la signorina, oltre che come la persona più colta sulla faccia della terra, anche come una Venere del Botticelli, con "capelli dorati e occhi color acquamarina".
Anna ed Elisabetta De Gubernatis ascoltavano in silenzio stupefatto quelle lodi sperticate, mentre Silvia un giorno osò replicare che la vecchia De Toschi sembrava piuttosto "un vecchio ippopotamo imbellettato e catarroso".
Sfortuna volle che la Signorina, a causa di una abbondante evacuazione dell'intestino, si trovasse nel minuscolo bagno con scarico a catenella e porta sottilissima, adiacente alla sala d'aspetto.
Pertanto Mariuccia De Toschi, mentre produceva il meglio di sé sulla tazza, ebbe modo di ascoltare quel colloquio e molti fanno risalire proprio a questa spiacevolissima circostanza la sua ostilità nei confronti di Silvia e la sua adorazione nei riguardi di Massimo Braghiri.
Quando uscì con aria burbanzosa dal cubicolo trasformato in una letale camera a gas, la De Toschi sorrise a Massimo, accennò un saluto alle sorelle De Gubernatis ed ignorò completamente Silvia Ricci-Orsini.
Massimo Braghiri sentì di aver segnato un punto a suo favore, e ancora non sapeva di aver guadagnato un altro importantissimo sostegno, ovvero quello di Elisabetta De Gubernatis, che in quel "romantico" contesto incominciò a sviluppare per lui un sentimento d'amore destinato ad assumere un ruolo molto importante all'interno del nostro romanzo.
All'epoca però Massimo puntava molto più in alto: il suo stesso nome lo spingeva a puntare al "vertice", anche in ambito di progetti matrimoniali.
Fin dalla più tenera età i suoi genitori lo avevano convinto di avere tutte le carte in regola per aspirare alla mano della primogenita di Ettore Ricci e Diana Orsini, ossia la bella, ma capricciosa Margherita Ricci-Orsini.
Peccato per Massimo che Ettore Ricci avesse per la sua figlia prediletta ben altri progetti, peraltro sostenuti dalla stessa Margherita, che ambiva a un matrimonio prestigioso.
Fu così che, quando Michele Braghiri osò proporre ad Ettore Ricci di sancire l'alleanza delle loro famiglie con un matrimonio dinastico tra Massimo e Margherita, Ettore, sorpreso e quasi divertito, pronunciò una frase che gli sarebbe costata molto cara nei decenni a venire:
<<Mio caro Michele, tu sei il mio miglior servitore, ma un uomo non fa sposare la propria erede al figlio di un servitore. >>
Nell'udire quella risposta, Michele Braghiri divenne verde di rabbia e giurò vendetta nel suo cuore.
Massimo, che ascoltava dietro una porta, si sentì trafitto da parte a parte nel suo orgoglio, che già allora era notevole e maturò dentro di sé propositi ancora peggiori di quelli a cui pensava suo padre.
"Giuro che non avrò pace finché non vedrò la completa rovina di Ettore Ricci, di sua moglie Diana Orsini, delle sue tre figlie e dei suoi futuri generi e nipoti. Li farò precipitare nella polvere e nel fango, e non avrò pietà finché non li avrò visti strisciare a terra come vermi, derisi e compatiti da tutti coloro che adesso li omaggiano o li temono. Lo giuro sulla mia stessa vita, e dedico la mia vita a questa impresa, fino a quando non sarò io a prendere tutto ciò che adesso è dei Ricci-Orsini, ed a fondare io stesso una dinastia che farà impallidire le ormai passate glorie di questa stirpe venale e destinata a una fine precoce".
E fu a questo che pensò quando la bellissima contessina Margherita Ricci-Orsini sposò con una cerimonia memorabile, il giovane rampollo Amilcare Spreti di Serachieda, terzogenito del marchese proprietario del Feudo Spreti, che controllava gran parte delle terre della Marca di Casemurate di Ravenna, confinante con la Contea di Casemurate di Forlì.
Inutile dire che Massimo Braghiri si faceva beffe di tutti quei marchesi e quei conti, ostentava una copia de "La rivoluzione francese" del Lefevre e professava idee giacobine.
Ettore Ricci, quando lo venne a sapere, commentò: <<Eccolo là, il nostro rivoluzionario, che vuol fare il comunista con i soldi degli altri!>>
Massimo lo fissò cupamente, senza rispondere, ma dentro di sé rinnovò i suoi giuramenti e ricordò a se stesso che tra lui e la famiglia Ricci-Orsini la divergenza non era tanto una questione politica, quanto, soprattutto, una questione privata.