martedì 6 aprile 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 122. Non è poi così lontana Samarcanda

 

Molti segreti, in quella cena, erano stati svelati senza bisogno di parlarne apertamente.
Dietro agli aneddoti, alle battute o alle dissertazioni pedanti su questioni marginali, c'erano stati sottintesi, allusioni e mezze verità, colte al volo dagli interlocutori.
Le questioni erano rimaste in sospeso, ma erano comunque state affrontate, seppure in maniera indiretta.
Si era arrivati ad un punto di non ritorno, si era superato un confine non territoriale  che creava un'alleanza tra i tre clan presenti: i Ricci-Orsini-Monterove, i Visconti-Ordelaffi, e gli Albedo, rappresentanti di Sua Grazia il consigliere don Fernando Albedo, Duca di Alcazar de las Altas Torres.
C'erano però molte opposizioni interne, molte incertezze e molte omissioni.
Silvia era fermamente contraria, Francesco era incerto e Roberto favorevolissimo, anche se non sapeva quasi nulla, tranne ciò che il Visconte gli aveva richiesto nell'incontro privato a casa del notaio Papisca: quello era stato il primo passo. 
Roberto era stato zelante nell'eseguire le istruzioni di Bartolomeo Visconti: aveva ripreso i contatti con lo zio Lorenzo, il quale ormai lo chiamava tutte le settimane e discettava col nipote di argomenti filosofici, teologici, storici, evitando, per il momento, le questioni esoteriche,
Non gli aveva mai chiesto quali interessi il consigliere Albedo potesse avere riguardo ai Monterovere.
Diana fingeva di non sapere nulla, ma si vedeva che era preoccupata e contrariata.
Non poteva sapere, Roberto, che persino la questione dei preservativi era stata dibattuta con la sua dama di compagnia e alla fine Consuelo aveva convinto la Contessa che era necessario prevenire eventuali mosse azzardate, specialmente tenendo conto che su tutta la faccenda non era stata "sciolta la riserva".
Aurora sembrava più innamorata che mai, eppure Roberto continuava a non fidarsi del tutto, perché si domandava se a lei interessasse di più lui come persona, o sempre lui, ma come "principe ereditario" di una serie di famiglie, persone e aziende importanti.
Lei mi sorride, ma "io non so l'amore vero che sorriso ha".
Incredibile come un verso tanto delicato, in una canzone tanto femminile come Minuettoche negli Anni Settanta era valsa la vittoria del Festivalbar a Mia Martini, già vittoriosa l'anno prima con Piccolo uomo , fosse stato scritto da un cantautore rude come Califano, che andò a letto con migliaia di donne ma non ne amò nessuna. Il suo sodalizio artistico con Mia Martini toccò il vertice ne "La nevicata del '56", un testo molto raffinato, che ricordava in chiave magica un evento della loro infanzia.
E sempre Mia Martini, proprio in quel 1992, era arrivata seconda a Sanremo con "Gli uomini", un ritratto impietoso, ma purtroppo non del tutto infondato su certi comportamenti maschili, e qui qualcuno ci vide qualche riferimento a Ivano Fossati, il suo ex, con cui le cose finirono piuttosto male.
Roberto, grazie alle "lezioni private" di Aurora, aveva incominciato a conoscere i testi delle canzoni "storiche" della musica leggera italiana, e alcune di quella straniera, ed era rimasto sorpreso dal fatto che, pur essendo concepiti per un pubblico non colto, e pur scivolando spesso nei luoghi comuni, ogni tanto contenessero frasi ben formulate, ritmi efficaci, figure retoriche originali e significati non banali.

Molti anni dopo, Roberto ne parlò ampiamente con i suoi interlocutori, ed è anche per questo che la nostra narrazione presenta numerosi riferimenti al riguardo. 
Una volta ci raccontò che lui e Aurora, prima che comparisse qualche crepa nel loro rapporto, avevano scelto, come "loro canzone", una appena uscita nell'autunno del 1992, e cioè "Non abbiam bisogno di parole" di Ron.
La ricorderete tutti: "...e ti solleverò tutte le volte che cadrai, e raccoglierò i tuoi fiori che per strada perderai..."
Le radio la davano in continuazione, ovunque, la si assorbiva nell'aria, penetrava nella memoria come un messaggio subliminale, con quello slancio improvviso in cui la musica, inizialmente sottotono, prendeva il volo all'improvviso, toccando l'acuto massimo in "fiori" per poi digradare lievemente  fino a "e seguirò il tuo volo senza interferire mai", e il cuore di tutti si stringeva, perché ognuno avrebbe voluto sentirsi dire allo stesso modo quelle parole, perché come abbiamo già detto, l'amore non è mai abbastanza.
Va detto, però, che all'epoca, non essendoci internet a disposizione, era più difficile trovare i testi delle canzoni, e Roberto proprio non sapeva come procurarseli, e si vergognava a chiederlo persino ad Aurora, e su questo punto si creò un siparietto comico, quell'estate, ma racconteremo ogni cosa a suo tempo.
Soltanto quando lo incontrammo, due o tre anni fa, prima di intraprendere la nostra narrazione, gli facemmo notare che bastava comprare TV Sorrisi e Canzoni, e lui rimase di sasso: "Non ci avevo mai pensato", fu il suo commento. 
Sul momento fu imbarazzante vedere quell'uomo di grande cultura così sprovveduto nelle cose banali della quotidianità, ma aveva le sue ragioni.
Era da comprendere, il suo essere "fuori dal mondo": certi giornaletti non erano ammessi nel Salotto Intellettuale dei Monterovere, e non interessavano neppure a quello mondano di Villa Orsini. 
Tranne la cronaca rosa di Oggi e Gente, la contessa vedova Emilia, leggeva solo i romanzi di Liala Negretti Odescalchi, e non si interessava di canzoni, per quanto ammettesse di aver ammirato, a suo tempo, Wanda Osiris che gettava le rose scendendo le scale, mentre cantava Ti parlerò d'amor, e di aver riconosciuto che Nilla Pizzi, dopo la sua interpretazione di "Grazie dei fior", poteva considerarsi una giovane promessa. 
Persino la contessa Diana aveva gusti insospettabili, che preferiva non divulgare, ma che Roberto ricordava alla perfezione, come se i suoi ricordi di bambino di tre anni fossero un film indelebile.
Immaginatevi la scena: Diana nel suo salottino privato, a cui era ammessa soltanto Consuelo, mentre guardava con lei le trasmissioni musicali alla tv, e fuori dalla porta socchiusa, il nipotino ficcanaso, sconvolto nel vedere che la nobile nonna piangeva a dirotto ascoltando Anima Mia, col biondino che cantava in falsetto; si struggeva di nostalgia alle note di Champagne, si esaltava per gli acuti di Albano in Nel Sole, fremeva di desiderio quando il prestante Julio Iglesias si lanciava in Se mi lasci non vale, sospirava per Massimo Ranieri disperato in Perdere l'amore, che a suo parere era insuperabile, per quanto estremamente depressiva. Da notare il fatto che le interessavano solo i cantanti maschi, mentre considerava le cantanti alla stregua di sgualdrine. 
Ufficialmente, però, la Contessa non ascoltava musica leggera, sarebbe stato inappropriato: nel Salone da Ballo di Villa Orsini, erano ammessi solo dischi di vinile di musica classica.
Ah, come dimenticare i valzer del Ballo di Mezza Estate, quando tutta la crème dell'aristocrazia romagnola rendeva omaggio alla famiglia Ricci-Orsini, prima che i processi ad Ettore Ricci spazzassero via tutto, rendendo quella sala un guscio vuoto.
Ma negli occhi di Roberto, il bambino della campagna, sarebbe rimasta per sempre viva l'immagine di Diana che, danzando, faceva volteggiare i suoi abiti lunghi, ma leggeri e vaporosi, bellissima e regale come una dea.




Al contrario, Silvia, negli anni scatenati della sua gioventù, si era identificata in Mina, aveva cambiato pettinatura ogni volta che la cambiava lei, seguito le sue vicende amorose meglio delle proprie, imparando i testi delle sue canzoni a memoria, declamando "Ancora ancora ancora" persino durante gli amplessi e infine indossando il lutto quando la Tigre di Cremona se ne fuggì a Lugano a nascondere i chili di troppo. 
Per alcuni anni Silvia ebbe una passione folle per Dalidà, imitandone l'aspetto, le movenze, la presenza scenica, il piglio regale, l'alternanza tra euforia e disperazione, ma purtroppo in quel caso il lutto fu reale e drammatico. Dopo di che, ma senza troppa convinzione, Silvia ripiegò sui cavalli di battaglia di Milva ("Rapsodie gitane" e "Alexander Platz") e dell'intramontabile ed eterna Vanoni,  specie in "Una ragione di più", di cui, non vista, cantava e continua ancora a cantare, dopo una vita intera di battaglie, "oggi e poi domani e poi domani ancora, finché il mio cuore ce la fa"
E quella "ragione di più" per vivere derivava dal senso del dovere nei confronti di una famiglia scombinata, le cui traversie l'avevano paradossalmente resa forte, tenacemente legata alla vita, e sempre lucidissima, laddove invece le sorelle, alla fine, avevano ceduto ai colpi bassi dell'età.
Mina, Dalidà, Milva e Vanoni: tutte donne con i capelli rossi, come Silvia che li aveva ereditati da suo padre, unica tra le tre considerevoli sorelle Ricci-Orsini, e per questo prediletta da Ettore Ricci.





E poi era arrivata Aurora, scandalizzata perché Roberto non aveva mai sentito nominare La canzone del Sole di Battisti, (e non si sarebbe perso niente), o Buonanotte fiorellino di De Gregori, che per giustificare ai radical-chic tale scivolone nel campo "melodico dell'amore", lasciò circolare la leggenda metropolitana secondo cui il testo fosse stato ispirato da una sua presunta fidanzata morta nella Strage di Ustica, con tanto di sottolineature nei punti chiave: "il mio biglietto scaduto" e "l'anello resterà sulla spiaggia". 
E allora diventava una canzone impegnata, una denuncia coraggiosa, e persino i comunisti più accaniti non riuscivano a trattenere le lacrime ogni volta che constatavano che "il granturco nei campi è maturo ed ho tanto bisogno di te", ma lei non c'era perché era morta a giugno nella Strage, e allora "la coperta è gelata e l'estate e finita", "gli uccellini nel vento non si fanno mai male", chiarissimo riferimento all'aereo silurato dagli americani che volevano colpire invece Gheddafi.
Tutto molto commovente, peccato che canzone fosse uscita nell' album "Rimmel" del 1975, e cioè cinque anni prima dell'abbattimento del DC-9, in quel fatale 1980 in cui le stragi si succedettero una dietro l'altra. (Come, del resto, anche nel 1992).
Questo inciso canoro, troppo lungo ma comunque poco esauriente, ci servirà nel prosieguo di questo capitolo, perché Aurora amava comunicare i suoi concetti chiave e le sue dichiarazioni solenni tramite l'esegesi di testi di canzoni d'autore, e fu proprio quello che avvenne alla fine di quella serata del memorabile 1 luglio 1992.




Ormai la cena volgeva al termine.
Quando finalmente si arrivò al dessert, i commensali erano tutti in uno stato semi-confusionale, non per il cibo e l'alcol, che erano stati comunque consumati in abbondanza o almeno più del solito, specie da parte delle convitate del gentil sesso, ma per tutte le informazioni che erano emerse da un dialogo in apparenza innocente.
Naturalmente, dai Monterovere, anche i dessert erano più di uno.
Erano i tempi in cui Francesco godeva di ottima salute e Roberto era magro come un chiodo o snello come i paggi del Duca di Norfolk, almeno stando alle memorie di Falstaff, ma entrambi, molti anni dopo, avrebbero pagato a caro prezzo la loro ingordigia.
Sam Albedo portò una ciotola di meringa per tutti, sua zia Consuelo portò una coppa di gelato ai gusti di stracciatella, pistacchio e zuppa inglese e infine la madre di Sam, Dolores, servì il Sorbetto al Limone.
E qui Silvia si sentì in dovere di riprendere il discorso antropologico sul rituale della "magneada" nella Romagna Centrale, o Romagna Celtica. 
<<Il sorbetto, di tradizione meridionale, fu introdotto relativamente tardi come momento di separazione tra la "mangiata" vera e propria, e il "dopo mangiata", che comunque comprendeva rituali altrettanto sacri e presenti dal Cinquecento in avanti in molte tradizioni italiane: il caffè, l'ammazzacaffè con gli amari, e anche il sigaro, per quanto la pipa fosse molto preferibile, perché l'aroma di tabacco da pipa è dolce, mentre quello del sigaro è pestilenziale>>
Il Visconte, gran fumatore di sigari, non era d'accordo e mentre ancora divorava la meringa, brandì il cucchiaino come un'arma e dichiarò:
<<Non tutti i sigari lo sono! Per esempio gli Avana...>> e stava per lanciarsi in un'arringa degna di Cicerone, quando la moglie lo fermò:
<<No, guarda, caro mio, fanno tutti schifo, oltre a far male alla salute>>
Al che lui batté in ritirata, annegando la sua frustrazione nel frizzante vino rosé da dessert.
Tutti fecero onore al sorbetto, e tutti bevvero il caffè, e anzi Aurora ne chiese un'altra tazza, forse per scongiurare i rischi di un abbiocco, dopo quello che per lei era stato un delirio calorico che le sarebbe costato un mese di massacrante esercizio fisico.
Soltanto i due capifamiglia (che in realtà erano sudditi delle rispettive mogli), si avventurarono nella degustazione dell'infuocato Fernet Branca, dopo il quale, con la gola ustionata e lo stomaco in fiamme, decisero unanimemente che i vari Averna, Cynar, Giuliani, Lucano, Montenegro, Rabarbaro Zucca, Ramazzotti e Strega potevano tornare nelle cantine.





A quel punto la "mangiata" celtico-romanza poteva dirsi conclusa e i commensali uscirono in veranda per prendere una boccata d'aria.
Il Visconte, fumando un sigaro Avana, e il Professore, costretto a inalarne gli effluvi, parlarono di politica: e stranamente si trovarono d'accordo, perché proprio nel 1992 era incominciata la virata verso destra di Francesco Monterovere, che in seguito lo portò alla condanna suprema per un intellettuale, ossia l'essere Radiato dall'Albo dei Radical-chic, con conseguenze devastanti per il Salotto Culturale della Signora e altre questioni più significative.
Racconteremo più avanti tutto questo, perché fu comunque l'atto finale di un cambiamento avvenuto con estrema gradualità e sempre in seguito ad eventi storici o ragionamenti ben precisi.

La Viscontessa e la suddetta Signora, si sedettero sotto la pergola e incominciarono a ricordare "il bel tempo andato", perdendosi nell'eterno topos del "quelli sì che erano tempi!", e forse non avevano tutti i torti, perché accanto al progresso c'è sempre la decadenza: sono come due gemelli, che procedono fianco a fianco, così come, in ogni estate al culmine, c'è sempre un po' di morte, e ogni fotografia dell'alba è indistinguibile da quella di un tramonto, così come si assomigliano il crepuscolo e l'aurora.

Aurora, come era suo costume, afferrò con la salda presa della tennista allenata o della ginnasta ritmica, la mano di Roberto, e lo condusse nuovamente sul gazebo in pietra, in cima alla collina.
Aveva un'espressione solenne e la famosa "faccia delle grandi occasioni", per cui quindi il suo ragazzo le lasciò il controllo della situazione, come poi del resto faceva sempre.




<<Roberto, io avrò anche scolato vino rosso a volontà, ma tutto quello che sto per dirti e per donarti viene dal profondo del mio cuore. 
Io credo nel Destino e sento io e te siamo destinati a stare insieme per tutta la vita>>
Lui cercò una riposta più vicina alla propria visione del mondo:
<<Io credo nell'amore che provo per te ed è un sentimento che prevale su tutto il resto.
Ma non credo nel destino e nemmeno nel Libero Arbitrio. 
Io penso che, al di là di tutto ciò che l'umanità racconta a se stessa per non aver paura della morte e sentirsi ancora al centro di un grande disegno e non ai margini di una galassia in un universo con milioni di galassie, e al di là di tutti i suoi sforzi per considerarsi artefice del proprio destino, gli unici principi fondamentali che dominano l'universo rimangano pur sempre l'Errore e il Caso>>
Aurora conosceva la Weltanschauung del suo ragazzo e non se ne stupì, ma per l'ennesima volta volle fare un esempio tratto da una canzone famosa:
<<Hai presente Samarcanda di Vecchioni ? Questa dovresti conoscerla, perché lui sarebbe perfetto per il Salotto Intellettuale di tua madre>>
Roberto ne ricordava vagamente il ritornello un po' assurdo che riguardava un cavallo:
<<E cosa c'entra con ciò di cui stiamo parlando?>>
Lei sorrise, come un'insegnante indulgente verso il suo allievo preferito che non si è applicato abbastanza:
<<Segui il mio discorso e capirai. E' una splendida ballata, con una prosodia straordinaria e una sapiente armonizzazione di metrica e retorica che solo un classicista come lui poteva utilizzare al meglio>>
Roberto, che si sentiva troppo stanco per una lezione, cercò di deviare il discorso:
<<Ma non ti interessavano solo i cantautori di centro-destra?>>
Aurora gli tirò un orecchio come a un monello e poi continuò, serissima:
<<Questa canzone è un capolavoro, sia per i contenuti che per le scelte stilistiche e musicali.
Parla del fatto che non si può sfuggire al proprio destino e che anzi, più uno cerca di fuggire, più va incontro a quel destino, come succede al protagonista della canzone.
Un soldato, scampato ai mille pericoli di una guerra imprecisata, sta festeggiando la vittoria, nella Capitale altrettanto imprecisata di un ignoto impero, dove sono in corso spettacoli e grandi libagioni.
L'inizio ci dà subito il ritmo, con un la tecnica usata da Carducci nelle Odi barbare, cioè un adattamento italiano della metrica classica: qui abbiamo tre dattili e un anapesto alternati a tre dattili e un giambo: "Ridere, ridere, ridere, ancora / ora la guerra paura non fa"
Nota l'insistenza di anafora e allitterazione, che rendono più efficace il ritmo>>
Roberto incominciava ad essere interessato:
<<Ma come fai a conoscere la metrica classica? Noi allo Scientifico non la facciamo>>
Lei, con affettata modestia, si limitò a dire:
<<Mia madre ha fatto Lettere Classiche come la tua, anche se non ha la cattedra di latino e greco come Silvia, e non fa lezioni private se non a me. Ha voluto insegnarmi qualcosina in più.
Io avrei voluto fare il Classico, sai, e anche se il motivo ufficiale per cui scelsi lo scientifico era perché poi avrei dovuto fare economia e quindi era meglio fare più matematica, la vera ragione è perché volevo stare in classe con te: il preside assicurò a mio padre che sarei stata assegnata nella tua stessa sezione. Mio padre assecondò questo mio desiderio solo perché era l'unico modo per evitare che facessi il classico. Ma io ti amavo moltissimo, già dalle scuole medie...>>
Roberto era incredulo:
<<Mi amavi già così tanto? E hai continuato per tutto questo tempo?>>
Lei annuì, serissima:
<<Sempre. Noi siamo destinati a stare insieme. 




Ma torniamo al povero soldato, che "vide tra la folla quella Nera Signora / vide che cercava lui e si spaventò". Dunque vede la morte e pensa che lei sia lì per falciare la sua vita.
Per questo implora il sovrano di dargli "la bestia più veloce che c'è", riferendosi al cavallo, e qui inizia la parte che ci interessa per quel riguarda il Destino.
"Corri cavallo, corri ti prego / fino a Samarcanda io ti guiderò / non ti fermare, vola ti prego / corri come il vento che mi salverò".
Perché Samarcanda? Non è solo per il valore ritmico ed eufonico del nome della città, ma anche per la sua collocazione che, nel mondo classico, era considera alla fine dell'oikoumene, il mondo conosciuto: solo Alessandro Magno aveva messo piede a Samarcanda, prima di fondare Alessandria Eschate, "la Lontanissima", "l'Estrema").





Ma Samarcanda ha anche un significato cupo e pericoloso: è stata la capitale dell'impero del feroce Tamerlano, Timùr El-Lang, lo Zoppo,  personaggio mitizzato, dopo aver sconfitto gli Ottomani nella Battaglia di Angora (l'odierna Ankara).





Il soldato finalmente vede in lontananza la sua meta, ma la sua gioia dura poco:
 "Fiumi poi campi poi l'alba era viola / bianche le torri che infine toccò / ma c'era sulla porta quella nera signora / stanco di fuggire la sua testa chinò".
Eccolo quindi di fronte al Destino che aveva cercato di evitare con tutte le sue forze, e la Morte arriva persino a deriderlo, quando lui le dice di averla vista guardarlo con malignità tra la gente nella capitale e la Nera Signora risponde, prendendosi gioco di lui: "Ti sbagli, t'inganni, ti sbagli soldato / io non ti guardavo con malignità / era solamente uno sguardo stupito / cosa ci facevi l'altro ieri là / ti aspettavo qui per oggi a Samarcanda / eri lontanissimo due giorni fa / ho temuto che per ascoltar la banda / non facessi in tempo ad arrivare qua".
Il soldato, per fuggire la morte, il Destino, paradossalmente gli era andato incontro>>
Roberto capì fin troppo bene il messaggio, ma non conosceva il finale della canzone:
<<E la morte del soldato viene descritta?>>
Aurora sorrise:
<<NoIl soldato ripensa al suo viaggio e capisce che non è stato inutile, anzi, forse è stata la più bella avventura della sua vita, e ne valeva la pena. 
Samarcanda è la Morte, ma il viaggio per raggiungerla è un'esperienza straordinaria, che alla fine ci sembra breve:
"Non è poi così lontana Samarcanda / corri cavallo corri di là / ho cantato insieme a te tutta la notte / corri come il vento che ci arriverò">>














Fu allora che l'atteggiamento sdegnoso di Roberto nei confronti della cosiddetta "musica leggera" cambiò. Un bravo cantautore poteva veicolare, anche con una canzone orecchiabile, concetti profondi, in una forma esteticamente rigorosa.
In effetti il commento di Aurora, per quanto "di parte" nei confronti del tema del destino, aveva un senso, perché quel viaggio incontro al Fato, "tra i grilli e le cicale", era stato comunque un bel viaggio, e a Roberto venne da pensare che il suo viaggio insieme ad Aurora sarebbe stato così, pericoloso, folle, esiziale, ma sicuramente bellissimo e memorabile, forse l'esperienza più appagante di tutta la sua vita, che avrebbe fatto apparire tutta la sua esistenza successiva, dopo i 40 anni, come "uno scialo di triti fatti", una "opaca trafila delle cose", un "interminabile sopravvivere a se stesso", una specie di film muto, in bianco e nero, un lungo piano sequenza di giorni aggiunti a giorni senza alcuna ragione, se non il tirare avanti a tutti costi, fino a diventare, come tutti i sopravvissuti a grandi esperienze di vita, un vecchio che vive di ricordi, ripensando a un passato trascorso con persone morte da tempo, disprezzando il presente e facendo pochissimo affidamento sul futuro, come Leuconoe "quam minimun credula postero".

Nel frattempo Aurora prese dalla sua borsetta un minuscolo pacchettino quadrato e disse:
<<Questo è per te>>
Roberto, che come tutti i tipi in stile Asperger, temeva le novità, lo prese con un certo timore e poi guardò lei:
<<Non dovevi, non era necessario un regalo...>>
Lei gli intimò:
<<Aprilo>>
Lui obbedì e quando vide il contenuto, per poco non svenne.
Era un anello da uomo con un rubino incastonato.
Sapeva distinguere gli anelli da uomo da quelli da donna perché i Conti di Casemurate si tramandavano il loro anello d'investitura (in pietra di ametista) da innumerevoli generazioni.
<<E' meraviglioso, ma... che significato devo attribuirgli?>>
Aurora sorrise:
<<Mi piace pensare che questo sia l'inizio del nostro fidanzamento>>
Lui rimase di stucco:
<<Ma è l'uomo che deve regalare l'anello!>>
Lei rise:
<<Tra i miei sogni proibiti c'era anche questo. Essere io a fare la proposta, alla quale non è necessario che tu risponda, perché so già che ci sposeremo>>
Roberto la guardò e vide davanti a sé una creatura sovrumana, una dea che lo aveva scelto per ragioni oscure, che andavano oltre l'amore, oltre le tradizioni, oltre alla normalità...
<<Sì, anch'io ti voglio sposare, e sono certo che lo farò. Ma non subito...>>
Lei tornò ad avere un'espressione solenne:
<<Metti al dito questo anello, perché le tue fatiche saranno gravi, e in tutte esso ti sosterrà, preservandoti dalla stanchezza, perché questo è l'Anello del Fuoco, e chissà che non riesca ad accendere il tuo coraggio e la tua speranza, quando un giorno tutto sembrerà spegnersi.
Quanto a me, il mio cuore ti appartiene, e rimarrà in attesa che tu sia pronto, fino all'ultimo dei suoi battiti. Fino a quel giorno, io ti aspetterò>>




Roberto era commosso, e anche se la notte impediva di vedere il suo viso, le sue lacrime solcavano il volto fino alle labbra.
Quelle parole erano la riformulazione di un brano che lui stesso le aveva letto, nell' Appendice B del "Signore degli Anelli", all'inizio della cronologia della Terza Era, dove il sovrano degli elfi sindar, Cirdan il Timoniere, decide di donare uno degli anelli del potere, Narya, l'Anello del Fuoco, uno dei tre concessi ai Re degli Elfi ( gli altri due erano Vilya, l'anello di zaffiro, ereditato da Elrond, signore degli elfi noldor, e Nenya, l'anello di diamante, donato direttamente a Galadriel, regina degli elfi dorati di Lothlorien) a Mithrandir, meglio conosciuto come Gandalf, ma che in origine aveva nome Olorin, quando era un Maiar, uno degli spiriti primordiali al servizio dei Valar, le Potenze di Arda, insignite di questo compito dal supremo Iluvatar. Lo mandavano i Valar, per sostenere i popoli della Terra di Mezzo, perché l'ora dello scontro finale si stava avvicinando.





Il re Cirdan, signore dei Sindar, gli Elfi Grigi, nella sua saggezza, lo riconobbe, e lo accolse con gioia, e dopo aver parlato a lungo con lui, prese una decisione.
Gli donò il proprio anello e la propria promessa di attenderlo, fino a che l'ultima nave degli elfi non fosse partita per l'ovest.
Cirdan fece tutto questo per Gandalf, "poiché sapeva donde egli venisse, e dove infine sarebbe tornato".