Le unità a cavallo furono tatticamente molto importanti fino alla fine del
XIX secolo per le loro caratteristiche di mobilità e velocità. In seguito l'avvento del
treno e degli
autoveicoli permise di trasportare i soldati in modo più efficiente, mentre nuove armi come la
mitragliatrice trasformarono la carica di cavalleria in un'azione suicida.
L'epoca d'oro della cavalleria fu il
Medioevo: il cavaliere medievale, armato di
lancia e rivestito da una pesante
armatura, era il nerbo degli eserciti di quel periodo. I cavalieri costituivano inoltre la classe dominante della società e la
Cavalleria medievale era un ideale di vita a cui gli uomini di quel tempo si ispiravano. Ancora oggi alcuni paesi (
Italia compresa) usano il titolo di
cavaliere come onorificenza.
Fu una evoluzione lenta ma costante, qualche volta tumultuosa in coincidenza con l'arrivo di nuovi attori sui campi di
battaglia, ma sempre coerente con i cambiamenti del contesto socioeconomico che ne era il supporto.
La crisi che colpì i liberi coltivatori
romani del periodo repubblicano inferse un duro colpo alla potenza della
fanteria legionaria, ben più grave ed irrimediabile dei colpi subiti dalla stessa ad opera dei cavalieri
Parti e
Sarmati.
Quella
potenza legionaria che aveva conquistato un
impero iniziò a decadere con la decadenza di quell'
archetipo dell'uomo romano che ne era stato la base e la
forza.
Cavalieri di Jan van Eyck
Teorie sull'origine
Negli anni Trenta del
XX secolo Marc Bloch sostenne che all'inizio dell'
XI secolo lo sviluppo e la diffusione di
signorie di banno, incentrate sui castelli, e dei legami
feudali avevano contribuito ad alimentare una crescente cerchia di specialisti della guerra, formati dai signori e dai loro
vassalli. Il mestiere di cavaliere andò sempre più specializzandosi e circoscrivendosi a una élite ristretta che diede vita a una cerimonia di iniziazione del cavalierato, l'
adoubement, che contribuì alla percezione della cavalleria come gruppo limitato.
[1] Tra il
XII e il
XIII secolo essa, definedosi in un ceto chiuso a base ereditaria, passa dalla condizione di "nobiltà di fatto", ovvero dall'organizzazione in forme aperte e fluide, alla condizione di "nobiltà di diritto".
Alla tesi di Bloch che sostenne che la cavalleria si fosse costituita come emanazione della condizione nobiliare, Jean Flori ha eccepito un'altra teoria, del tutto opposta, che considerava la cavalleria come una professione alla quale la nobilità si avvicinò e della cui dignità, col tempo, si appropriò. Il mestiere del cavaliere era inizialmente stato riservato a persone di estrazione variegata e anche di umile origine, come dimostra l'etimologia del termine
knight che deriva da
cnith che designava il "servitore".
[2] Solo nel
XIII secolo, anche attraverso la formazione di un'etica e di un codice di comportamento del cavaliere, il cavalierato e la carica nobiliare conoscono una chiara sovrapposizione. Fu in quest'epoca che si diffuse la pratica dell'adubement che assegnava alla cavallieria il significato di "ordine" ristretto ed esclusivo.
[3]
I Barbari
Popolazioni nuove, ora si direbbe giovani, premevano sull'Impero: alcune erano formate da provetti cavalieri che passavano la maggior parte della propria vita letteralmente e materialmente sul cavallo, come gli
Unni, gli
Alani ed, in genere, i popoli della
steppa. Questi popoli, che basavano la propria forza militare su una cavalleria organizzata, non riuscirono, tuttavia, a innervarsi in quella società europea che per loro era solo occasione di scorrerie, rapine e bottino. Altre popolazioni, invece, fecero proprio quell'Impero tante volte combattuto e subìto. Furono i
Franchi, i
Sassoni, i
Frisoni, i
Longobardi, gli
Juti che si imposero, ricreando, o contribuendo a ricreare, quel nuovo Impero che il
Papato avrebbe cercato di rendere unito come comunità cristiana e di subordinare a sé stesso.
Queste nuove genti
germaniche e nordiche, che in effetti non possedevano una cavalleria nel senso militare del termine, combattevano a piedi anche se il
cavallo era il loro mezzo di locomozione. Il cavallo era considerato più un segno di distinzione di cui godevano e si fregiavano i capi che non un mezzo bellico, e ciò sia per il suo costo, particolarmente elevato, sia per la simbologia sacrale che gli era connessa. Il cavallo accompagnava il guerriero nella sepoltura per l'ultimo viaggio, secondo una tradizione che risaliva alle
saghe germaniche conferendo così al cavaliere quell'alone di
mito che lo accompagnerà nelle epoche in cui la funzione della cavalleria sarebbe venuta meno e che le
canzoni di gesta epiche avrebbero perpetuato.
Il cavaliere non si improvvisava, veniva addestrato fin dalla fanciullezza e, quindi, armato con un equipaggiamento il cui
costo poteva superare quello di 20
buoi, in pratica una piccola
proprietà terriera.
Era
fatale, così, che si sviluppasse nella società una divisione netta o meglio una frattura incolmabile fra il cavaliere consapevole del proprio costo e della propria funzione e
« la massa dei rustici che si vedevano sospinti insieme con la gente dei campi di origine servile verso un ruolo indifferenziato di produttori di mezzi di sostentamento. » |
(Cardini F. - Il Guerriero e il Cavaliere.) |
Si formò spontaneamente un gruppo
elitario, separato e autoreferente che si autocelebrava anche attraverso il
racconto delle proprie
imprese, sempre eccezionali, e anche attraverso quella che sarà una vera e propria
liturgia dell'
iniziazione e dell'accettazione o
cooptazione in un
circolosempre più chiuso. La
letteratura epica si incaricherà di idealizzarne e celebrarne gli aspetti
eroici, il più delle volte usurpati.
Sorse, anche, l'esigenza di distinguersi e di rendersi riconoscibili sia in battaglia che nei
tornei, e quindi si diffuse l'uso di
colori e di
emblemi posti sullo
scudo del cavaliere, che daranno origine all'
Araldica, o scienza del
Blasone.
Lentamente si consolidò quella che era una
fraternitas, la cavalleria medievale, con regole sempre più rigorose che subiranno, tuttavia, continue eccezioni. La separazione dal mondo dei rustici aumentò sempre di più ed il solco iniziale divenne una voragine. Da una parte pochi eletti, dall'altra la massa disprezzata e sfortunata degli inermi o
pauperes che avevano una sola possibilità di riscatto: mettere la propria
vita in gioco nei campi di battaglia al servizio di qualche
Senior.
Il mito
Era un mito quello che il cavaliere medievale coltivava, esaltandolo in quelle fraternitas che daranno luogo ad una vera e propria classe sociomilitare particolarmente rigida ed impermeabile alla cui base c'era lo spirito di gruppo e di corpo.
« Questo è forse il senso più riposto ma anche più evidente dell'immagine raffigurata nel controsigillo dell'Ordine Templare, che mostra due cavalieri su un solo cavallo. » |
(Cardini F. - Il Guerriero e il Cavaliere) |
La storia concorrerà notevolmente all'affermazione di questa nuova classe di
guerrieri, separandola sempre di più dal resto della società, gli
inermes, che venivano subordinati e sottoposti a quei
bellatores equestri che costituivano la base del potere.
Le opportunità
Certo il
servizio militare, oltre ai rischi, offriva notevoli vantaggi a quei soggetti che, per capacità o fortuna, ne sapevano approfittare. Le opportunità di arricchimento a seguito delle azioni belliche erano grandi, sia attraverso i bottini rapinati sia attraverso il riscatto dei prigionieri, specie se di alto lignaggio. Ciò costituiva un valido compenso per il rischio di perdere la vita, rischio sempre presente e sempre messo in conto.
Il
miraggio era quello di passare dal servizio presso altri alla formazione di una propria
dinastia, e, magari, acquisire una propria
signoria o conquistare un proprio
regno. Fu quello che seppero fare i
Normanni, vere e proprie bande di avventurieri al servizio di signori in guerra tra loro, signori che prima aiutavano e ai quali poi si sostituirono approfittando della favo
I Normanni
I Normanni riuscirono, senza grande difficoltà, non solo a sostituirsi ai loro, per così dire, datori di lavoro ma a fondare, oltre che un regno importantissimo nell'Italia meridionale, una dinastia dai cui lombi discese una progenie destinata alla dignità imperiale. L'avventura dei numerosissimi cavalieri normanni giunti prima nel
Meridione dell'
Italia continentale e successivamente in
Sicilia è fantastica ed affascinante. È impressionante vedere come un manipolo di uomini decisi, ma sostanzialmente dei briganti quasi emigranti ante litteram, costretti a lasciare le loro terre di origine, la
Normandia sulle coste nordoccidentali della
Francia, riuscirono a inserirsi nelle lotte intestine di quel che restava del
Ducato di Benevento, dei vari principati longobardi e del declinante
Impero Bizantino nell'Italia meridionale e a prendere il sopravvento. Vi fu anche il fortunato gioco di circostanze favorevoli che, sapientemente sfruttate, contribuirono alla loro affermazione politico-militare.
I Normanni, che stavano per impadronirsi dell'intero Meridione d'Italia, ottennero il riconoscimento del loro potere e delle loro conquiste dal
papa Niccolò II prima di lanciarsi alla conquista della Sicilia: questo riconoscimento papale
legittimò quello che era un puro atto di violenza[4].
Il nuovo
Si svilupparono nuove tecniche militari sotto la spinta delle milizie di
fanti che, inquadrate dal
Comune, non erano più quella massa incoerente di
contadini armati di forcone contro cui la carica della cavalleria aveva avuto sempre successo.
Le milizie cittadine si proposero come strutture sempre meglio organizzate e coese, dotate dell'addestramento acquisito nelle gare cittadine, gare che avevano sviluppato non solo lo spirito d'emulazione ma, cosa ben più importante, lo spirito civico rendendo i cittadini combattenti consapevoli, decisi e, quindi, temibili.
Questi
uomini che, normalmente, svolgevano nella vita quotidiana altri compiti, che non le
arti marziali, esprimevano, nel momento del
combattimento, sotto il
gonfalone civico, tutta la loro determinazione bellica, frutto del rancore contro l'
aristocrazia militare: essi trascuravano quell'aspetto
ludico che era stato una caratteristica del combattimento dei cavalieri. Questi
cittadini nel combattimento erano micidiali, le loro
picche e le loro quadrelle non lasciavano scampo.
Nuove armi
Le nuove armi vincenti erano le picche, l'
arco e la
balestra, che, in un'unione
simbiotica dietro il
pavese, un grande scudo, costituivano per i cavalieri un ostacolo, o, per meglio dire, un muro insuperabile, quasi sempre letale.
Il cavallo che era stato un'arma vincente si trasformò in un gravissimo punto di debolezza ed impedimento.
In questo nuovo modo di combattere il cavallo soccombette sotto i colpi di
coltello del fante che strisciando per terra lo sventrava, in un'azione inconcepibile per il cavaliere e per il suo
codice deontologico: al cavaliere rinchiuso nella sua pesante
corazza d'
acciaio non rimaneva che fuggire o, disarcionato e circondato, morire come un povero
crostaceo[5] sotto i colpi della plebaglia a piedi. Queste nuove battaglie si concludevano in un'orgia di sangue, in un tripudio di vendette e di rivalse da parte dei rustici contro un mondo, quello feudale, che ormai volgeva alla fine.
Era un mondo carico di valori, forse mai realmente esistiti ma sicuramente idealizzati e vagheggiati, che sopravviverà solo nelle chansons. I cavalieri, superstiti di questo mondo sentito da loro come unico e vero, andranno lietamente a farsi scannare da rozzi bottegai e cupi
artigiani che combattevano solo per affermare, in un
duello, da loro vissuto come mortale, la loro esistenza civile, la loro capacità economica e la necessità di continuare a sviluppare liberamente quelle attività economico-commerciali dal cui successo derivavano rilevanza sociale e forza politica.
Le Gentes novae
Per queste
gentes novae, la guerra non era un gioco, una festa in cui mettere in mostra le proprie
virtù cavalleresche magari per gloriarsene agli occhi di una dama o nel caso fortunato per appropriarsi di un bottino e di un ricco riscatto, bensì un mortale e costoso incidente che metteva a rischio le conquista economiche acquisite, oltre che la loro stessa sopravvivenza.
Laddove il cavaliere vedeva nel cavaliere nemico un confratello in campo opposto, il
mercante che combatteva vedeva nel cavaliere solo un soggetto che interrompeva la sua attività facendogli perdere denaro e rischiare la vita e perciò lo doveva eliminare, cioè uccidere.
Il mercante combatteva libero da qualsiasi deontologia militare e sotto lo stimolo dell'urgenza di tornare presto ai propri affari sospesi.
Tutto ciò era vissuto come scandaloso dai cavalieri: guai al cavaliere che incontrava sul campo di battaglia qualche macellaio armato che, pratico nello squartare l'oggetto della propria attività lavorativa, non aveva remora alcuna a fare altrettanto prima col cavallo e poi con il cavaliere.
[6]
Armatura per cavaliere e cavallo
Valori della cavalleria e investitura del cavaliere
Grazie all'importanza acquisita sul piano militare, la cavalleria divenne un mezzo di ascesa sociale sia tra l'
aristocrazia che possedeva i beni e i diritti nel territorio circostante la città sia tra i ceti cittadini più elevati. I
cadetti diventavano cavalieri in quanto erano esclusi dall'eredità. Dal secolo XI la cavalleria diventò un ceto sociale chiuso: tranne rare eccezioni, diventava cavaliere solo chi era figlio di cavaliere. Gli ideali condivisi erano: difesa dei più deboli, lealtà verso il proprio signore, valore fisico ed integrità morale. Intesa in questo nuovo senso la cavalleria diventò per secoli il riferimento di tutta la
nobiltà europea, anche di quella che non aveva origini militari. I cavalieri appartenevano al secondo ordine della società (i
bellatores), mentre il primo ordine era costituito da coloro che avevano il compito di pregare (
oratores) ed il terzo da coloro che avevano il compito di lavorare (
laboratores). Al fine di contenere la violenza di molti guerrieri, alcuni
vescovi della
Francia sud-occidentale ed alcuni monaci fecero ricorso alle
paci di Dio: essi convocavano una pubblica assemblea in cui tutti giuravano di mantenere la pace, impegnandosi in particolare a non colpire chi non portava le armi (contadini, pellegrini, uomini di Chiesa). Nato negli anni Settanta del X secolo, il movimento delle
paci di Dio si diffuse nel resto della
Francia ed in altre regioni europee nel secolo XI quando, in numerosi concili vescovili, si stabilì anche la
tregua di Dio. Il cavaliere era un
miles Christi, soldato di
Cristo, che serviva legittimamente Dio anche con le armi, anzi morire per la difesa della
fede cristiana era un mezzo per conseguire la salvezza eterna.
[7] L'addobbamento del cavaliere era all'inizio un
rito molto semplice: davanti a testimoni, il signore consegnava la spada e il cinturone e gli dava uno schiaffo sulla guancia col palmo della mano, o gli dava un colpo sulla
nuca con la spada di piatto. Il nuovo cavaliere dimostrava così di essere pronto a superare le fatiche e i pericoli delle battaglie.
[8] [9] I cavalieri si misuravano anche in competizioni chiamate giostra e
torneo.
Codice cavalleresco
Dal secolo XI si assistette, anche per effetto della generale ricostituzione della società europea, ad un
ingentilimento dei costumi dei cadetti, che si professavano protettori dei deboli, delle vedove e degli orfani, devoti ad una domina (da cui il nostro donna) alla quale prestavano giuramento di fedeltà e in nome della quale compivano le proprie gesta.
[10] In generale il codice cavalleresco, cosa che poi ha contraddistinto il concetto di "cavaliere" nell'immaginario collettivo, ruotava intorno ad alcuni valori e norme di comportamento, come
la virtù, la difesa dei deboli e dei bisognosi, la verità, la lotta contro coloro che venivano giudicati malvagi e gli oppressori, l'onore, il coraggio, la lealtà, la fedeltà, la clemenza e il rispetto verso le donne.[11]
Il tramonto della cavalleria
Il momento magico dei cavalieri medioevali fu l'avventura delle
Crociate, specie la prima, trascorso il quale iniziò la loro crisi lentamente per continuare, poi, sempre più rapidamente, crisi che culminerà nella
battaglia degli Speroni d'Oro a
Courtrai,
1302. In questa battaglia, simbolicamente ritenuta la fine dei cavalieri medioevali, come funzione militare definitiva, le truppe formate da mercanti ed artigiani delle
Fiandre massacrarono i cavalieri francesi facendo mucchi dei loro speroni dorati. L'introduzione delle armi da fuoco dette poi il colpo di grazia alla cavalleria che vide sempre più le proprie cariche fermate da piogge di proiettili di archibugio o dai tiri dei cannoni.
Fu il tramonto della cavalleria come arma anche se le sopravvisse, sempre più mitizzata, quell'
etica che era stata alla base della
fraternitas, cui una stessa mentalità ed aspirazione di vita aveva legato i cavalieri.
Questa specie di «internazionale cavalleresca»
[12], che si era costituita tra l'XI ed il XIII secolo, perse davanti alle nuove fanterie comunali la propria funzione militare lasciando, tuttavia, un'
eredità di valori e di miti che sarebbero durati nei secoli successivi.
Era lo spirito cavalleresco con la sua carica di
leggenda che sopravviveva rappresentando valori che i posteri avrebbero esaltato, per non dire creato.
Gli Ordini cavallereschi
Questo spirito sopravvisse anche grazie agli ordini cavallereschi che ebbero una funzione reale fintanto che svolsero un'attività politico-militare, e cioè fino al Duecento ma che successivamente o scomparvero come i
Templari ad opera di
Filippo IV di Francia o si trasformarono in
istituzioni puramente simboliche. Continuarono a sopravvivere invece quegli ordini che nati con ideali cristiani e militari, abbandonate progressivamente gli aspetti militareschi hanno mantenuto e rafforzato gli scopi umanitari come nel caso dell'
Ordine di Malta e dell'
Ordine teutonico.
« Così la stanca aristocrazia deride il proprio ideale. Dopo avere abbellito, colorato e reso in forma plastica con tutti i mezzi della fantasia, del talento, e della ricchezza il suo sogno appassionato di una vita bella, essa considerò che in fondo la vita non era affatto bella, e rise. » |
(Huizinga - L'autunno del Medioevo) |
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- ^ Cardini F. - Il Guerriero e il Cavaliere.
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- ^ Giovanni De Luna, Marco Meriggi, Il segno della storia, vol. 1, pag. 30-32, ed. Paravia.
- ^ Chiara Frugoni, Anna Magnetto, Tutti i nostri passi, Corso di storia antica e altomedievale, vol. 2, pag. 306, ed. Zanichelli.
- ^ investitura
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