venerdì 16 luglio 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 147. Le Streghe di Confluentia


C'era una pace d'altri tempi nel luogo selvoso e verdeggiante dove le placide acque del Bevano si univano a quelle della Torricchia, formando una penisola alberata, dove sorgeva un vero e proprio bosco (di querce, betulle, acacie, pioppi, faggi, ontani e salici), che circondava tutto il territorio intorno ad una antica dimora.
E poi c'era, ai confini di questo bosco, una siepe intricata di mori e rovi, ancora più alta, a delimitare il territorio in cui, ai tempi del conte Ludovico Orsini di Casemurate (1826-1878) era stata fondata L'Opera Pia di "Confluentia" che offriva un pasto e una cura veterinaria per i gatti randagi di campagna, accuditi da anziane signore volenterose che vivevano stabilmente in quel luogo, grazie ad un sussidio erogato dalla stessa famiglia Orsini, con i proventi ricavati da un'erboristeria che si trovava nei paraggi.
Chiediamo ai lettori un minuto di pazienza per localizzare, nella mappa sottostante, il punto esatto dove sorgeva Confluentia: si segua il corso del Bevano fino a Casemurate e si noti un punto con una piccola freccina blu che noi abbiamo aggiunto per indicare meglio il luogo di cui parleremo.




Prima delle opere di bonifica, in quel luogo c'era la Vecchia Foresta, una grande zona selvosa circondata dalla Palude Standiana (che i Romani chiamavano Vallis Candiana) a sua volta collegata all'enorme Palude Padusa.
Al centro della Vecchia Foresta, dove ora c'è Confluentia, c'era il Bosco Sacro, che da tempo immemorabile era un luogo di culto della Signora delle Paludi, chiamata "la Borda".

Alcuni studiosi del folklore locale riconducono l'etimologia del termine Borda alla radice "bor-" che andrebbe ricondotta a Borvo, divinità celtica che presiedeva alle acque termali e sorgive, e si ritroverebbe, in una vasta area accomunata da un'antica presenza celtica, in toponimi e termini connessi all'elemento acqueo: il fiume Bormida, località termali come Bormio, Bourbon-Lancy, Bourbon-l'Archambault, parole francesi come brouillard e brume (che significano "nebbia") o bourbe (melma).

La leggenda della Borda era diffusa in gran parte della Pianura Padana, ma in particolare nelle paludi vicine alla costa adriatica. 

La confluenza tra il Bevano e la Torricchia, così come la successiva tra il Bevano e la Serachieda, segna il confine tra l'attuale provincia di Forlì e quella di Ravenna, ma all'epoca i vari corsi d'acqua erano circondati da acquitrini e zone melmose, dove si sprofondava nelle sabbie mobili.
Nell'altare del Bosco Sacro di Confluentia c'era una spaventosa immagine della Borda, rappresentata come un mostro con grandi zanne, volto umanoide, mani palmate e coda di pesce: probabilmente questa forma ha avuto origine dagli enormi pesci carnivori, simili ai siluri, che popolano i fiumi e i canali della Pianura Padana.





Nell'Isola del Bosco Sacro, le Sacerdotesse delle Paludi, tenevano a bada la furia e l'ingordigia della Borda e di tutte le creature che le obbedivano.
Nella leggenda erano per metà umani e per metà pesci, ma non belli come se sirene: erano orribili come i mostri partoriti dalla fantasia di H.P. Lovecraft.
Le paludi vennero drenate, e la loro acqua convogliata nel Bevano e nei suoi affluenti.

La Vecchia Foresta si ridusse di anno in anno, finché rimase soltanto il Bosco Sacro.
E le Sacerdotesse rimasero lì, tollerate e temute anche in età cristiana, persino quando quel territorio fu dato in feudo a Bertoldo Orsini e a suo figlio Bernardo, primo Conte dii Casemurate.
Nessuno aveva mai avuto il coraggio di chiedere che tipo di accordo ci fosse tra gli Orsini e le Sacerdotesse, perché sia gli uni che le altre suscitavano timore e tremore nella popolazione locale.




Eppure tutti gli abitanti del luogo sapevano che, nel Bosco Sacro, che continuò a portare quel nome per secoli, la tradizione era continuata, nascosta dietro l'attività di una coltivazione di erbe curative, ai margini della zona alberata.

Sei secoli dopo, nel 1878 era stata fondata l'Opera Pia di Confluentia, con una cospicua donazione da parte del vecchio conte Ludovico Orsini, malato da anni e che infatti morì poco tempo dopo l'inaugurazione lasciando comunque un cospicuo ulteriore donativo nel testamento, per migliorare l'accesso all'erboristeria adiacente, gestita sempre dalle volenterose "anziane signore".
Tutto questo era stato accolto favorevolmente sia dalle autorità che dalla popolazione locale della Contea.
Per Ludovico Orsini di Casemurate e per suo figlio e successore, il conte Ippolito (1847-1909), quest'Opera Pia era giustamente motivo di orgoglio.

Questo è quanto si legge nelle celeberrime "Istorie casemuratensi" di Clara Torricelli, vedova Ricci, (1890-1984), suocera di Diana Orsini Paulucci, diciottesima Contessa di Casemurate (1913-2011).

In realtà Clara Torricelli sapeva molte più cose sull'argomento, e proprio per questo non era scesa nel dettagli su questioni che, secondo lei, era meglio non sapere, se si voleva continuare a dormire sonni tranquilli.

Ne aveva parlato molto, però, con sua nuora, quando aveva sentito avvicinarsi la fine:
<<C'è qualcosa qui... qualcosa che non è del tutto reale, ma è decisamente vero. Capisci cosa intendo dire?>> 
Diana capiva fin troppo bene:
<<Me ne sono resa conto gradualmente. Di base sono una persona scettica e non è per niente facile convincermi che qualcosa sia vero o falso. Però ho una buona memoria, specialmente per i dettagli, e quando questi dettagli incominciano a diventare ricorrenti, non posso fare a meno di chiedermi il perché. Quando una cosa estremamente improbabile succede una volta, è puro caso. Quando succede due volte, è una "singolare coincidenza". Ma dalla terza volta in avanti, allora incomincio a pormi delle domande.
Il problema è che non sono sicura di voler conoscere le risposte, perché so già che, dopo, nulla sarà più come prima>>
Clara aveva detto il suo parere:
<<Alla fine Dio ci salverà da questo male>>
Diana aveva risposto:
<<Lo diceva anche mia madre, ogni volta che uno dei suoi figli si ammalava o era in pericolo. Pregava dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, senza sosta.
Ma di sei figli, i quattro migliori, i più innocenti, sono morti atrocemente, tra sofferenze indicibili.
Per questo non riesco più a pronunciare il Credo di Nicea. 
Ho visto troppo dolore inflitto a persone completamente innocenti, dolore atroce, dolore gratuito, privo di ogni aspetto di redenzione, perché non c'era proprio niente da redimere.
Per questo non credo che bontà e onnipotenza possano coesistere in un unico Demiurgo. 
La mia fede è di tipo diteista: ci sono due divinità, una buona e una malvagia.
Dio è il Principio del Bene e Satana è il Principio del Male. Hanno eguale potere e si combattono dall'eternità. Io credo nel Dio buono, ma non onnipotente. Rivolgo a lui e ai suoi angeli le mie preghiere della sera. E questo è tutto: io non so nient'altro>>
Clara avrebbe voluto limitarsi ad annuire senza aggiungere altro, ma i tempi erano maturi per un discorso che aveva rimandato troppo a lungo.
<<E' tempo che tu sappia il resto, mia povera Diana. Cose che non ho avuto il coraggio di dirti perché non volevo infliggerti ulteriore sofferenza. Ma non mi resta molto tempo e quindi è giunto il momento. Ho scritto tutto in un diario, in molti volumi, e corredato di prove di ogni genere raccolte nell'arco di una vita intera. Ci sono cose che riguardano anche le mie figlie; tanto da farmi pensare che a Emilia sia toccata una sorte migliore. E' tutto raccolto nel mio baule, compreso ciò che solo tuo padre era autorizzato a dirti, ma non ebbe il tempo e la forza per farlo, anche perché Michele Braghiri accelerò l'aggravarsi della sua malattia>>

Clara le aveva dato le chiavi del famoso baule, e Diana, dopo un giorno intero di dubbi, decise di aprirlo, e fu come aver spalancato il vaso di Pandora.
La cosa che più la colpì fu un documento che portava la firma e il sigillo del suo bisnonno Ludovico Orsini e di una certa signora Liliana Bergantini, nata a Villa Inferno nel 1850.
Nella mente di Diana era affiorato un ricordo d'infanzia, una donna alta, che arrivava con un calesse scoperto trainato da due cavalli neri come demoni infernali, ma non si chiamava Liliana, il suo nome era Luisa, ed era la figlia di questa Liliana e madre delle cinque sorelle...
Nelle firme in calce c'era qualcosa che non tornava: le date, i nomi, i luoghi, i legami... era tutto sbagliato, a meno che...
Lesse il documento e non credette ai propri occhi. Lo rilesse con attenzione e si rese conto che quel testo spiegava molte cose che fino ad allora erano rimaste avvolte nel mistero.
Era un documento che sicuramente era stato tramandato per due generazioni, ma il conte Achille (1883-1956) aveva preferito consegnarlo alla consuocera, tenendo all'oscuro persino Ettore.
Padre, perché non me l'hai detto? Avresti avuto mille occasioni... perché non me l'hai detto?
In quel momento, persino le poche certezze che le erano rimaste incominciarono a vacillare: non sapeva più a chi credere, non sapeva più se credere...

Era il "Naufragio della Speranza", a cui seguì un decennio di glaciazione, prima che lo spirito combattivo di Diana tornasse ad avere la meglio, per salvare dal pericolo i suoi nipoti e tutto ciò che aveva di più caro e sacro.





Per capire cosa Diana trovò, nel 1984, in quel baule lasciatole dalla suocera Clara, accompagneremo i lettori in qualcosa che Roberto l'Iniziato chiamerebbe "tuffo nelle memorie ancestrali", ma che si potrebbe chiamare anche "prequel", in termini cinematografici.

La maestra Torricelli (da Forlì) era una ancora giovane e nubile ventenne, quando le era stato assegnato il suo primo incarico nella scuola elementare di Casemurate, che per lei era un borgo sperduto nel nulla (cosa che, in effetti, è considerata tale anche ai giorni nostri, per chi non è a conoscenza dei Misteri).

La scuola, che è stata demolita alcuni anni fa, si trovava in via Spreti, la strada che collega la Cervese alla Villa Spreti, incrociando la via Serachieda di fronte alla chiesa e al piccolo cimitero dove riposano le spoglie mortali dei Ricci e degli Orsini, nella loro monumentale cappella, sotto la volta nera.
(Roberto ci ha detto: "Le mie ceneri finiranno lì, vicino a quelle dei miei adorati nonni: solo io riuscivo a farli andare d'accordo")
All'epoca in cui Clara Torricelli incominciò le sue ricerche (intorno al 1910 circa), nella scuola c'era una bidella che incuteva timore a tutti, una certa Luisa Bergantini, che risultava nata a Villa Inferno nel 1870. Di lei non si sapeva quasi niente, se non che il marito lavorava per gli Orsini.
Era molto alta e nerboruta, e tutti la chiamavano "la Luisona", cosa a cui lei non dava nessuna importanza. 
Era stata assunta come bidella l'anno precedente, dietro raccomandazione del vecchio conte Ippolito Orsini, deceduto pochi mesi dopo.
Ufficialmente risiedeva nella "Camaraza", un seminterrato negli alloggi del personale di Villa Orsini, con due figlie: Elvira (1883-1983) e Iole (1885-1993), anche se circolava voce che ne avesse delle altre molto più giovani, forse addirittura in età da obbligo scolastico.
La maestra Clara, che sembrava uscita dal Libro Cuore di De Amicis, riteneva che fosse suo dovere verificare se ciò fosse vero, ed inoltre era incuriosita sia da quel tetro maniero neogotico, frutto della follia del defunto conte Ippolito, sia dagli altri misteri che circondavano il Feudo Orsini.
Un giorno si presentò al Maniero all'ora del tè, consegnando al vecchio custode il suo biglietto da visita e pregando di essere ricevuta dalla contessa vedova Vittoria Spreti Orsini e da sua figlia Violetta Orsini de Toschi, moglie del Generale e madre della piccola, seppur già pesante, signorina Mariuccia.
Quello fu il suo primo ingresso nel Salotto Liberty, così arioso e variopinto da contrastare in maniera totale con l'esterno neogotico e le altre stanze, piuttosto cupe.
La contessa vedova Vittoria aveva l'aria della persona che nella vita ha visto e sentito di tutto e che non si sarebbe meravigliata neanche se avesse visto comparire un fantasma.
La figlia Violetta aveva invece l'aspetto triste e rassegnato di un condannato all'ergastolo, mentra la piccola Mariuccia pareva esclusivamente interessata a divorare con avidità qualunque dolcetto riuscisse a scovare.
<<Vostra Signoria>> annunciò il custode/maggiordomo <<ecco la signorina Clara Torricelli>>
La contessa vedova fece cenno al maggiordomo di andarsene, come se ne conoscesse la natura pettegola, e rivolse l'attenzione alla giovane Clara:
<<Mi dispiace tanto per voi, signorina Torricelli. Iniziare la carriera in un posto del genere dev'essere molto avvilente>>
All'inizio lo era stato, in effetti, ma poi, per qualche ragione ignota, lo scoramento aveva lasciato il posto alla curiosità per questo luogo che sembrava quasi medievale.
<<Ho imparato ad apprezzare la magia di questa Contea che sembra vivere sospesa in un mondo...>>
La contessa vedova la interruppe:
<<Avete detto magia? Allora chissà cosa vi hanno raccontato! No, non c'è bisogno di negare, non è colpa vostra. Vedete, ogni volta che arriva qui un forestiero, la gente incomincia subito a tirar fuori tutte le leggende, sia quelle antiche, sia quelle, ahimè, più recenti, come quelle che circolano sulla bidella della scuola, la signora Bergantini. Chissà cosa vi avranno raccontato!
Ma non c'è niente di vero, in certe dicerie, a meno che non siate superstiziosa, ma non credo, siete una persona istruita, non come questa plebaglia ignorante... sì lo so, non dovrei dare giudizi così severi, ma quando si vuole rovinare la reputazione delle persone per bene inventandosi di tutto, io devo reagire. Perché, vedete, signorina, da queste parti la gente ha un brutto vizio: quando non sa, inventa, e questo a volte può essere pericoloso. >>
Clara, di fronte a quel mare di parole, reagì ricordando il detto latino: excusatio non petita, accusatio manfesta.
Se la Contessa Vedova aveva sentito il bisogno di mettere le mani avanti, allora c'era sul serio qualcosa di grosso, dietro al mistero di Luisa Bergantini, del suo fantomatico marito, di cui non si sapeva nemmeno il nome, e delle sue misteriose figlie.
Improvvisamente comparve la Governante di allora, una donna anziana, magra, ma di aspetto sano ed energico.
La contessa Vittoria le disse, con un tono quasi sottomesso:
<<Ah, signora Liliana, se può preparare un tè e dei biscotti allo zenzero per la signorina Clara. 
E mi raccomando, faccia in modo che mia nipote Mariuccia non si mangi tutto: questa bambina è insaziabile>>
Liliana annuì, ma prima di uscire lanciò uno sguardo minaccioso alla contessa vedova, la quale fece un leggero cenno con la testa, come per dire che aveva capito e che non avrebbe rivelato nulla.
Clara ringraziò e disse:
<<Vostra Signoria, la prego di credermi se le dico che non do importanza ai pettegolezzi e alle maldicenze. L'unica cosa che mi interessa è che tutti i bambini di questa Contea ricevano un'adeguata istruzione e vivano in condizioni confortevoli. 
Per questo mi chiedevo se le figlie della signora Bergantini...>>
Vittoria la fermò subito:
<<Elvira ha 17 anni e Iole ne ha 15. Hanno frequentato la scuola a Villa Inferno, vicino alle saline di Cervia. Adesso danno una mano in cucina. Il loro alloggio è stato ristrutturato di recente ed è in ottime condizioni. Tutto qui>>
Clara intuì che non avrebbe cavato un ragno da un buco con domande dirette, per cui tentò un altro approccio:
<<Ne sono felice. Ah, volevo anche chiedere a Vostra Signoria se fosse possibile accedere dal parco di Vila Orsini all'erboristeria che si trova nel vostro possedimento>>
La contessa vedova Vittoria accennò un sorriso ironico:
<<L'accesso preferibile è il viottolo che parte dalla Via Nuova della Caserma e passa sopra il ponte della Torricchia: quella è la zona aperta al pubblico e la strada è molto più breve di quella della nostra "calera". E' come dire calle, in dialetto romagnolo. Quella strada va dal Parco Orsini all'Opera Pia di Confluentia, dove le anziane signore che vivono nell'ospizio si occupano anche dei gatti randagi, che vengono sfamati e curati, proprio con il reddito dell'erboristeria, fu una delle tante opere di generosità di mio suocero, che era un sant'uomo, poveretto...>>
Clara cercò di inserirsi nel tentativo palese della contessa di cambiare discorso:
<<Ah, quindi ci sono i gatti? Io adoro i gatti! Mi piacerebbe tanto poter visitare questo rifugio felino. Sarebbe davvero un grande dono da parte di Vostra Signoria. Le anziane signore immagino avranno piacere di ricevere visite, ogni tanto>>
In quel momento rientrò la governante Liliana con il tè e i biscotti allo zenzero:
<<Se volete, signorina Torricelli, vi posso accompagnare io, ma non oltre un certo punto: il Bosco di Confluentia è molto fitto, pieno di rovi e le viuzze che lo percorrono sono malsicure a causa delle vipere>>
Clara intuì, in quel momento, che questa signora Liliana era una Governante plenipotenziaria che controllava tutta la pars dominica della curtis dei conti Orsini di Casemurate.
A quel punto, si risvegliò dal suo limbo di torpore la contessina Violetta Orsini de Toschi, la moglie del Generale:
<<Potrebbe andare con voi anche il signor Primo Ricci, il nostro fattore: con lui sarete decisamente al sicuro. Ah, dovreste conoscerlo, signorina Clara: è come Heathcliff di Cime Tempestose! Un uomo così affascinante!>>
La contessa vedova la fulminò con lo sguardo:
<<Non dire sciocchezze, Violetta, bada piuttosto a tua figlia che si sta divorando tutti i biscotti!>>

E qui ci permettiamo di usare una tecnica narrativa detta "cliffhanger", concludendo il capitolo ex abrupto e lasciando in sospeso tutti gli interrogativi che saranno chiariti in seguito, per quanto ci siano elementi sufficienti per risolvere, almeno parzialmente, il rebus.