martedì 27 ottobre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 91. "Erano i capei d'oro a l'aura sparsi"


Tra Aurora Visconti e Roberto Monterovere non ci fu, almeno nei primi tempi, il classico "colpo di fulmine" alla Petrarca, e a dire il vero nessuno sa esattamente quando e come ebbe inizio la tormentata vicenda dell'amore devastante che Roberto provò per Aurora, che fu sua compagna di classe dalla prima media fino all'ultimo anno del Liceo.
Per quanto tutti i loro conoscenti, col senno di poi, si siano sbizzarriti nell'inventare ipotesi assurde e situazioni improbabili, nessuno di loro si avvicinò mai, nemmeno lontanamente, alla verità.
Soltanto molti anni dopo, quando Roberto, ormai uomo di mezza età, fece ritorno al "natio borgo selvaggio", ci fu l'occasione per rievocare i vecchi tempi con gli "happy few", i pochi confidenti di antichi data che erano miracolosamente sopravvissuti alle periodiche epurazioni con "damnatio memoriae" con cui l'ultimo dei Monterovere scandiva implacabilmente il passaggio da una fase all'altra della sua vita.
Non che Roberto abbia mai avuto intenzione di rivelare tutto, ma c'era qualcosa che andava detto, perché per troppi anni si era preso lui la colpa di tutto, e questo non era giusto.
Bisognava spiegare il perché di alcune decisioni, e soprattutto di alcune omissioni: il motivo delle cose non dette e non fatte, che fu così gravido di sofferenze.


A costo di apparire sentimentale, Roberto rivelò solo allora che "Mille giorni di te e di me" di Baglioni era stata <<la nostra canzone, mia e di Aurora, non fosse altro perché lei me la fece ascoltare almeno un milione di volte, non immaginando che io avrei preso quelle parole così sul serio>>.
In particolare una strofa della canzone fu applicata alla lettera, quando lui decise di fare dolorosissimo passo indietro, per il bene di lei:

"Non ti lasciai un motivo né una colpa
Ti ho fatto male per non farlo alla tua vita
Tu eri in piedi contro il cielo e io così
Dolente mi levai, imputato alzatevi!"

Ma per capire come si arrivò a quella fine, bisogna raccontare le cose fin dall'inizio, almeno quelle che col tempo trapelarono, tanto che solo allora parve chiaro che Roberto aveva raggiunto, in conclusione, la condizione petrarchesca e ne aveva compreso le conseguenze:

 "Ma ben veggio or sì come al popol tutto favola fui gran tempo, onde sovente di me medesmo meco mi vergogno"

E in effetti Aurora aveva molto della Laura petrarchesca, compresi i "capei d'oro a l'aura sparsi".
Tutti concordano nel dire che Aurora aveva la classica bellezza angelica : capelli biondi, occhi azzurri, lineamenti dolci e nel contempo raffinati, corpo longilineo e quasi etereo, voce flautata, portamento armonioso e abbigliamento da "brava ragazza acqua e sapone" con qualche dettaglio di gran classe.


Ma non era solo una questione di aspetto fisico!
Aurora era intelligente, sensibile, colta, raffinata : si vedeva che la sua istruzione era stata, fino a quel momento, quella tipica di una fille rangée. una"ragazza di buona famiglia".
Ed in effetti la sua famiglia era una tra le più eminenti nella "buona società" forlivese.
I Visconti di Bertinoro erano veramente visconti della località collinare bertinorese, la Beverly Hills della Romagna Centrale e lì possedevano ancora la principesca dimora degli antenati, restaurata a dovere. In mezzo ad una valle dove nasceva il Bevano, che poi, scendendo, arrivava a Casemurate e quindi al Feudo Orsini.
E forse era proprio destino che tra Bertinoro e Casemurate potesse nascere un'alleanza ideale che controllasse l'intera valle del Bevano fino alla sua foce.
Il padre di Aurora, l'illustre Bartolomeo Visconti-Ordelaffi di Bertinoro, aveva sposato infatti Maria Antonietta Tartaglia. Quest'ultima era figlia di Paride Tartaglia, fratello dell'ex ispettore Onofrio Tartaglia, marito di Maria Teresa Ricci, sorella di Ettore Ricci, marito di Diana Orsini.
Paride era inizialmente un benzinaio che però col tempo aveva aperto molti distributori e si era enormemente arricchito.
Strapiove sul bagnato, fu il commento di tutti quando i due rampolli convolarono a nozze.
Meno bene andò alla sorella minore di Maria Antonietta, ossia Maria Carolina, poco bella (sembrava un barbagianni) , che si dovette accontentare di un tarchiato ragioniere di origine che lavorava per i Visconti.
Questi riguardanti le due sorelle Tartaglia sono di estrema importanza ai fini della nostra storia, poiché coinvolsero due personaggi determinanti nella rovina dei Ricci-Orsini prima e dei Monterovere poi.
Il primo è una nostra vecchia conoscenza, ossia l'onnipresente Massimo Braghiri, che aveva corteggiato invano Maria Antonietta, e si era ritrovato invece nel circolo degli amici di Maria Carolina e del marito ragionier Taddeo Porcu.
Ed è proprio dall'unione del suddetto Porcu con Maria Carolina Tartaglia che nacque il secondo acerrimo di Roberto Monterovere, e cioè il coetaneo Felice Porcu, un personaggio che Svetonio avrebbe descritto con la formula "omni parte vitae detestabilis" , riservato a Gneo Domizio Enobarbo, il padre naturale di Nerone.
Per quanto incredibile potesse essere la cosa, Felice Porcu era il cugino di primo grado di Aurora Visconti e si comportava, nei confronti di lei, come una specie di cane da guardia, essendo in classe con lei dalle elementari al Liceo.
Nella logica dei "gruppetti" all'interno delle medie, Porcu si collocava nella zona mediana, quella di coloro che aspiravano al ruolo di pretoriani del Bullo e alla fine riuscì in qualche modo ad entrare nelle grazie di Martino Aspide, interessato a sua volta alla "principessa Aurora, bella più che mai".
Fu forse la sgradevole presenza di Felice Porcu e di Martino Aspide nell'orbita di Aurora Visconti ciò che inizialmente convinse Roberto a tenersi alla larga da lei, arrivando persino a rifiutare un invito alla sua festa di compleanno.
Questo gran rifiuto fu causa di un "incidente diplomatico" che coinvolse tutta la ragnatela di parentele e affinità che necessiterebbe di vari alberi genealogici per essere ben chiarita al lettore.
La madre di Aurora, Maria Antonietta Visconti, telefonò a Silvia Monterovere ed espresse la sua delusione: <<Mi dispiace che tuo figlio non sia venuto>>
Silvia Monterovere, che non sapeva nemmeno dell'esistenza di quella dannata festa di compleanno, cadde dalle nuvole: <<Io non sapevo niente dell'invito. Forse lui si è dimenticato, sai com'è, ha sempre la le nuvole>>
<<Ah, allora la prossima volta vi mando un invito scritto, puoi venire anche tu, è tanto tempo che non ci vediamo>>
Silvia interruppe quel profluvio di parole senza senso:
<<Volentieri, Maria Antonietta>>
La signora Visconti non aspettava altro:
<<Mi chiedo se per caso Roberto non sia venuto perché il cugino di Aurora è amico di quel Martino Aspide, il bullo...>>
Silvia Monterovere non era molto informata, perché all'epoca Roberto non si confidava con nessuno:
<<Può essere. Con me non ha detto niente, però. E se io gli faccio delle domande, lui si chiude a riccio>>
Maria Antonietta Visconti, nata Tartaglia, interpretò quella risposta come se fosse un messaggio in codice o addirittura un ultimatum:
<<Ma sì, l'avevo detto con Maria Carolina che tenesse suo figlio alla larga da quell'Aspide, che oltretutto è un mezzo teppista, figlio di un ubriacone che lavora alla Cantina Sociale. 
Avrei dovuto capirlo subito...>>
Silvia era confusa:
<<E' un'età difficile per i ragazzi. A volte non so cosa fare, cosa dire, cosa pensare...>>
La viscontessa era d'accordo:
<<Ai nostri tempi era più facile. C'erano delle regole ben precise, dei codici di comportamento... ti ricordi com'eravamo quando andavamo a ballare a Pievequinta?>>
Silvia confermò e per un po' entrambe si abbandonarono ai ricordi.
Poi, dopo alcuni convenevoli, si salutarono.
Silvia si rese conto di un dato di fatto inquietante.
"Non riesco a liberarmi del passato. Più cerco di fuggire e più m'insegue. E temo che sarà mio figlio a pagare questo prezzo più di tutti gli altri. La cosa sta già accadendo, e lo colpirà proprio dove è più indifeso: negli affetti familiari, nelle amicizie e nell'amore"
Si ricordò di una canzone in inglese, una specie di inno patriottico risalente alla prima età elisabettiana e poi rispolverato durante l'ultima guerra.
"She stands and goes alone, ally nor friends has she, old England stands alone" 
Forse era questo il destino che attendeva la sua famiglia, e ogni suo componente, soprattutto il più giovane?
Alla fine decise soltanto di chiedergli perché non era andato alla festa di Aurora.
Roberto fu sincero:
<<Aurora si circonda delle persone sbagliate. Spero che un giorno se ne renda conto. Fino ad allora io preferisco stare alla larga>>
Sua madre era preoccupata:
<<La vita è piena di persone "sbagliate". Non puoi fuggire in eterno: a volte un po' di diplomazia può evitarci molte spiacevoli conseguenze>>
Lui la guardò con un'espressione incredibilmente matura per la sua giovane età:
<<Me ne rendo conto. Ma in questo caso sento che è meglio mantenere le distanze. C'è un legame malsano tra Aurora e suo cugino, e non ne verrà fuori niente di buono>>
Col senno di poi, possiamo dire che aveva ragione e che, se avesse mantenuto con fermezza quel proposito, gran parte dei suoi guai sarebbe potuta essere evitata.
Ma quando ci si innamora, la saggezza si disperde.
Succede così negli affari di cuore: la ragione cerca di frenarlo, ma lui fa quel che vuole.





 



giovedì 22 ottobre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 90. Il Bullo, i gruppetti, le ragazze e il Triangolo delle Bermuda


Nell'autunno del 1986, Roberto Monterovere incominciò le scuole medie e fu subito una doccia fredda, per non dire gelida.
La maggior parte dei compagni di classe provenivano da altre scuole elementari e dunque lui non conosceva quasi nessuno, a parte poche persone che comunque avrebbero avuto un grande rilievo negli anni seguenti.
Ma prima di parlare di questi personaggi, è bene mettere in chiaro che tipo di "clima" si respirava in quella classe.
All'epoca il termine "bullismo" era poco diffuso, anche se fu chiaro fin dall'inizio chi era il bulletto e quali erano i suoi complici.


Martino Aspide, il bullo della 1° E era un prepotente e il suo atteggiamento era arrogante, presuntuoso e strafottente: si divertiva moltissimo a umiliare tutti coloro che non gli andavano a genio, prendendoli in giro in maniera costante e persecutoria.
La cosa incredibile era che gli altri non solo lo lasciavano fare, ma provavano una certa ammirazione nei suoi confronti. 
Roberto non riusciva a capire come fosse possibile che un simile personaggio potesse comportarsi in quel modo senza che nessuno si ribellasse.
All'inizio il giovane Monterovere aveva cercato di sondare il terreno per vedere se era possibile creare una maggioranza che si opponesse al gruppetto di Aspide e dei suoi fedelissimi, ma quasi tutti avevano paura di farselo nemico.
La cosa si sarebbe anche potuta comprendere se Aspide fosse stato un violento a livello fisico, ma non essendo questo il caso, l'omertà generale che gli permetteva di esercitare la sua leadership bullistica era in gran parte fondata sul fatto che tutti cercavano di farselo amico.
Perché accadeva questo?
La domanda tormentava Roberto.
Molto dipendeva dalla composizione di quella classe "pollaio": un'accozzaglia di trenta alunni che si era subito frammentata in gruppetti omogenei, reciprocamente diffidenti, ma soprattutto già stratificati secondo una gerarchia di caste che andava, dal basso verso l'altro, dal "Club degli sfigati" al "Circolo dei Fighi".


Il gruppetto a cui apparteneva Roberto era intermedio, e per essere sinceri, l'unico motivo perché lui e i suoi amici non erano precipitati nel "Club degli Sfigati" stava nel fatto che ognuno di loro poteva contare su una famiglia potente alle spalle e su numerosi appoggi all'interno del corpo insegnante.
Per esempio, l'insegnante di italiano era Anna De Gubernatis, moglie del Sommo Poeta Adriano Trombatore e cugina di primo grado di Silvia Ricci-Orsini.
A differenza di sua sorella Elisabetta, moglie di Massimo Braghiri, la professoressa Anna Trombatore era in ottimi rapporti con i Monterovere e stravedeva per Roberto.
Il secondo componente del gruppetto era Ludovico Corzani, figlio di un illustre ingegnere (dirigente del Rotary Club) e di una brillante pittrice, entrambi frequentatori assidui del salotto di Silvia Monterovere. Ludovico era simpatico, ma molto suscettibile e se si convinceva che qualcuno lo prendesse in giro per via dei capelli rossastri arruffati, non esitava a passare "alle vie di fatto", e nel menare fendenti era un asso. 


L'amicizia di Ludovico, che fu suo compagno di banco sia alle medie che al liceo, garantiva a Roberto un valido appoggio e una protezione efficace contro i tipi maneschi.
Ma nel gruppo vi era anche un terzo componente, Daniele Destri, un biondino esile e riccioluto, figlio di un alto funzionario statale e della professoressa di educazione fisica, che in gioventù era stata in collegio con Silvia Ricci-Orsini. Daniele era un ragazzo oggettivamente effeminato, che nutriva nei confronti di Roberto un'adorazione che suscitava l'ilarità e le maldicenze dei bulli.



La cosa suscitò sorpresa e sgomento nel giovane Monterovere, che era arrivato all'età di 11 anni senza sapere, né sospettare, né mai lontanamente immaginare l'esistenza stessa degli omosessuali.
Fino a quel momento le sue conoscenze in materia di educazione sessuale erano quasi zero, e quelle poche derivavano dal fatto che in campagna aveva visto gli accoppiamenti dei galli con le galline e aveva ipotizzato che qualcosa di altrettanto bestiale accadesse agli umani quando volevano generare un figlio.
Al contrario l'amore, per come lo percepiva Roberto, era avvolto in un'aura di sacralità quasi stilnovistica, per cui le compagne di classe nei confronti delle quali, alla fine delle elementari, aveva provato i suoi primi innamoramenti, erano come angeli irraggiungibili, di fronte a cui si doveva abbassare rispettosamente lo sguardo, e dunque esse non potevano nemmeno immaginare i sentimenti del loro dantesco ammiratore.



Nella classe 1° E , a destare subito l'attenzione di Roberto fu una certa Aurora Visconti, molto bella, intelligente e raffinata, di cui peraltro conosceva alcuni familiari materni: la madre di Aurora era infatti una parente acquisita di Maria Teresa Ricci, una delle sorelle di Ettore.
Questo dettaglio si rivelerà molto importante in seguito, e dunque ci ritorneremo più avanti. Per ora basti pensare che Roberto, per timidezza e senso di inadeguatezza, nascondeva così bene il suo sentimento per Aurora, da apparire del tutto disinteressato nei confronti delle ragazze.


Tutto ciò non fece altro che alimentare le prese in giro di Martino Aspide, che si avvaleva di una terminologia brutalmente volgare che pose fine in maniera sudicia e rivoltante all'ingenuità gentile di un'infanzia che al giorno d'oggi, nell'era di internet, sarebbe del tutto inimmaginabile.
La reazione di Roberto e di Daniele fu quella di riferire il tutto ai genitori, i quali a loro volta fecero presente la questione a chi di dovere per far rispettare la disciplina.
Diversa fu invece la reazione di Ludovico, che aspettò Martino Aspide sotto casa e lo prese a pugni.
Questa duplice rappresaglia conferì una certa rispettabilità al trio Corzani, Destri e Monterovere, che venne soprannominato "il Triangolo delle Bermuda", in relazione alle innumerevoli calamità che accadevano a chi si inoltrava a navigare all'interno del triangolo stesso.


giovedì 15 ottobre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 89. Scacco al Re


La Procura di Forlì non tardò a seguire l'esempio di quella di Ravenna e sguinzagliò la Guardia di Finanza a controllare tutte le attività commerciali riconducibili ad Ettore Ricci.
Furono sequestrati tutti i bilanci che il defunto Michele Braghiri aveva sistematicamente redatto con "eccessiva creatività".
 Ne emerse un primo procedimento per "evasione fiscale".
Poi incominciarono gli interrogatori di tutti i pubblici ufficiali legati in qualche modo al clan Ricci-Orsini.
Nonostante questi ultimi avessero dichiarato di aver soltanto accettato qualche cesto di Natale con salumi e formaggi, qualche bottiglia di vino e ogni tanto un cartoccio con delle uova, un pollo o un coniglio, ci si accorse che il loro tenore di vita era eccessivo rispetto al misero stipendio che percepivano.
E così fu aperto un secondo fascicolo, sempre a carico di Ettore Ricci, per concussione.
Il terzo fascicolo riguardò invece l'accusa di utilizzo di lavoratori "in nero", non denunciati all'Inps.
Seguì poi una miriade di accuse minori, riguardanti l'abuso edilizio e il mancato rispetto di regole di tutela ambientale e paesaggistica.
Una di queste accuse era talmente dettagliata da risultare tragicamente ridicola.
Si segnalava infatti la presenza non dichiarata al catasto di un "bacino di deposito di deiezioni fisiche prodotte da adiacente struttura per allevamento di pollame".
Tradotto dal burocratese ci si riferiva, di fatto, ad un vero e proprio lago di merda (ci si perdoni il "francesismo") vicino ad un enorme pollaio.
E a quel punto, accadde l'inevitabile.
Il Giudice per le Indagini Preliminari confermò la richiesta della Procura, ossia l'ordine degli arresti domiciliari per Ettore Ricci.
La reazione di Ettore a tutto questo fu tipica rispetto a quanto sarebbe accaduto, pochi anni dopo nelle inchieste di Mani Pulite e nello scandalo di Tangentopoli, per quanto, ci sia concesso almeno questa difesa, l'entità delle colpe dei politici fosse molto superiore a quella degli imprenditori.
<<Ha fatto tutto Michele Braghiri, io non ne sapevo niente! E poi non capisco perché se la prendono con me, quando so che ci sono altri che hanno fatto molto peggio!>>
A rispondergli a tono fu Enrichetta Monterovere: <<Lo fanno perché lei è di destra, non l'ha ancora capito? Anni fa io le avevo consigliato di iscriversi al Partito Comunista, come abbiamo fatto noi Monterovere sin dall'inizio, e nel caso di mio nonno Enrico si trattò addirittura di un'adesione ideale. Mio padre si è visto aprire tutti i Salotti Buoni di Faenza, Forlì e Ravenna. Oltre tutto lei ha una figlia sposata ad un intellettuale di sinistra del calibro di mio fratello Francesco: sarebbe bastato farsi vedere ogni tanto nel suo Salotto Buono e nessuno avrebbe mai osato sfiorarla>>
Ettore non poté negare che il discorso di Enrichetta poggiava su presupposti non arbitrari.
<<Può anche darsi che le Procure e i Tribunali, specie in una Regione Rossa come l'Emilia-Romagna, siano stati presi d'assalto dai post-sessantottini, ma io sono certo che in Appello o in Cassazione ci sia ancora la vecchia guardia democristiana>>
Enrichetta sorrise:
<<Per il momento. Ma non ci conterei troppo, signor Ricci. Sarà meglio che si trovi un buon avvocato, meglio se di sinistra>>
Ettore sgranò gli occhi:
<<Ma esistono, secondo lei, avvocati di sinistra?>>
La Monterovere annuì:
<<Il mio defunto zio Umberto lo era. E così tutti gli avvocati del suo studio, tra cui i suoi figli. Ma lavorano solo come collaboratori esterni dell'Azienda Fratelli Monterovere. In ogni caso mi rendo conto che a Forlì gli avvocati sono solo missini o democristiani di destra, nel qual caso non sarà facile per lei avere un buon rapporto con il Tribunale>>
Ettore si sentì con le spalle al muro:
<<Finirò in galera?>>
Enrichetta scosse il capo:
<<Non credo. La giustizia in Italia è molto lenta e i reati vanno in prescrizione. E poi lei è anziano. Se saprà giocare bene le sue carte se la caverà. Ma il suo impero economico potrebbe comunque subire danni, se la gestione fosse commissariata. Anche qui, tutto dipende dall'avvocato che sceglierà>>
Ettore si rabbuiò ulteriormente:
<<Quelli più quotati hanno rifiutato di difendermi, e non perché mi ritengano colpevole, ma perché mi sono inimicato i loro clienti più illustri e potenti, oppure i loro protettori politici, e così alla fine mi sono dovuto rivolgere allo studio Calderisi, Orbace, Rodagni e Vanesio. 
Il vecchio Calderisi, fervente cattolico e democristiano doc, ha ottantasette anni e ormai si dedica quasi completamente all'esegesi del Libro del Profeta Ezechiele e crede che la Fine dei Giorni sia imminente. Forse quella dei suoi giorni lo è sul serio. 
E incomincio a pensare che anche il mio tempo sia finito, ma non è finito il mio impegno in difesa di tutto ciò che ho edificato in mezzo secolo di duro lavoro>>
Enrichetta annuì, più che altro per educazione:
<<E gli altri avvocati dello studio, come sono?>>
Ettore Ricci sollevò gli occhi al cielo:
<<Non valgono la corda per impiccarli, dico io, ma secondo i miei soci hanno importanti agganci in Tribunale. Orbace è il classico fascistone di Predappio, Rodagni è un aristocratico liberale che va a cavallo ed è iscritto alla Massoneria e poi c'è Marco Tullio Vanesio, un repubblicano che crede di essere Cicerone redivivo ed è sicuramente un personaggio piuttosto bizzarro, su cui si potrebbe scrivere un romanzo, o almeno un capitolo tragicomico>>
La Monterovere capì l'antifona:
<<In primo grado perderete di sicuro. In secondo grado la condanna sarà ridotta al minimo e in Cassazione lei sarà assolto, e le auguro di vivere così a lungo da vedersi scagionato da tutte le accuse>>
Ricci scosse il capo:
<<Ah, mi fa un bel coraggio. Comunque non credo che arriverò fino alla Cassazione. Ho settantacinque anni, sono agli arresti domiciliari, anche se la notizia non è trapelata, e incomincio a sentirmi braccato. E' partita la caccia al cinghiale e i miei nemici non si fermeranno finché non mi vedranno in ginocchio, sul lastrico, a implorare un tozzo di pane per la mia famiglia.
Ma giuro su tutto ciò che ho di più caro che io non darò mai a nessuno questa soddisfazione!
Se questa è la mia fine, sarà allora una "Grande Fine", degna di essere cantata per generazioni e generazioni!>>


mercoledì 7 ottobre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 88. Una realtà più grande


<<Sono in arrivo tempi duri, e avremo bisogno delle voci di scrittori capaci di vedere alternative al modo in cui viviamo ora; capaci di vedere, al di là di una società stretta dalla paura e dall'ossessione tecnologica, altri modi di essere, e immaginare persino nuove basi per la speranza. Abbiamo bisogno di scrittori che si ricordino la libertà. Poeti, visionari, realisti di una realtà più grande>>
Queste furono le parole pronunciate da Ursula K. Le Guin, nel suo ultimo e memorabile discorso al National Book Award di New York, nel ricevere il prestigioso premio alla carriera letteraria.
Fu la consacrazione di una forma di narrativa per troppo tempo discriminata e fraintesa, e cioè quella che può rientrare nei due generi del fantasy e della fantascienza.
L'accusa rivolta a tali generi dalla critica e dai lettori prevenuti è che questa letteratura lasci troppo spazio all'invenzione, a discapito della realtà e del realismo. Questo può forse valere se il romanzo non è di buona qualità, ma "tutti i buoni libri sono simili nel fatto che sono più veri di quanto avrebbe potuto essere la realtà", come sosteneva Ernest Hemingway, cogliendo un aspetto creativo essenziale della magia intrinseca alla letteratura e alle grandi narrazioni.
Chi ama leggere romanzi o poemi ha scoperto questo aspetto nel momento in cui ha incontrato il libro che lo ha fatto innamorate della lettura e ha inciso più profondamente nella sua vita e nella sua visione del mondo.
Per Roberto Monterovere questo incontro avvenne nell'autunno del 1985 e gli tenne compagnia fino alla primavera del 1986: si trattava di uno dei romanzi più "visionari", creativi, colossali, ambiziosi ed onnicomprensivi della letteratura inglese contemporanea, ossia Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, anche se all'epoca la critica, specie quella italiana, non si era resa conto della profondità culturale e della portata rivoluzionaria di quell'opera.
Non è questa la sede per spiegare la ragione per cui il Professore di Oxford riuscì a trasformare le sue immense conoscenze filologiche, linguistiche, letterarie, storiche, mitologiche, araldiche e naturalistiche in un' "opera mondo" che ha entusiasmato intere generazioni.
Qui ci limiteremo a raccontare perché, a soli dieci anni, Roberto Monterovere decise di immergersi completamente nella lettura di un testo di oltre 1300 pagine, (comprese le appendici cartografiche, cronologiche, genealogiche e lessicali) trovando in esso tutto ciò di cui in quel momento aveva bisogno per salvarsi da una crisi che altrimenti avrebbe potuto spazzare via tutta la felicità della sua infanzia.
Va detto, innanzitutto, che le prime cose che erano balzate all'occhio di Roberto quando suo padre gli aveva regalato il libro, in occasione del suo decimo compleanno, erano state la mappa e gli alberi genealogici.
E quando poi vide che in quel romanzo c'era una Contea, quella degli Hobbit, che sotto molti aspetti gli ricordava la Contea di Casemurate, gli parve di aver riconosciuto un segno del destino.
Roberto andava pazzo per le rappresentazioni cartografiche di ogni genere: all'origine di questa passione c'erano stati il Canale Emiliano Romagnolo, da un lato, e il torrente Bevano dall'altro.
Il primo era in parte una realizzazione della sua famiglia paterna, e lui stesso aveva ereditato la passione per l'idraulica dal compianto ingegner Lanni, il padre della sua nonna paterna.
Il Bevano, invece, era il fiumiciattolo che raccoglieva spontaneamente le acque di tutti i torrentelli e i fossati della Contea di Casemurate e dintorni, ed era pertanto amato e quasi venerato dalla nonna materna Diana e dalla bisnonna Emilia, che ogni giorno cercava di trascinare le sue vecchie ossa da novantaseienne fino alle rive dell'amato corso d'acqua.
I primi disegni di Roberto, oltre a quelli che rappresentavano gli animali e le piante, furono, con grande stupore di tutti, delle mappe che cercavano di stabilire il tracciato di tutti i corsi d'acqua che solcavano il Feudo Orsini, sia quelli naturali legati al Bevano, sia quelli artificiali legati al Canale Emiliano Romagnolo.
Tutti i parenti erano ammirati da questa precoce capacità e furono ancora più colpiti dal fatto che ben presto quelle mappe incominciarono a comprendere anche i tracciati di tutti i sentieri e le strade, le indicazioni dei toponimi, i disegni dei centri abitati o dei boschetti che ancora punteggiavano quella dolce campagna.
In quella prima forma di creatività visiva c'erano state varie fasi: quella dei fiumi, quella delle strade e degli atlanti, fino ad arrivare a disegnare persino le piantine di ogni appartamento in cui andava.
Il nonno Romano Monterovere, di solito totalmente disinteressato a qualsiasi cosa facesse il nipote, arrivò persino a ventilare l'ipotesi che Roberto potesse diventare un ingegnere e prendere il posto del venerato bisnonno Lanni.
Ma non aveva tenuto conto dell'altra influenza determinante, e cioè quella della nonna Diana e della bisnonna Emilia riguardo alla gloriosa storia degli Orsini di Casemurate, fatta di cavalieri, castelli, alberi genealogici, cronologie e biografie dei vari Conti che si erano succeduti dal 1278 in avanti, quando papa Niccolò III Orsini aveva mandato i suoi due nipoti Bertoldo e Bernardo alla conquista delle Romagne.
E c'era anche da tener conto di un particolare apparentemente frivolo, ma in realtà molto fecondo, per quel che riguardò gli interessi storici futuri di Roberto, ossia il fatto che, nelle riviste mondane che la nonna e la bisnonna leggevano nel Salotto Liberty, c'era tutta la cronistoria della Famiglia Reale Inglese, con i cappellini della Regina Madre, i cani di Elisabetta II, le gaffe del principe Filippo e i burrascosi matrimoni dei Principi del Sangue.
La bisnonna Emilia, che aveva una straordinaria somiglianza con la Regina Madre Elizabeth Bowes-Lyon, si accalorava a spiegare al pronipote, come se da queste informazioni fosse dipesa la sua salvezza, le origini del cognome Windsor e gli alberi genealogici che erano confluiti in quella famiglia: i Sassonia-Coburgo-Gotha, gli Hannover, gli Stuart, i Tudor, i Plantageneti, i Normanni, gli anglosassoni del Wessex e via dicendo.
Ma su quelle riviste erano anche raccontate, con pathos fiabesco, le vicissitudini dei Principi di Monaco, o quelle dei Savoia esuli, con la Regina di Maggio, Maria José, nel magnifico sfondo svizzero della sua residenza di Merlinge.
Tutti questi elementi si erano stratificati nella memoria e nella fantasia di Roberto per poi risvegliarsi immediatamente quando sfogliò, per la prima volta, Il Signore degli Anelli.
Certo, c'era già stata La Storia Infinita a preparare il terreno, e prima ancora c'erano state tutte le fiabe tradizionali, ambientate in una specie di Medioevo idealizzato, specie quelle rivisitate in chiave disneyana, ma il romanzo di Tolkien era infinitamente di più di tutto questo.
In fondo, il libro fagocitava la realtà e la rendeva più vera del vero.
Più la Contea di Casemurate si indeboliva a causa dei problemi giudiziari di Ettore Ricci, che avevano inferto un durissimo colpo a quello che era stato fino ad allora l'inviolato Paradiso Terrestre del giovane Monterovere, più la Contea degli Hobbit incominciava a farne ne veci, nell'immaginazione, nelle ore perdute nei solai di Villa Orsini, mentre tutto franava intorno.


Ma poiché tutti i bei sogni hanno una fine, anche il romanzo di Tolkien, a un certo punto, terminò, e per Roberto fu come morire.
Pianse, e non solo perché si trattava di un finale commovente o perché, come suggeriva lo stesso autore "non tutte le lacrime sono un male", ma anche e soprattutto, perché gli veniva a mancare il suo mondo alternativo in cui rifugiarsi, e improvvisamente la sua vita reale gli parve piccola, meschina, inutile, prosaica e soprattutto fragile e vulnerabile.
Si era forse perduto per sempre in una dimensione alternativa, sacrificando la vita reale?
Ma erano sempre le parole di Tolkien a rassicurarlo: "Non tutti coloro che vagano si sono perduti",
che in inglese aveva un suono ancora più evocativo:
Not all who wander are lost.
Quelle parole erano destinate ad accompagnare Roberto per tutta la vita, una vita che, tra i 20 e i 40 anni, fu quella di un Ramingo, salvo poi tornare al punto di partenza e vedere chiaramente che nulla era perduto, fintanto che la mente poteva conservarne il ricordo e rievocarne la bellezza e la bontà.
"Neanche la sconfitta finale trasforma ciò che è giusto in qualcosa di sbagliato" aveva sostenuto il Professore di Oxford in una delle sue conferenze più appassionate, ricordando a tutti, in un mondo in cui l'economia stava diventando l'unico parametro di giudizio, la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è utile. 
A dieci anni, Roberto Monterovere ne aveva preso consapevolezza proprio grazie alle scelte coraggiose dei personaggi del romanzo del Professore, ma soltanto quando divenne un uomo di mezza età, disilluso e disgustato da tutto, realizzò pienamente quanto quelle parole potessero riscattare la sua vita da quello che soltanto agli occhi di persone superficiali poteva apparire un fallimento.
Là dove la logica utilitaristica poteva decretare un fallimento, la contemplazione e l'etica potevano rilevare una scelta consapevole e filosoficamente giusta.
Forse fu proprio per questa considerazione che alla fine, nel voltarsi indietro "alla ricerca del tempo perduto", Roberto si rese conto che la propria vocazione contemplativa e la propria rettitudine erano ciò che lo aveva in qualche modo innalzato al di sopra di quei roboanti antenati che lo osservavano con piglio autoritario dai ritratti di famiglia.
Alla loro Contea agonizzante egli opponeva una Contea eterna.


E questo l'aveva appreso da un romanzo che per anni la critica aveva snobbato come "evasione dalla realtà".
Ma Tolkien si era difeso anche da questo con la consueta perspicacia, smascherando la pusillanimità di certi critici con una delle sue frasi più famose:
 <<Non solo essi confondono l’evasione del prigioniero con la fuga del disertore, ma sembrerebbero preferire l’acquiescenza del collaborazionista alla resistenza del patriota>>
Ecco, il punto era questo, e i suoi lettori, compresi i bambini, avevano appreso questa lezione: non siamo disertori, ma custodi di qualcosa di più grande dell'edonismo vacuo dei nostri tempi.
Non era moralismo, era una rivendicazione di dignità per chi cercava "qualcosa di più", "una realtà più grande".
Roberto intuì solo allora, per la prima volta, che nella lettura e nella scrittura avrebbe potuto ritrovare ciò che la realtà gli stava sottraendo.
Continuò dunque a leggere con grande passione, scoprendo tutti gli altri capolavori del genere fantasy, e poi di tutti gli altri generi letterari.
Certo gli fu d'aiuto il fatto che Tolkien avesse scritto altri libri, alcuni pubblicati in vita, come Lo Hobbit, e altri pubblicati postumi a cura del figlio Christopher, come Il Silmarillion, altro grande capolavoro, e poi tutta la serie de "I racconti incompiuti", "I racconti ritrovati", "I racconti perduti" e, come ebbe a ironizzare Francesco Monterovere, <<I racconti mai scritti>>.
A quel punto Roberto aveva undici anni, aveva concluso la scuola elementare e aveva preso atto anche degli eventi del "macrocosmo", che in quel pazzo 1986 aveva visto, tra le altre cose, il passaggio della cometa di Halley, l'esplosione della centrale nucleare di Chernobyl e quella dello Space Shuttle Challenger e due missili libici lanciati contro Lampedusa come ritorsione, da parte di Gheddafi, di un attacco aereo statunitense su Tripoli.
Ma cos'era tutto questo in confronto all'epica guerra tra il Bene e il Male che si era combattuta nella Terra di Mezzo?
E così per la prima volta Roberto Monterovere si trovò di fronte all'immenso potere della parola come suprema forma di creazione.
Lo disse a nonna Diana e lei, come era nel suo stile, rispose con una citazione, una delle più famose in assoluto: <<In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio>>