martedì 28 settembre 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 161.Tutto l'oro del mondo





L'anziano "patriarca" Romano Monterovere (1907-2003) non rideva mai, ma ogni tanto, pur rimanendo serissimo, se ne usciva con battute ironiche paradossali, a volte sottili, a volte no, che coglievano comunque di sorpresa l'interlocutore, per il fatto di essere pronunciate con la massima solennità, dall'alto del suo metro e novanta.
Non si sapeva mai quale reazione il vecchio preferisse o cercasse di ottenere, perché rimaneva sempre torvo e minaccioso, a prescindere dal tipo di comportamento di colui che cercava, invano, di ottenere la sua benevolenza.
Nel 1992, a 85 anni suonati, era ancora un uomo in grado di incutere timore.
Gli occhi azzurri erano gelidi, il naso era arcigno e bitorzoluto, la testa quasi calva, con intorno una corona di capelli giallastri e la bocca era ridotta a una fessura che aveva conosciuto ben pochi sorrisi.

Eppure l'ironia non gli mancava, quasi sempre unita al sarcasmo, a volte anche pesante: sapeva che una battuta efficace poteva chiarire un concetto meglio di un lungo sermone.
Una volta, al termine di una filippica sull'importanza del risparmio e su come attuarlo, dichiarò a bruciapelo:
<<C'era un libro intitolato: "Come vivere con 15.000 lire al giorno". Costava 30.000 lire>>




Se qualche avventato osava chiedergli a quanto ammontasse il suo patrimonio, Romano si accigliava e rispondeva, sdegnato:
<<Un uomo che è in grado di quantificare il valore del suo patrimonio non può essere considerato un uomo ricco>> e non aggiungeva alcun dettaglio.
Tutti sapevano che lui era molto ricco, ma rimanevano stupefatti dalla sobrietà del suo stile di vita, che pareva quella di un pensionato con la minima.
A chi gli faceva notare che un risparmio così esagerato non era necessario lui replicava, serio:
<<Risparmiare è necessario, vivere no>>
Era una "sententia" derivata dall'adattamento di una famosa frase di Pompeo Magno, riportata da Plutarco, che sua sorella Anita, diplomata al Liceo classico, gli aveva citato per confortarlo in un momento difficile:
"Navigare necesse est, vivere non est necesse", esortazione al coraggio che, sempre secondo Plutarco, Gneo Pompeo, richiamato nella capitale per gravi e improrogabili necessità della Patria, disse ai suoi marinai, i quali, a causa del cattivo tempo, opponevano resistenza a imbarcarsi alla volta di Roma.

In generale, riguardo alla vita, esprimeva un giudizio sotto forma di bilancio:
<<Cos'è la vita? Qualche momento di gioia in qua e in là, e tutto il resto è noia, fatica, sacrificio e dolore. Non ne vale proprio la pena. Il prezzo è troppo alto. L'unico motivo per cui la si sopporta è quello di non dare ai propri nemici la soddisfazione di vederci morire in disgrazia  e la possibilità di sputare sulla nostra tomba>>
In questo, ma soltanto in questo, condivideva il parere della sua illustre consuocera Diana Orsini, e del loro comune nipote.
In seguito cambiò opinione quando si riavvicinò al Cattolicesimo, dopo la morte dell'amatissima moglie.

Romano era stato militare, caporal maggiore nella Guerra d'Abissinia, come ricordammo in un remoto capitolo di questo romanzo, ma aveva operato quasi sempre nelle retrovie e dunque tale esperienza aveva inciso solo nel favorire la sua abitudinarietà e il suo rigore spartano.

Ma lo spirito battagliero, ormai, veniva fuori solo se la contesa riguardava i suoi soldi: in quel caso diventava più furente di Attila.
Allo stesso modo la pensava riguardo alla politica: gli interessava solo se poteva favorire i suoi affari.
Era sempre stato suo fratello Edoardo il politico di famiglia e si era rivelato utilissimo per quel che riguardava gli appalti, i rapporti privilegiati con gli enti pubblici, la concessione di autorizzazioni e la soluzione di eventuali problemi giudiziari. Edoardo era il segretario regionale del partito che all'epoca si chiamava ancora PDS (adesso la S non c'è più e il segretario è un ex-democristiano che si è radicalizzato insegnando non si sa cosa a Parigi).
Quando però non c'era suo fratello in circolazione, Romano condannava tutti i partiti senza distinzione e amava citare una massima universale che, come al solito, gli era stata detta da sua sorella Anita, la quale la attribuiva a Kafka:
"Un cretino è un cretino, due cretini sono due cretini, diecimila cretini sono un partito politico"

Viveva ancora a Faenza, in una casa che si trovava vicino al fiume Lamone e davanti a una piazzetta rotonda, privata, con al centro una fontana e un piccolo canale circolare, unica concessione alle glorie dell'azienda Fratelli Monterovere.
La casa aveva un pianoterra, un primo piano ed un sottotetto con alcuni abbaini. 
Le pareti esterne erano quasi tutte ricoperte dall'edera.




 Non c'era l'ascensore, e Romano ne spiegava il motivo con il consueto sarcasmo:
<<Gente che va su e giù per le scale mobili, negli ascensori, che guida automobili, che ha le porte dei garage che si aprono schiacciando un pulsante. E poi vanno in palestra per smaltire il grasso!>>
A chi osava obiettare che: "Per chi è malato o anziano l'ascensore non è un lusso, ma una necessità", lui replicava: <<E' vero, in questo caso starò nell'appartamento al piano terra. E grazie tante per l'interessamento!>>.
E lo fece sul serio, alcuni anni dopo.
Questo eccesso di understatement non era solo tirchieria, era anche una strategia fiscale:
<<Dal momento che mia sorella Anita mi fa da prestanome, le sanguisughe della Finanza non devono trovare alcun motivo per credere che io abbia più soldi di quelli che dichiaro>>

Il problema, però, era che Anita, una bionda platinata in età da botulino, stava acquisendo troppo potere e troppa indipendenza, come dimostrava il fatto che ricevesse spesso le visite di Lorenzo, con la ridicola scusa della presunta parentela dei Monterovere coi Montecuccoli, argomento di cui Romano non voleva nemmeno sentir parlare: 
"Non c'è alcuna eredità in ballo, e allora perché perdere tanto tempo e risorse in una simile scempiaggine?".
La verità era che Romano non si fidava più di nessuno, a parte sua figlia Enrichetta, la mastodontica Amministratrice Delegata della Fratelli Monterovere Srl.

Da quando Giulia Lanni, la figlia del cofondatore dell'azienda, l'ingegner Francesco Lanni, detto "Il Profeta delle Acque", era morta prematuramente per aneurisma all'aorta insorto in un quadro di insufficienza cardiaca ereditaria, suo marito Romano era caduto in una spirale depressiva che col tempo si era trasformata in ipocondria e paranoia.
Giulia era stata l'unica donna che lui avesse amato veramente.
Da quando lei non c'era più, Romano non sopportava più le donne, tranne sua madre Eleonora, sua sorella Anita e sua figlia Enrichetta: tutte le altre, ai suoi occhi, erano donnacce.
Era diventato ferocemente maschilista:
<<Perché il cervello delle donne è piccolo? Perché l'hanno gonfiato!>>
Era diventato intollerante e per questo perché, oltre alla motivata paura per i ladri, i rapitori e i terroristi, erano insorte altre fobie che all'epoca erano molto più di diffuse di adesso: xenofobia e omofobia in primis.
Faceva vigilare la casa da una scorta che il Comune, dietro insistenza di Edoardo, gli aveva fornito a spese dei contribuenti.
Nonostante questo, le sue paure e le sue ire non si erano placate, specie per chi osava rimanere sveglio o addirittura uscire dopo le 9 di sera, quando Romano andava a dormire.
<<Chi è che va in giro di notte?>> e si dava la risposta in dialetto <<gl'imbarieg, i leidar, i zengan, i nigar, al puteni e i fnoc>>
Crediamo che non ci sia bisogno di traduzione.
Oppure se ne usciva con quesiti in apparenza generali, ma poi mirati ad personam:
<<Come mai la maggioranza delle donne crede nell'oroscopo, mentre i maschi ci ridono sopra? Perché i maschi hanno più cervello, tranne mio figlio Lorenzo, ammesso che sia un maschio>>
Nutriva dubbi sulle preferenze sessuali di Lorenzo, (e certo il fatto che quest'ultimo si vestisse di viola non era d'aiuto) e sentiva quindi, come padre, di avere il diritto, anzi, il dovere, di manifestare il suo dissenso chiamandolo con epiteti non certo edificanti, tipo: "Il cavaliere del Santo Deretano".

La sua spietatezza verso il terzogenito era ricambiata da un disprezzo assoluto da parte di quest'ultimo.
L'ultima volta che Romano aveva parlato con Lorenzo era stato dopo il funerale di Giulia Lanni, il 28 agosto 1976.
Era stata una scenata sconvolgente, sul sagrato della chiesa.
Romano, ancora sconvolto per la morte della moglie, aveva incolpato Lorenzo:
"E' morta di crepacuore per causa tua! Aveva capito che frequentavi gente losca come quel Fernando Albedo!"
E Lorenzo aveva replicato:
"Albedo è un grand'uomo, un filantropo, ma per te la generosità è un concetto incomprensibile. 
E comunque, sappi che la mamma soffriva per il modo in cui mi trattavi, la colpa è tua se il suo cuore si è spezzato!"
Romano, infuriato, aveva urlato il suo anatema più temibile:
<<Come osi dare la colpa a me! Io amavo tua madre più di me stesso! Ma tu che ne sai di queste cose? Sei solo un viscido eunuco, un ragno tessitore che vive di complotti! Io ti rinnego e ti diseredo! Non avrai neanche un centesimo da me!"
E Lorenzo gli aveva risposto con una frase che sarebbe rimasta incisa a lettere di fuoco negli annali della famiglia Monterovere:
<<Tanto meglio! Rifiuterei di essere il tuo erede anche se tu mi lasciassi tutto l'oro del mondo!"

E passò molto tempo.
Durante quel periodo tra il '76 e il '92, Romano aveva attraversato una profonda crisi depressiva che lo aveva portato di fronte al famoso dilemma di Huysmans (che il vecchio non aveva mai sentito nominare, sia ben chiaro) e cioè, secondo la formulazione del critico Barbey D’Aurévilly nella recensione di "À Rebours", scegliere tra spararsi un colpo di pistola o buttarsi ai piedi della Croce.

Romano scelse la Croce, ma per il parroco non fu affatto facile tentare di riportare l'anima del vecchio Monterovere sulla retta via.
L'umore di questo ingombrante parrocchiano era talmente ondivago che passava da momenti di crisi mistica, in cui sembrava pentirsi di tutti i suoi errori, a momenti di immotivata euforia nei quali tornava ad essere quello di un tempo, cinico e sferzante.
Il vero motivo che lo spingeva ad andare sempre a Messa e a confessarsi era la speranza di poter rivedere Giulia in Paradiso, ma Romano era sufficientemente sveglio per capire che, per uno come lui, non sarebbe stato facile e consono al carattere irrequieto nonostante l'età, scampare alle fiamme dell'Inferno.
Ancora non era arrivato alla fase della redenzione: diciamo che si trovava più o meno nelle condizioni di Ebenezer Scrooge subito dopo la morte del socio Jacob Marley, prima di essere visitato dai tre Spiriti del Natale.

Era venuto a sapere che c'era stato un dissapore tra Francesco, il suo primogenito, e Lorenzo.
Glielo aveva riferito la figlia di mezzo, la sua preferita, Enrichetta, che a sua volta l'aveva saputo da Luisa, la moglie di Edoardo, che era ancora in buoni rapporti con Silvia (funziona sempre così, nelle famiglie ramificate dove ci sono, quasi sempre, dissidi e faide interne).
Secondo queste voci, Lorenzo si stava intromettendo nella vita del figlio di Francesco, Roberto, che Romano chiamava, con disprezzo: "Il Principino".







E qui, dopo tanto tempo, Romano si trovava a condividere qualcosa con Francesco, quel figlio primogenito che gli era costato "un occhio della testa" (secondo lui) in rette universitarie.

I rapporti tra i due erano stati altalenanti: dopo il matrimonio di Francesco con Silvia Ricci-Orsini, Romano aveva ripreso una parvenza di rapporti formali col primogenito, a condizione che rispettasse alcune regole.
Gli aveva inviato una lettera con le sue richieste, senza rivolgersi a lui in maniera diretta:
<<Sono disposto a mantenere un atteggiamento benevolo verso mio figlio Francesco, fino a quando si comporterà bene (quamdiu se bene gesserit)>> 
La locuzione latina era chiaramente opera di sua sorella Anita o della zia Valentina Bassi-Pallai, sorella di Eleonora Bonaccorsi Monterovere, la madre di Romano, nonché, pure lei, azionista prestanome dell'azienda e moglie di un nobiluomo scapestrato che a cent'anni faceva ancora il donnaiolo.
<<Le condizioni sono: 
1) che Francesco, sua moglie e suo figlio, per almeno due domeniche al mese, partecipino a una messa in suffragio dell'anima della mia defunta moglie. Naturalmente sarà Francesco a pagare il parroco e ad offrire una cospicua donazione alla parrocchia;
2) che al termine di tale messa accompagnino me e mia sorella Anita alla residenza di quest'ultima, per un frugale pasto offerto dalla mia cara sorella;
3) che al termine di tale pasto ci si rechi tutti, sempre con l'automobile di Francesco, al cimitero, per rendere omaggio alla tomba della mia defunta moglie.
4) che al termine della visita mio figlio riaccompagni me a casa e poi mia sorella a casa, dove si tratterrà per una partita a carte a cui parteciperà anche mio fratello Edoardo con sua moglie;
5) che io sia ospite per un periodo di un mese all'anno (a mia scelta) nella residenza cervese di mia nuora per poter fare "la cura del mare e del sole" nonché le terme>>
Per alcuni anni quel rituale era stato rispettato, poi col tempo la disponibilità di Silvia a seguire il marito e il figlio in quella via crucis imposta dal vecchio, era venuta meno.
Francesco e Roberto, senza Silvia, erano andati da Romano e Anita per dire che ormai quel tour de force li aveva stancati.

Il vecchio e sua sorella non aspettavano altro che quello per poter sparlare di Silvia e di sua madre.
Anita in particolare nutriva per Silvia un astio feroce, memore del fatto che Silvia era stata preferita alla propria "candidata", una certa Ivana, ex allieva e poi collega della terribile signorina maestra Monterovere.
<<Se lei ti dice: Il problema sono io e non tu, ricorda che ti sta implicitamente dicendo che tu non sei neanche la soluzione>>

Francesco ne aveva avuto abbastanza:
<<Sentite, io non amo le persone mattiniere. E nemmeno le mattine. E soprattutto le mattine in cui devo svegliarmi presto per venire qui a Faenza per farvi da autista e raccogliere solo insulti!>>.

La zia non lo perdonò mai, ma fece finta di non aver sentito, per poter ancora esercitare un ascendente sul nipote anche dopo averlo (in segreto) diseredato.
Romano invece la prese malissimo:
<<Se sei venuto qui solo per mortificarmi, puoi anche tornare a lucidare gli stivali di Ettore Ricci.
Che ingrato! Dopo tutto quello che ho fatto per te!>>
E qui partiva una requisitoria che incominciava "ab ovo":
Francesco era nato nel 1941, in piena Seconda Guerra Mondiale, in un momento in cui, in effetti, la famiglia Monterovere aveva conosciuto la miseria più nera, e mangiato cibi andati a male o pieni di vermi e questo era stato un trauma per tutti loro, che su una cosa almeno concordarono sempre, ossia: se vengono a mancare alcune condizioni essenziali per la propria dignità, la vita stessa vale poco.
Ma le reazioni personali erano poi state diverse.
Francesco, cresciuto nella miseria, da adulto non si era mai fatto mancare niente.

Per Anita e Romano, invece, ciò che contava era ammassare denaro in maniera ossessiva per non doversi mai trovare di nuovo in quelle condizioni. Ma di quel denaro non spendevano quasi nulla.
Romano in particolare, la cui mente era turbata dalle paure, accentuò la sua condotta di vita improntata alla prudenza, all'abitudinarietà e all'estrema parsimonia.
Pur diventando sempre più ricco, diventava anche più taccagno e divorato da fobie di ogni genere, fino alla paranoia.
Sospettava di tutti, persino di Roberto.

Aveva sempre trattato in maniera gelida e distaccata il nipote, cosa inspiegabile, apparentemente, perché Roberto, come sappiamo, era l'ultimo erede maschio dei Monterovere, e questo avrebbe dovuto significare qualcosa per suo nonno, ma Romano gli aveva fatto capire, (con il suo comportamento, prima ancora che con le sue parole), che l'unico Monterovere che gli stava a cuore era se stesso.

Roberto aveva cercato per anni, invano, di conquistarsi se non l'affetto, quantomeno il rispetto del nonno paterno.
Tentava persino di giustificarlo, di convincersi che i vizi di Romano fossero virtù, che la sua tirchieria fosse una giusta e sobria frugalità, che la sua totale indifferenza fosse una forma di dignitas e di gravitas, come nel mos maiorum romano e che dunque suo nonno paterno fosse un integer vitae scelerisque purus.




Ma Romano aveva interpretato le virtù del popolo suo omonimo nella maniera in cui le avrebbe potute interpretare un Longobardo o un Ostrogoto, come del resto anche la sua fisionomia era decisamente più germanica e "ariana" che latina.
E alla fine Roberto dovette ammettere a se stesso che Romano era quello era.
La frattura nei loro già esilissimi rapporti avvenne nello stesso giorno in cui Romano aveva rampognato Francesco e sparlato di Silvia.
Il vecchio era così infuriato che non resistette alla tentazione di sfogare la sua ira anche sul nipote.
Roberto aveva solo quattordici anni quando, quella domenica, il nonno paterno gli disse:
<<Tua nonna Giulia morì di aneurisma poche ore dopo averti tenuto in braccio 
Non te l'hanno mai detto, vero? Be', è ora che tu lo sappia, caro il mio Principino! Avevi un anno, ma per lei anche un neonato sarebbe stato un peso enorme. Non avrei dovuto permettere che ti toccasse.
Sei stato l'Angelo della Morte per lei e la maledizione della mia vita: è per questo che non sono mai riuscito a volerti bene!>>
Francesco stava per intervenire, ma Roberto disse:
<<Continua, nonno, è da tempo che aspettavo una spiegazione che mi facesse capire da dove nasceva il tuo evidente rancore nei miei confronti>>
E Romano non si lasciò pregare:
<<Sei solo un Principino viziato. I tuoi genitori sono stati troppo teneri con te.
Non parliamo poi della Nobildonna! La Contessa di Casemurate! Sua Signoria! 
Lei ti ha viziato più di tutti gli altri! 
Persino Ettore Ricci, che io ritenevo un duro come me, è stato troppo tenero nei tuoi confronti.
E adesso sei diventato un lacchè della nobile stirpe degli Orsini, tutta gente con la puzza sotto al naso, incapace di fare qualsiasi lavoro o di conoscere il senso del risparmio>>
Roberto aveva protestato:
<<Io non sono né un lacchè, né un incapace! Ho sempre fatto il mio dovere!>>
Romano aveva scosso il capo:
<<Non basta! Se vuoi il mio rispetto e il mio affetto, caro altezzoso Principino, te li dovrai guadagnare! 
Non è sufficiente amare i fiumi e i canali per essere un vero discendente dell'ingegner Lanni.
Lui sì che era un grand'uomo, e questo nessuno può negarlo!
Prendi esempio da lui! 
Dici di essere bravo a scuola, ma voglio vedere cosa farai all'università.
Ecco la mia proposta: laureati in Ingegneria civile con specializzazione in idraulica e allora forse, e ripeto forse, potrai avere una piccola quota dell'azienda Monterovere>>





Roberto allora, fissandolo con uno sguardo severo ed inquietante, e gli rispose con la compostezza e la pacatezza di chi, da lungo tempo, si era preparato un discorso importante:
<<Ammiro l'ingegner Lanni, era davvero un grand'uomo. E' un esempio che terrò presente.
La scelta universitaria non sarà facile, ma ingegneria civile è una delle opzioni.
Però ti devo dire una cosa. Se è vero quello che dici, riguardo alla morte di nonna Giulia, tu non hai compreso che lei, prendendomi in braccio quando avevo solo un anno, mi dimostrò il suo amore, consapevole che la malattia le lasciava pochissimo tempo. 
Lei ha voluto che il suo ultimo gesto, nella vita, fosse un gesto d'amore.
Era una scelta che spettava a lei, era un suo diritto, di fronte ad una malattia che non le lasciava scampo. Conosceva le conseguenze di ogni singolo atto, ed ha preso una decisione.
La sua morte non è colpa di nessuno, ma è un dolore immenso per tutti, non è soltanto il tuo dolore. Se l'avessi condiviso con i tuoi figli e con me, saresti stato un uomo migliore e forse avresti trovato la serenità che non hai mai avuto.
Il tuo rancore ti confonde e ti impedisce di vedere le cose in maniera obiettiva.
Io ho atteso per quattordici anni, invano, un sorriso, una carezza, una buona parola: mi sarebbero bastate per provare affetto per te, ma non sono arrivate mai.
L'affetto non si compra e non si vende, e tutto l'oro del mondo non servirà a renderti sereno, se non imparerai a rispettare gli altri e a provare affetto per un nipote verso cui hai mostrato solo indifferenza e disprezzo, senza averne alcun motivo.
Ma io non ti serbo rancore e ti chiedo solo due cose: rispetto e affetto, nient'altro>>
Roberto era sincero.
In quel momento stava pensando ad una frase che aveva letto da qualche parte, ma non ricordava più dove:
"Sarai sicuro di aver vinto solo quando avrai guardato nel profondo della mente del nemico, e avrai provato pietà"

Romano era rimasto senza parole, aveva fissato a lungo il nipote, come se avesse davanti un alieno che parlava un linguaggio incomprensibile. 
Poi, senza dire un nulla, senza muovere nemmeno un muscolo della faccia, si era ritirato in camera sua.
E soltanto quando fu certo che nessuno potesse vederlo o sentirlo, pianse, perché in fondo aveva capito che il nipote aveva ragione.
Eppure temeva che fosse ormai troppo tardi per cambiare, anche se qualcosa nella sua mente si era ridestato ed aveva avviato un processo di redenzione che avrebbe però avuto bisogno di tempo per potersi fare strada nei suoi pensieri e nelle sue decisioni.
Da quel giorno, per tre anni, non ci furono più contatti tra loro.
Romano delegò sempre più incarichi ad Enrichetta, a suo marito e ai suoi figli.
Ma quando, in quel fatidico 1992, Lorenzo mostrò interesse verso "il Principino", Romano incominciò a provare uno strano senso di gelosia.
Ma com'era possibile saldare una frattura senza averla curata per così tanti anni?
Romano si ritrovò a domandarsi da dove avesse avuto inizio tutto quel rancore tra lui e i figli, e poi il nipote? Perché li aveva trattati così male? Da dove era nato tutto quel male?
E arrivò a ciò che nei "prequel" cinematografici degli horror di successo, viene intitolato "L'origine del male", risalendo sempre più a ritroso.

I lodevoli lettori che ci seguono fin dal primo capitolo, (a cui va tutta la nostra riconoscenza), forse ricorderanno che questa narrazione si apriva con la morte dell'antenato Ferdinando Monterovere, disarcionato da cavallo presso l'Orma del Diavolo, nella selva di Querciagrossa.




Tutte le storie di spiritelli e folletti, di riti pagani e querce abbattute, di maledizioni e di scongiuri, e chi più ne ha, più ne metta, furono talmente sconvolgenti da convincere il figlio di Ferdinando, Enrico Monterovere, e sua moglie Eleonora Bonaccorsi, a vendere tutte le proprietà di famiglia e a trasferirsi nella bassa romagnola.
Per i nove figli di Enrico ed Eleonora quella serie di eventi fu ancora più traumatica, specie per i maggiori, e cioè Anita e Romano.
Molti mali della mente nascono a causa dello sradicamento e molti altri quando qualcuno, o qualcosa, convince il soggetto a non essere degno di essere amato.
Nel caso di Anita e Romano si trattò di entrambi i genitori.
Dopo il trasferimento nella bassa romagnola, erano piombati in una crisi depressiva involutiva senza vie d'uscita. 
E qui i lettori ci consentano di far notare come il gene della depressione (più correttamente si dovrebbe dire della predisposizione alla depressione) era presente sia nei Monterovere che nei Bonaccorsi, la famiglia della madre di Romano.
Se poi si considera che tale gene era presente anche negli Orsini in maniera massiccia, e nei Lanni, in maniera più lieve, ma più insidiosa, perché agiva "sotto traccia", si potrà capire perché l'incrocio di tutte queste linee di sangue doveva essere evitato.
("Perisca il giorno in cui nacqui, e la notte in cui si disse: è stato concepito un uomo")

Enrico Monterovere si era dato all'alcolismo, Eleonora Bonaccorsi aveva rimosso il passato, rifiutando i figli maggiori e concentrando le sue attenzioni sui figli più piccoli, specie quelli che, a causa del clima malsano di quelle zone paludose, si erano ammalati di tubercolosi.

Anita, Romano e i due fratelli  si erano trovati senza punti di riferimento, con un padre che sapeva solo ubriacarsi, sbraitare, infuriarsi e distribuire pugni e calci alla prole e una madre che passava il tempo a lamentarsi, brontolare, pregare per la salvezza dei piccoli malati di tisi, che poi regolarmente passavano a miglior vita, tranne Tommaso ed Edoardo, che infine ebbero tutte le attenzioni di Eleonora.

Alla fine Anita aveva scelto di proseguire gli studi e diventare insegnante elementare, mentre Romano, Umberto, Ferdinando, Tommaso ed Edoardo avevano fondato l'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere, con l'apporto dei capitali degli zii Bassi-Pallai (Valentina Bonaccorsi aveva sposato il ricco Carlo Bassi-Pallai) e dell'ingegner Francesco Lanni, il suocero di Romano.
Poi Umberto era morto pure lui di tisi, Tommaso era morto in guerra, Edoardo si era dato alla politica e il resto è storia nota.
La penicillina guarì Romano dalla tubercolosi, la guerra lo risparmiò, e l'azienda lo fece diventare ricco e influente, ma tutto questo non bastò a ridargli la serenità perduta della sua infanzia.
Era passati molti decenni da quegli eventi, ma "ci sono cose che il tempo non può accomodare, ferite talmente profonde che lasciano un segno", una cicatrice indelebile, profonda, nell'anima.
Come si fa a raccogliere le fila di una vita spezzata? Come si fa ad andare avanti quando nel tuo cuore cominci a capire che non si torna indietro?
C'è una cosa che col tempo le persone che hanno sofferto iniziano a capire, e cioè che il passato diventa passato solo quando non può più ferirti e questo non accade quasi mai, persino quando le cose tornano ad andare bene. 
Per Anita e Romano quel passato, ormai ridotto a un cumulo di rovine, faceva ancora male.






Forse nemmeno Freud sarebbe riuscito a cavare fuori qualcosa di buono da quelle anime perse e da quei cervelli danneggiati e segnati dal dolore e dalle nevrosi.
"Non possiamo cambiarli, ma possiamo aiutarli ad accettare se stessi. Non possiamo guarirli, ma possiamo aiutarli a vivere meglio", questa è la sintesi del discorso psicoanalitico, ma a volte non si riesce ad arrivare nemmeno a questi obiettivi minimali.
E poi c'erano le tare ereditarie: tutti i Monterovere erano uomini iracondi, oltre che depressi.
Quando i predatori diventano troppi e troppo aggressivi, e le prede troppo poche e troppo deboli, allora il sistema va in crisi strutturale. In tale crisi, entrambe le razze rischiano l'estinzione.
Ed era proprio quello che stava capitando ai Monterovere, che erano sia predatori che prede e si distruggevano lottando tra di loro.
Erano però uomini di parola, persone ritenute almeno coerenti con il proprio pensiero.
Ma la coerenza non deve degenerare nella prevedibilità: se sei prevedibile, il nemico sa bene come, dove e quando colpirti. 
Romano rifletteva su tutto questo e si chiedeva cosa fare.
Dialogava con se stesso, formulando pensieri e meditando.
C'è una purezza negli oggetti che non sono mai riuscito a trovare in un essere vivente: gli oggetti non cambiano, non ti deludono mai.
Quando si trovava in quello stato d'animo, non gli restava altro che telefonare a sua sorella Anita.
Conversarono, in quel giorno di fine settembre, mentre il sole d'autunno tramontava e l'aria si faceva più fredda.
Non a lungo brillerà qualche luce sull'Acropoli in questa estate già finita.
Era un pensiero di Anita, che lo comunicò al fratello e poi gli disse:
<<Anche noi discendiamo da grandi uomini, e neppure a noi mancano volontà e coraggio. E dunque non piegarti, Romano. Una volta che ti sei piegato anche di poco, loro ti piegheranno ancora, fino a schiacciarti del tutto. Sprofonda le tue radici nella roccia e resisti al vento, anche se fa volar via tutte le tue foglie>>
Romano sentiva già il freddo dell'autunno incipiente nelle ossa, ed i suoi pensieri erano simili a quelli espressi mirabilmente da Montale in una delle sue ultime poesie.

Proteggetemi
custodi  miei silenziosi
perché il sole si raffredda
e l'ultima foglia dell'alloro
era polverosa
e non servì nemmeno per la casseruola
dell'arrosto -
proteggetemi da questa pellicola
da quattro soldi
che continua a svolgersi
davanti a me
e pretende di coinvolgermi
come attore o comparsa
non prevista dal copione -
proteggetemi persino dalla vostra presenza
quasi sempre inutile
e intempestiva
proteggetemi
dalle vostre spaventose assenze -
dal vuoto che create
attorno a me
proteggetemi dalle Muse
che vidi appollaiate
o anche dimezzate a mezzo busto
per nascondersi meglio
dal mio passo di fantasma -
proteggetemi o meglio ancora
ignoratemi
quando entrerò nel loculo che ho già pagato da anni -
proteggetemi dalla fama/farsa
che mi ha introdotto nel Larousse illustrato
per scancellarmi poi
dalla nuova edizione -
proteggetemi
da chi impetra la vostra permanenza
attorno al mio catafalco -
proteggetemi con la vostra dimenticanza
se questo può servire a tenermi in piedi
poveri lari sempre chiusi nella vostra 
dubbiosa identità -
proteggetemi senza che alcuno
ne sia informato
perché il sole si raffredda e chi lo sa
malvagiamente se ne rallegra
o miei piccoli numi
divinità di terz'ordine scacciate
dall'etere.

[Quaderno di quattro anni, Montale tutte le poesie, I Meridiani Mondadori, 1984 (pag 628-629)]

Romano non riusciva più a fidarsi nemmeno di sua sorella:
«Ci attendono giorni difficili: temo il tradimento più di ogni altra cosa e non mi piace il fatto che frequenti Lorenzo»
Anita fu colta impreparata:
«Ma…»
«Ma cosa?» chiese suo fratello «Ti concedo un solo “ma” questa sera.»
Anita soppesò le parole:
«E' solo un modo per tenerlo d'occhio»
Romano non ne era affatto convinto:
<<Spero per il tuo bene che non ci siano altre ragioni. 
Ricordati che un traditore può causare paradossalmente l'esatto opposto delle sue intenzioni, portando soltanto se stesso alla rovina e compiendo, nei confronti del nemico, del bene che non intendeva fare. A volte può accadere, Anita.
Buona notte!>>
Le sue telefonate non duravano mai troppo.
Il suo pensiero andò inevitabilmente a Giulia, l'unica di cui si sarebbe potuto fidare ciecamente.
Poiché era un devoto cattolico, sapeva che lei era in Paradiso, mentre lui rischiava seriamente di finire all'Inferno, perché il parroco lo aveva ammonito più volte: 
"Ricadi troppo spesso negli stessi peccati. Il che mi porta a sospettare che il tuo pentimento non sia sincero. Se fosse così, non potrei darti l'Assoluzione. Quindi io ti dico: pentiti finché sei in tempo, perché soltanto così potrai salvare la tua anima e rivedere Giulia"
Forse era venuto il momento di pentirsi sul serio.
Si ricordò di una frase che de La cavalleria rusticana, l'ultima volta che era andato con sua moglie a teatro, all'opera, perché lei era colta e riusciva a fargli conoscere le cose belle.
"E s'iddu muoru e vaju mparadisu | si nun ce truovu a ttia, mancu ce trasu" 
“E se muoio e vado in paradiso, se non ci trovo te non ci entro nemmeno”.
Era una delle piú belle frasi d'amore dell'opera lirica italiana. L'ultima frase dei versi che Turiddu dedica a Lola.
Rivolse allora la sua preghiera all'anima della cara moglie:
"Aiutami, Giulia, aiutami a diventare una persona migliore, aiutami a cambiare, aiutami a  ricominciare..."