giovedì 17 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 100. La guerra continua



Massimo Braghiri aveva goduto nell'assistere alla caduta in disgrazia e alla morte di Ettore Ricci, ma il suo "grande disegno di vendetta" non era ancora compiuto.
Sua madre Ida aveva lasciato Villa Orsini con una liquidazione di tutto rispetto, con la quale si era comprata una palazzina di fianco "ar Condominio de Lusso" (come il condomino cavalier Semenzana, "romano de Roma" esule in Romagna, chiamava il palazzo abitato dal ramo forlivese dei Monterovere e dalle famiglie di Massimo e Floriana Braghiri, i figli della signora Ida.
Francesco Monterovere, sua moglie Silvia Ricci-Orsini e il loro unico figlio ed erede Roberto Monterovere, presero atto di una evidenza innegabile: "Ci hanno circondati. Siamo sotto assedio da parte della famiglia Braghiri. Non si daranno pace finché non ci avranno rovinati, screditati e seppelliti".
I rimanenti condomini si erano mantenuti neutrali, e dunque nessuna delle due famiglie rivali era in grado, da sola, di avere la maggioranza dei voti per eleggere l'amministratore e prendere le decisioni principali.
Il prestigio, ormai decaduto, del clan Ricci-Orsini-Monterovere, aveva fatto sì che tutti i vicini nel quartiere residenziale "de Lusso" (sempre a giudizio del Semenzana, il quale dasseriva che "qua se sta mejo che ai Parioli"), si fossero sempre riferiti a quell'imponente ed eccentrico edificio, munito di torri con tetti a punta, abbaini vittoriani, bifore neogotiche, comignoli in stile Tudor e un ampio parco con pini, abeti e querce, chiamandolo Palazzo Monterovere, il che era ovviamente inaccettabile per Massimo Braghiri.
Questa volta però non era più possibile far ricorso alle sorelle della signora Ida, le streghe di Casemurate, perché a quanto pare i Monterovere avevano un protettore più potente, a livello delle "arti oscure", il cosiddetto Iniziato agli Arcani Supremi, di cui era cosa saggia persino tacere il nome.
A dire il vero, a quei tempi, ossia gli Anni Novanta del XX secolo, che oggi ci sembrano distanti come l'età dei Faraoni, i Monterovere non erano ancora consapevoli dell'identità dell'Iniziato che li proteggeva, e del fatto che tale protezione si limitava alle questioni, se ci si passa il termine, di tipo "soprannaturale".
Dunque la guerra tra i Braghiri e i Monterovere si svolse, nei successivi dieci anni, a un livello più terreno, basato su congiure, tradimenti, veleni, alleanze strategiche, colpi di scena, che avrebbero fatto apparire i Borgia, gli Este e i Gonzaga come dei dilettanti.

Va precisato che i Monterovere avrebbero volentieri fatto a meno di quella faida, ma i Braghiri desideravano che in futuro quella residenza diventasse il Palazzo Braghiri, forti anche del fatto che la moglie di Massimo, Elisabetta De Gubernatis, era figlia di Ginevra Orsini, sorella minore della Contessa di Casemurate, e dunque apportatrice di quel "quarto di nobiltà" che rendeva i rampolli Vittorio Braghiri e Roberto Monterovere "di pari grado".
Anche prescindendo dal fatto che non era così (dal momento che i Monterovere discendevano molto alla lontana dai Conti di Querciagrossa, località preappenninica vicino a Pavullo, nel modenese, con tanto di castello, detto di Montecuccolo), a Roberto Monterovere era dispiaciuto moltissimo il fatto che la sua antica amicizia con Vittorio Braghiri fosse stata definitivamente troncata dallo scoppio di quella specie di Guerra delle Due Rose.

Il paradosso, in questa situazione, era che Roberto e Vittorio, sotto molti aspetti, erano simili: entrambi nati nel 1975, entrambi mancini, entrambi legati a un'infanzia trascorsa a Villa Orsini, nella Contea di Casemurate, entrambi iscritti al primo anno del Liceo Scientifico "Fulcieri Paolucci de' Calboli (che era pure parente della loro defunta bisnonna Emilia).
Roberto era nella sezione A, suo padre insegnava nella sezione B, e Vittorio era nella sezione C.
Il fatto che Roberto avesse voti più alti di quelli di Vittorio, era visto da Massimo Braghiri come una chiara questione di favoritismo da parte dei colleghi di Francesco Monterovere verso il di lui figlio.
E purtroppo i Braghiri non erano gli unici a pensarla così, per cui se Roberto prendeva un voto alto, tutti gli invidiosi dicevano: <<Per forza, è figlio di Monterovere!>> e nei rari casi in cui lo stesso Roberto prendeva un brutto voto, le stesse persone commentavano: <<Avete visto, pur essendo il figlio di Monterovere, è talmente stupido da non riuscire a prendere un buon voto!>>
Roberto era esasperato da quella situazione.
Sua nonna Diana allora gli raccontò la famosa favola classica intitolata "Il contadino, il figlio e l'asino": Senex cum adulescente filio agebat iter...
La morale è nota: qualunque scelta facessero, la gente avrebbe sempre avuto qualcosa da ridire.
<<Posso anche infischiarmene di quel che dice la gente>> rispose Roberto <<ma qui la situazione è un po' diversa. Qui c'è la regia di un pazzo lucido il cui unico scopo, nella vita, è rovinare la nostra famiglia. Massimo vuole farci fare la stessa fine del nonno, e non avrà pace finché non ci sarà riuscito>>
Diana Orsini lo sapeva fin troppo bene:
<<Non gli daremo questa soddisfazione. Andremo avanti per la nostra strada, con la schiena dritta, la testa alta e la coscienza limpida, poiché il passato è stato sepolto e ora è tempo di voltare pagina>>
In teoria Diana aveva ragione, ma nella pratica la situazione era molto più complessa.
Roberto in realtà non voleva cambiare pagina, non era pronto ad archiviare la sua meravigliosa infanzia per avventurarsi in un terreno sconosciuto, in un mondo così diverso dalla sua amata Contea di Casemurate: il suo cuore era ancora lì, e sarebbe rimasto lì per sempre, poiché sentiva che niente e nessuno al mondo sarebbe mai stato in grado di procurargli una felicità così grande, così pura e così completa.


venerdì 11 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 99. Il Leone in Inverno


Il suo corpo martoriato, la sua casa fatiscente, la sua azienda colpita al cuore, la sua Contea sconfitta: questo era bilancio che Ettore Ricci si trovò davanti quando finalmente, dopo interminabili mesi di ospedale, riuscì a tornare a Casemurate, nel dicembre del 1990.
Cosa restava, dopo una vita di lavoro, di sacrificio, ma anche di ambizione e di desiderio?
Un cumulo di macerie.


Ma Villa Orsini era decorata con le luminarie di Natale, e la famiglia al completo lo attendeva come un re ferito in battaglia e tornato per l'ultima volta nella sua patria, a morire.
Ettore sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo Natale.
Diana lo aspettava sulla soglia, come la fata Morgana che accoglie Artù morente nell'isola di Avalon, da dove un giorno tornerà, secondo la speranza dei Bretoni, la speranza vana...
Accennò un mezzo sorriso, mentre sua figlia Silvia lo faceva accomodare sulla sedia a rotelle, il regalo natalizio che mai avrebbe pensato di poter gradire.
Tutta la sua famiglia era lì, il clan Ricci-Orsini al completo, riunito per l'ultima volta nella sua interezza, per onorare il patriarca e nel contempo prendere congedo da lui.
Lo guardavano come se fosse già morto, come avessero davanti una statua o un fantasma, ma la realtà era ancora peggiore: ciò che vedevano era un relitto.
Di fronte all'improvvisa coscienza del fatto che ormai tutto si era compiutoEttore non poté fare a meno di provare quel senso di rimpianto tipico di coloro che, soltanto in extremis rebus, si rendono conto di aver dedicato troppo tempo a cose vane e troppo poco a tutto il resto.
La vita è ciò che accade mentre noi pensiamo ad altro.
Quante cose si era perso!
Pensò ai luoghi che non avrebbe visto mai, ai viaggi che avrebbe voluto fare con Diana, ed aveva sempre rimandato, perché c'erano questioni più urgenti,  a come sarebbero diventati i suoi nipoti da adulti e a come sarebbe stato bello poter conoscerli meglio...
Non aveva saputo apprezzare abbastanza ciò che già era suo, affannandosi sempre a desiderare qualcosa di più.
Gli anni erano trascorsi veloci, rincorrendosi freneticamente come falene intorno al lume della sua vita, un fuoco che aveva scottato tutti coloro che si erano avvicinati troppo. 
Ed ora quel fuoco si stava spegnendo...
Ma c'era quell'ultimo Natale, quell'ultima occasione per stare con i suoi cari.
Si concentrò sul momento presenteperché alla fine aveva compreso che il presente è l'unica cosa che abbiamo, l'unica occasione sicura per fare ciò che va fatto, finché siamo in tempo, finché ne abbiamo le forze, finché ne abbiamo la possibilità.
Un giorno anche suo nipote Roberto avrebbe imparato quella lezione, quando però gran parte delle occasioni più importanti erano andate perdute irreparabilmente.



Le questioni pratiche erano già state sistemate, in un modo o nell'altro.
Aveva saldato i debiti col Fisco e aveva fatto testamento in maniera scrupolosa, discutendolo con i familiari.
La Villa Orsini e un terzo del Feudo sarebbero andati in eredità a Diana Orsini, che per la prima volta in vita sua sarebbe diventata proprietaria di ciò che un tempo era stato dei suoi antenati.
I rimanenti due terzi del Feudo Orsini dovevano essere ripartiti tra le figlie di Ettore e Diana.
Il Consiglio di Amministrazione sarebbe stato composto nella maniera seguente: Presidente Diana Orsini Balducci di Casemurate, Vicepresidente e Amministratore Delegato Amilcare Spreti di Serachieda, Tesoriere e Direttore Generale Saverio Zanetti Protonotari Campi, Consiglieri con diritto di voto e gettone di presenza gli altri soci: Francesco Monterovere, Adriana Ricci, Carolina Gagni di Montescudo, Maria Teresa Tartaglia, Cassio Baglioni detto "la Marmotta", Sebastiano Luciani detto "Bastcianò" e altri due eventualmente nominati dalla Bancaccia e dai soci di minoranza.

Signoria Rurale medievale


Erano tempi di crisi economica per tutti. 
Una volta Roberto gli aveva chiesto: <<Stiamo per fallire?>> ed Ettore aveva risposto <<Ti stai ponendo la domanda sbagliata>> E allora il nipote gli aveva chiesto <<Quale sarebbe la domanda giusta?>> Ettore aveva abbozzato un mezzo sorriso, con la mezza faccia non paralizzata: <<La domanda giusta, mio caro ragazzo, è : "Chi non fallirà?">>
Roberto non capiva: <<Cosa intendi dire?>>
Il vecchio allora allora alzava l'indice della mano buona, toccandosi la tempia e ruotando il dito orizzontalmente: <<Dicono che sei intelligente, e allora usalo quel cervello! La crisi ci mostra subito chi detiene il potere reale e qual è il suo disegno: chi ci guadagna, chi viene salvato e chi viene sacrificato. E poi c'è chi deve imparare a rimanere a galla da solo, senza più aiuti e salvagenti>>
Roberto comprese:
<<E questi siamo noi>>
Il vecchio gratificò il nipote con un mezzo sorriso:
<<Oh, ecco il mio ragazzo!>>






Ogni tanto Ettore rimaneva in silenzio, e contemplava sua moglie, chiedendosi se alla fine fosse riuscita davvero ad amarlo.
Non avevano più parlato del processo. Lei aveva testimoniato a suo favore con grande convinzione.
Ma lo aveva fatto per salvare lui o per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia?
Tante volte avrebbe voluto parlarle liberamente di tutto ciò che per una vita intera non si erano detti. Ma quelle parole rimasero sempre e soltanto nel pensiero.
"Diana, gli occhi tuoi pieni e lucenti mi hanno incantato un pomeriggio lontano più di cinquant'anni fa. 
Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea delle malefatte che un uomo di potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo della sua azienda e della sua famiglia.
Per troppi anni, nel Feudo Orsini, il Potere sono stato io. 
Io, con la mia mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te.
 Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità...
 La responsabilità diretta o indiretta per tutte le malefatte che sono state commesse sotto questo tetto dal 1935 in avanti.
La responsabilità nell'aver permesso che un folle, di sua iniziativa, eliminasse chiunque poteva costituire una minaccia per il nostro sistema di potere.
Sì, io avrei potuto fermare Michele e non l'ho fatto. Questo mi rende suo connivente.
Pertanto ho sulla coscienza la vita di un numero di persone maggiore persino di quello che la gente pensa.
Isabella, Arturo, il Conte Achille avvelenato, Federico, mio fratello Oreste che voleva confessare troppe cose alle autorità in cambio della salvezza finanziaria, tutti loro, per vocazione o per bisogno, irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. 
Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e io non potevo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. 
"
Questi pensieri, che lo terrorizzavano, non li aveva confessati a nessuno, nemmeno ai sacerdoti che più volte gli avevano somministrato l'Estrema Unzione.

Ettore Ricci si spense un mese dopo, nel sonno, all'età di 81 anni.
Fu castigo o fu misericordia?
A Roberto piacque pensare che in fondo, alla fine, suo nonno avesse trovato la pace.
I funerali si tennero in forma strettamente privata e la notizia della morte venne data solo, come si dice in questi casi, "a esequie avvenute".
Mentre i resti mortali di Ettore Ricci venivano tumulati nella lugubre cappella dei Ricci-Orsini, nel cimitero di Casemurate, "sotto la volta nera", più buia dell'avello dell'Escoriale più istoriata del Mausoleo di Galla Placidia, a Roberto parve che anche la sua lunga e dorata infanzia, in quel preciso istante, fosse stata sepolta definitivamente insieme al nonno.







Poi lo sguardo di Roberto andò verso sua nonna, bellissima e solenne, resa ancora più nobile e distinta dal lutto e dalla saggezza degli anni.
Diana Orsini Balducci, vedova Ricci, diciottesima Contessa di Casemurate, si stagliava come una statua davanti all'abisso.
Il suo volto era immobile, il suo sguardo imperscrutabile, mentre fissava il sepolcro del marito, avvolta nei veli neri del lutto sollevati dal vento.




Che cosa stava pensando del suo defunto marito? Di quel marito che era stata costretta a sposare contro la sua volontà, per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia Orsini, e che aveva continuato a difendere a spada tratta fino all'ultimo, tra processi e scandali, sempre per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia Orsini!



Diana forse aveva preferito credere che Ettore, pur essendo capace di atti deplorevoli, non fosse un uomo pericoloso
Forse spericolato, questo sì, ma non malvagio.
Diana, come tutti coloro che erano cresciuti con la consapevolezza di doversi dedicare alla conservazione di ciò che era stato loro trasmesso per tradizione e forse per Mandato Celeste, temeva il Caos al di sopra di ogni cosa.
Ed Ettore, sotto molti aspetti, era stato la personificazione del Caos. Ma lei era riuscita a fare in modo che quell'uragano generasse anche energia utile e costruttiva. 
Aveva preferito non sapere la verità, perché ci sono cose nella vita che è meglio non vedere, non sentire, neppure pensare.
Aveva circonfuso la memoria di suo marito in un'aura di mistero.
E questo mistero sarebbe diventato per lei qualcosa da mettere a posto, nella galleria dei ritratti, dove non mancavano gli sguardi oscuri e minacciosi.
E avrebbe conservato tutto questo con la stessa infinita ed eterna devozione nei confronti della sua villa vittoriana fatiscente, della sua antica ed eccentrica famiglia e della sua Contea, meravigliosa e sconfitta: solo così Ettore avrebbe potuto ancora trovare posto tra i "buoni",  ed essere annoverato nella gloriosa compagnia degli illustri antenati di una grande stirpe.

Sulla lapide, per volontà di Diana Orsini, venne inciso il sonetto "Memoria inmortal de don Pedro Girón, duque de Osuna, muerto en la prisión", di Francisco De Quevedo, in spagnolo e con traduzione in italiano

Faltar pudo su patria al grande Osuna,
Pero no a su defensa sus hazañas;
Diéronle muerte y cárcel las Españas,
De quien él hizo esclava la Fortuna.
    Llloraron sus envidias una a una
Con las propias naciones las extrañas;
Su tumba son de Flandes las campañas,
Y su epitafio la sangrienta luna.
    En sus exequias encendió el Vesubio
Parténope, y Trinacria al Mongibelo;
El llanto militar creció en diluvio.
    Diole el mejor lugar Marte en su cielo;
La Mosa, el Rhin, el Tajo y el Danubio
Murmuran con dolor su desconsuelo.

Venir men poté la patria al grande Osuna,
ma non alla difesa le sue imprese;
morte e carcer gli diedero le Spagne,
cui egli schiava aveva fatto la fortuna.
Pianser le loro invidie a una a una,
con la propria nazione le straniere.
Sua tomba son di Fiandra le campagne,
e il suo epitaffio la sanguigna Luna.
S'incendiò per le sue esequie anche il Vesuvio,
Partenope e Trinacria al Mongibello;
il pianto militar crebbe a diluvio.
Di Marte avrà in ciel luogo migliore;
la Mosa, il Reno, il Tago ed il Danubio
mormoran con lamento il lor dolore.


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Note dell'Autore 
1) Il quadro è "La Sepoltura del conte di Orgaz" (El Entierro del conde de Orgaz), dipinto a olio su tela realizzato nel 1586 da El Greco. È conservato nella Chiesa di Santo Tomé (Toledo), Castiglia, Regno di Spagna.
2) Il monologo di Ettore Ricci è ispirato a quello di Giulio Andreotti nel film "Il Divo" di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo.
3) Il titolo del capitolo si ispira al film Il leone d'inverno (The Lion in Winter) del 1968 diretto da Anthony Harvey, tratto dall'omonima opera teatrale del 1966 di James Goldman, ambientato negli ultimi anni di regno di Enrico II Plantageneto, che riunisce la sua famiglia per ultimo Natale, dovendo constatare però che la moglie Eleonora d'Aquitania e i figli superstiti Riccardo Cuor di Leone, Goffredo di Bretagna e Giovanni Senzaterra, tramano continuamente per impadronirsi del trono e del potere.
Il personaggio di Eleonora fu magistralmente interpretato da Katharine Hepurn, che ottenne così il terzo Oscar.
Nel 2003 fu realizzata una versione televisiva per la regia di Andrei Konchalowskj, con Glenn Close nel ruolo di Eleonora d’Aquitania, la quale per questa interpretazione si aggiudicò il suo primo Golden Globe (categoria “Miglior attrice in una mini-serie o film per la televisione”).



martedì 8 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 98. L' Autunno del Patriarca


Dopo l'ictus che l'aveva colto al termine del suo memorabile discorso alla Corte, Ettore Ricci fu ricoverato all'ospedale Morgagni di Forlì.
La metà destra del corpo era paralizzata, ma nonostante la emi-paresi facciale, riusciva ancora a parlare e a farsi capire fin troppo bene, rispolverando persino il linguaggio "colorito" della sua lontana giovinezza.
Il temperamento istrionico e sanguigno dei Ricci sembrava quasi essere la sua estrema difesa contro la decadenza fisica.
Dopo tre giorni di sedazione farmacologica, il patriarca del clan Ricci-Orsini si svegliò e incominciò subito a protestare perché non lo lasciavano tornare a casa.
 I medici gli spiegarono che, oltre all'ictus, erano stati rilevate altre patologie, tra cui fibrillazione atriale, embolia polmonare, broncopneumatia cronica ostruttiva, edema polmonare, infezione da streptococco, erisipela, calcolosi colecistica grave, ernia inguinale pronunciata e ipertrofia prostatica.
Il primario di medicina generale lo informò riguardo alla terapia e alla degenza:
<<Le somministreremo farmaci anti-ipertensivi, emo-fluidificanti, diuretici, antibiotici, mucolitici, antispastici, anti-infiammatori, alfa-bloccanti e beta-bloccanti.
 Poi valuteremo se intervenire prima sulla cistifellea, oppure sull'ernia inguinale e/o la prostata>>
Ettore non aveva capito pressoché nulla, se non che volevano fargli un intervento in una zona piuttosto imbarazzante, e reagì male:
<<Poche pugnette! Io... io... ho da fare! Devo sistemare le cose, per quando io...  dopo che io...>>
Poi si fermò, consapevole che, in ogni caso, quello era l'inizio della fine.
Il giorno successivo, in mancanza di miglioramenti, l'Iniziato (la cui identità sarà svelata in seguito), convinse la famiglia a chiamare un prete per l'Unzione degli Infermi.
Ettore non la prese bene.
<<Infermi? Quali infermi? Io... io... sto benissimo... >>
Il sacerdote venne comunque e con infinita pazienza riuscì a ignorare le vivaci proteste del malato:
<<Figliolo, forse la tua fede ha vacillato, ma sei ancora in tempo per confessare i tuoi peccati. La tua anima può ancora librarsi in Cielo>>
Ettore sorrise a mezza bocca:
<<Non ci giurerei. E poi... la lista dei peccati è... troppo lunga... e io... sono già stanco>>
Il sacerdote lo incoraggiò:
<<Incomincia dai più gravi, ce la puoi fare. Del resto, come dico sempre ai miei fedeli, nessuno sa veramente che cosa è in grado di fare, fino a quando non osa saltare>>
Ettore fece un cenno vago:
<<La finestra è lì. Salti pure...>>
Il reverendo si rabbuiò:
<<Sei almeno pentito per i tuoi peccati?>>
Ettore si fece serio:
<<Sì... e il rimorso mi tormenta più di questo letto.
Ma io... io ho già scontato la mia pena... ho già... come si dice... espiato...>>
Il sacerdote comprese:
<<In segno di penitenza, reciterai almeno le preghiere?>>
Ettore sospirò:
<<Le reciti lei... per me...  Io ormai ho dimenticato le parole...
Succede, sa... quando si soffre troppo... e per troppo tempo>>
Il prete valutò quella risposta, poi, annuì e recitò ad alta voce Pater, Ave e Gloria, e poi, insieme a lui, recitò l'Atto di Dolore.
Infine, intuendo che il pentimento era sincero, prese una decisione :
<<E' sufficiente>> e poi <<Ego te absolvo peccatis tuis...>>
Poi gli segnò la croce sulla fronte con l'olio benedetto e prese congedo.

Il rito e il sacramento respinsero il demone Eclion che era stato evocato contro di lui, ed annullarono la maledizione delle streghe di Casemurate, ossia Ida Braghiri, nata Paludi, e le sue sorelle Elvira, Iole, Irma ed Ermide.
L'intervento dell'Iniziato e del Sacerdote-Esorcista da lui chiamato, aveva sconfitto la malvagità delle cinque sorelle Paludi, le streghe della confluenza tra Bevano e Torricchia.
Quella notte Ettore dormì sereno e per la prima volta dopo tanto tempo non sentì il peso della sua coscienza.

Nei giorni successivi, i familiari si alternarono al capezzale del malato.
La moglie Diana Orsini parlò con lui più tempo in quei giorni che nei precedenti cinquantacinque anni di matrimonio.
Quello che si dissero appartiene soltanto a loro, e alla loro memoria.
Possiamo comunque testimoniare che la malattia li aveva riavvicinati a tal punto che sembravano essere la coppia più unita del mondo.
Talvolta il dolore unisce più della felicità.
Diversi furono i ruoli delle tre figlie.
La prima figlia, la marchesa Margherita Spreti di Serachieda, per i suoi look ricercati con tanto di cappelli in stile Royal Ascot, oltre che per i suoi modi da gran dama, era stata soprannominata da medici e infermieri "la Principessa di Galles".


Questo suo ascendente le consentì di ottenere per il padre un trattamento di riguardo.
Da quel momento fu incaricata di mantenere le pubbliche relazioni.
La seconda figlia, la professoressa Silvia Monterovere, che era stata insegnante di almeno una dozzina di medici ospedalieri, e riceveva nel suo salotto un'altra dozzina che erano stati studenti del marito, riuscì ad avere informazioni più precise sulla condizione del padre.
Le notizie purtroppo non erano incoraggianti.
Per quanto il quadro clinico si fosse stabilizzato, il paziente non sarebbe più tornato a camminare e avrebbe dovuto cambiare radicalmente stile di vita e alimentazione. Inoltre, considerando l'instabilità cardio-respiratoria e gli interventi chirurgici che dovevano essere fatti, la prognosi rimaneva infausta. 
Comunicarlo al resto della famiglia non fu facile.
La terza figlia, la contessa Isabella Zanetti Protonotari Campi, che era sempre stata la più pragmatica delle tre, fece subito chiamare il notaio per definire le questioni ereditarie e l'avvocato e il commercialista per capire se era ancora possibile salvare il Feudo Orsini dalla bancarotta.
C'era ancora qualche speranza, ammesso che, naturalmente, i processi si concludessero, almeno per la causa civile sui danni erariali, in maniera positiva.
Bisognava trovare nuovi soci e fare modifiche allo statuto della società in accomandita.
I due nipoti maggiori, Fabrizio Spreti e Alessio Zanetti, all'epoca studenti universitari, si alternarono a fare compagnia al nonno, che predisse loro una carriera accademica brillante e un avvenire da luminari della scienza in odore di Nobel.
Questo accadeva nelle ore diurne.
Quando però giungeva la sera, ad Ettore Ricci sembrava che tutta la sua vita fosse sul punto di contrarsi e le pareti dell'ospedale gli si stringessero addosso, come le sbarre di una gabbia volta a imprigionare qualcosa di selvaggio, ecco che chiedeva la presenza del nipote più giovane, l'allora quattordicenne Roberto Monterovere.
Per qualche motivo, che a tutti sfuggiva, Ettore riponeva in quel ragazzo le sue speranze di rivalsa contro coloro che l'avevano tradito e contro un'intera città che sembrava avergli voltato le spalle.
<<Ti ricordi quando ti ho portato a caccia? Quando ti ho detto che per intrappolare i lupi bisogna intingere il coltello nel miele? Ecco, il momento è arrivato. 
Come vedi, i lupi ci circondano, e presto o tardi, quando io non ci sarò più, attaccheranno la nostra famiglia per fare a brandelli tutto ciò che ne resta.
 Prenderanno di mira tua nonna, tua madre, le tue zie, forse anche i tuoi cugini, ma risparmieranno te, perché sei ancora minorenne. Ecco perché sarai tu a doverti fare carico della nostra rivincita>>
Quanto possono valere le promesse fatte ad un parente in condizioni così gravi?
Quanto potranno condizionare la vita successiva di chi ha giurato di mantenere quegli impegni?
Anche se alcuni potranno addurre la giovane età di Roberto, all'epoca, come un'attenuante, lui non riuscì mai a perdonare se stesso per essersi vincolato ad una promessa che, realisticamente, era al di là delle sue forze   e per aver ceduto su tutte le richieste, in quella notte interminabile al capezzale del nonno.
<<Devi promettermi e giurarmi che mai e poi mai il Feudo Orsini o la Villa Orsini saranno venduti. Naturalmente finché vivrà tua nonna nessuno avrà il coraggio di cacciarla dalla casa dei suoi avi, ma dopo le cose potrebbero mettersi male. Confido però nel fatto che gli Orsini hanno una vita lunga e che tua nonna Diana vivrà almeno un'altra ventina d'anni. Nel frattempo tu ti laureerai in Economia Aziendale in un'università prestigiosa, a Milano o a Roma, e farai tutti i master che servono per conoscere il mondo degli affari. A quel punto sarai in grado di prendere in mano la situazione e di riportare il nostro patrimonio al valore di un tempo>>
La faccia di Roberto non dovette apparire molto convinta agli occhi del nonno, il quale tese la mano buona verso di lui e gli intimò:
<<Prometti, Roberto!>>
E il nipote promise e giurò, e le conseguenze di quella promessa lo perseguitarono per il resto dei suoi giorni.

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giovedì 3 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 97. Apologia e apoplessia


La procedura penale italiana è molto diversa da quella americana,  a cui siamo stati abituati a partire dai tempi di Perry Mason fino ad arrivare ai legal thriller.
I processi americani sono molto teatrali, perché l'obiettivo è quello di convincere una giuria popolare, non esperta di diritto penale o di medicina legale, a emettere una sentenza sull'onda dell'emozione del momento.
Niente di tutto questo nei processi italiani, prevalentemente burocratici, basati per lo più sul lavoro d'ufficio, sulle scartoffie, sull'esame meticoloso delle perizie e poco sul dibattimento in aula, che nei tribunali italiani è privo di tutta la drammatizzazione che si vede nei film americani.

Ciò non toglie che, data l'importanza dell'imputato e l'attenzione dei mass-media, il processo ad Ettore Ricci abbia finito per costituire un'eccezione alla regola.
Nel suo caso ci furono testimonianze di alto valore drammatico, nel senso teatrale del termine, dove tutti i testimoni cercarono di recitare, con la massima perizia, una parte degna di una nomination al Premio Oscar.
Riporteremo qui soltanto alcuni passaggi.
Diana Orsini si presentò all'udienza in modo sobrio e dimesso, comunicando a tutti l'immagine di una semplice madre di famiglia e di una moglie affranta:

<<Non è mia intenzione dubitare della buona fede dei testimoni dell'accusa, ma è mio dovere rilevare che si è trattato di un terribile equivoco. 
La loro ricostruzione dei fatti si basa su un completo fraintendimento. 
Mio marito ha aiutato finanziariamente molte famiglie in difficoltà, e lo ha fatto con la massima discrezione, perché gli è stato insegnato che il bene va fatto senza vantarsene e senza compromettere la rispettabilità di coloro che sono stati aiutati. Se poi qualcuno si è sentito in dovere di sdebitarsi in qualche modo, non è stato certo dietro nostra sollecitazione.
Riguardo alle questioni contabili l'unica colpa di mio marito è di essersi fidato di persone che in apparenza si comportavano da amici, mentre in realtà non lo erano affatto.
Non voglio spingermi oltre, nel parlare di queste persone, ma credo che avessero da tempo l'intenzione di nuocerci.
Noi, in questa situazione, siamo la parte lesa, non certo i mandanti.
In considerazione di tutto ciò che ho detto, mi permetto di invitare la Corte a tenere presente la nostra buona fede.
Le uniche colpe di mio marito sono state la generosità e l'ingenuità>>

Quando il Pubblico Ministero le chiese se aveva le prove per sostenere quanto affermava, Diana Orsini sospirò:
<<So che la mia parola non è sufficiente, ma confido che le sia attribuito quantomeno lo stesso peso di chi, in maniera anonima, ha cercato di dimostrare il contrario>>
La risposta piacque all'uditorio, ma l'avvocato Vanesio  rischiò di rovinare tutto con un commento fuori luogo:
<<Ecco il discorso di una donna innamorata! Del resto è noto che ogni donna sceglie l'uomo che la sceglierà>>
Le cose non erano andate affatto così, ma non era quello il momento di sottilizzare. Si era creato un clima nuovo in aula.

Naturalmente, Ettore Ricci, da par suo, volle rilasciare una focosa deposizione spontanea, destinata a rimanere impressa nella memoria dei presenti, non fosse altro che per il suo clamoroso finale:
Quando prese la parola tutti tremavano, compreso l'avvocato Vanesio.
<<Vostro Onore>> esordì Ettore Ricci rivolto al Presidente del Tribunale <<Signori della Corte, come è emerso da questo dibattimento, la mia unica colpa è stata quella di aver riposto la mia fiducia nelle persone sbagliate, che hanno approfittato della mia generosità, della mia ingenuità e della mia ignoranza a livello contabile.
Si è detto che io "non potevo non sapere", ma mi si fa troppo onore: io non sono un uomo istruito e come tale, se anche determinati documenti fossero passati per il mio ufficio, non ero in grado di capire le insidie che celavano,

Si è obiettato che l'ignoranza della legge non può essere addotta come scusante: ma ciò che io ignoravo era la contabilità, non la legge. 
Michele Braghiri era un ragioniere ben preparato, ed io credevo che fosse anche un amico.
Per questo, in buona fede, ho firmato documenti di cui non comprendevo il significato.
Se l'ignoranza è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Ma la mia ignoranza non deriva da una negligenza, o da una mancanza di volontà.
Il fatto è che io vengo da una famiglia povera, di braccianti, di contadini. 
Quando ero bambino, mio padre non aveva ancora avviato le attività che in seguito portarono la famiglia Ricci alla prosperità, cosa che avvenne quando io avevo più di vent'anni, ed avevo lavorato nei campi per almeno due lustri.
Se la povertà che mi ha impedito di studiare è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Sono sempre stato fiero delle mie origini umili.
E forse magari agli occhi di molti è questa la mia vera colpa: essere quello che l'elite chiamerebbe un "arricchito", o come avrebbe detto mio suocero, "un parvenu".
Scommetto che molti, tra i banchi dell'accusa, ridono di me e dei miei modi contadini, e vogliono punirmi perché ai loro occhi sono rozzo e volgare. Ma questo non è un reato!
Posso aver commesso delle leggerezze, per le quali io chiedo di essere giudicato tenendo conto della bontà delle intenzioni e della sincera volontà di rimediare, se sono state commesse delle irregolarità.
Ma chiedo umilmente questa Corte di riconoscere che il mio successo negli affari non è frutto di un crimine, ma solo ed esclusivamente del mio duro lavoro e delle fatiche di una vita.
E' questo il punto, Signori della Corte...>> e qui fu travolto dalla commozione e dallo sdegno, come Julien Sorel alla fine de Il Rosso e il Nero. <<... sì, questo è il punto. E cioè il fatto che coloro che mi accusano vogliono punire in me tutti coloro i quali, nati in una condizione sociale inferiore, hanno avuto l'audacia di mescolarsi a quella che l'orgoglio dei ricchi di antica data chiama altezzosamente "la Buona Società">>

Quelle parole colpirono nel segno la platea, che, pur essendo inizialmente ostile ad Ettore Ricci, alla fine lo applaudì calorosamente come se fosse un martire della causa del proletariato.
A prescindere dalle decisioni del Tribunale, quell'applauso stava a significare che la famiglia Ricci-Orsini aveva ritrovato la simpatia e il rispetto dei concittadini.
Ma su Ettore pendeva comunque una maledizione potente, e Ida Braghiri in persona si era recata dalle sue sorelle streghe delle paludi, Iole, Irma ed Ermide, che le garantirono ciò che era stato pattuito: "Due sacrifici sono stati compiuti, e una vita è già stata spezzata. Ora tocca alla seconda. Non sarà una cosa breve, perché ci sono altre forze in gioco"
Ida Braghiri capì a chi alludevano le sue sorelle, quando parlarono dell'Iniziato, e si rese conto che la situazione era diventata assai più complessa.
Tutto era divenuto evidente quel giorno, al Tribunale.
Mentre la platea applaudiva, Ida notò con fastidio che l'Iniziato si stava recando al telefono più vicino, perché sapeva che ce ne sarebbe stato bisogno.
E infatti, proprio nel momento dell'apparente redenzione, un malore colpì Ettore Ricci non appena ebbe finito di parlare. 
Era ancora in piedi, al termine della propria apologia, con la faccia paonazza e il respiro affannato, quando si manifestarono i sintomi dell'ictus ischemico.
Dopo alcuni istanti di esitazione, Ettore barcollò, si aggrappò al microfono, che cadde.
Si accasciò infine sul banco degli imputati, sentendo che metà del suo corpo perdeva i sensi, e scrutando le tenebre che s'infittivano davanti ai suoi occhi, pensò:
"Non ancora. Non è il momento. Lontano è il mio destino, ed io farò ritorno nella mia terra da uomo libero".