martedì 19 novembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 29. Regolare i conti e nascondere le crepe

Diana non avrebbe dimenticato mai più i mesi che seguirono.
Dopo un periodo di grandi incertezze, in un mattino di pallida primavera ancora legato al gelo dell'inverno, vide dalla finestra della propria stanza una fila interminabile di camion tedeschi che si dirigevano verso nord, dall'Adriatica alla Cervese e dalla Cervese alla via Emilia.
Si stavano ritirando. La Linea Gotica stava cedendo e il fronte si stava riposizionando lungo il fiume Senio, oltre Faenza e Argenta, ma era chiaro che ormai, per il Reich e la RSI, era la fine.
Li osservava dalla finestra della propria camera da letto, consapevole di assistere ad un evento storico.
Nel loro crollo, le forze dell'Asse si erano trascinate dietro tutto ciò che non risultava più utile al nuovo assetto del mondo, spartito tra il liberal-capitalismo anglosassone e il comunismo sovietico.
L'Italia si trovava alla frontiera tra questi due blocchi e per quanto fosse stata militarmente conquistata dagli Alleati occidentali, le forze repubblicane, socialiste e comuniste che avevano partecipato alla Resistenza partigiana, difficilmente avrebbero accettato un ritorno allo Stato Liberale e monarchico precedente al ventennio fascista.
Non ci voleva un genio, dunque, per capire che il vecchio ordine economico-sociale era in frantumi tanto quanto quello politico e internazionale.
L' ancien regime , o almeno quel "piccolo mondo antico" che nella Contea di Casemurate era sopravvissuto alle Rivoluzioni, a Napoleone, al Risorgimento, alla Grande Guerra, stava ora franando, nell'aprile 1945, di fronte al finale dell'ecatombe più devastante della storia umana: la Seconda Guerra Mondiale.
Anche gli occupanti stranieri di Villa Orsini si stavano ritirando.
Il primo levare le tende era stato il Professor Von Tomaten, non senza un severo ammonimento:
<<Se voi Italiani mangia-spaghetti pasta pizza e mandolino pensate di esservi liberati per sempre di Grande Cermania, vi sbagliate di gross!! Ricordate qvuesto che io dice: "Prima o poi ritorneremo!">>
Diana non poteva certo immaginare che sarebbe vissuta così a lungo da vedere avverarsi quella profezia, seppure sotto una diversa bandiera, e con un diverso volto: al posto dei baffetti di Hitler ci sarebbe stato il faccione fintamente materno di Angela Merkel.
Ma per il momento i Tedeschi erano in fuga.
I fratelli di Ettore Ricci avevano deciso di seguire i fedelissimi della RSI fino a Salò.
Lui non aveva fatto nulla per trattenerli, forse sperava che fosse l'occasione buona per sbarazzarsene una volta per tutte.
Ma un evento causò grande preoccupazione in famiglia: il Conte Orsini e il Tenente Mueller erano spariti.
Soltanto quando la ritirata tedesca fu completa, il cadavere di Mueller, con le gambe azzoppate da colpi di fucile e le vene tagliate, fu ritrovato nelle vicinanze di un capanno da caccia, ai margini di uno stagno.
Il giorno dopo il Conte Orsini ricomparve in pubblico, adducendo il suo periodo di assenza ad una serie di impegni politici per la ricostruzione.
Ricomparve anche il suo fucile da caccia e il pugnale con il rubino rosso sull'elsa, antico cimelio di famiglia.
Quando passò a salutare Diana, le disse:
<<Ora Isabella potrà riposare in pace>>
Lei sospirò:
<<Avremmo potuto salvarla. Avremmo dovuto proteggerla. Lei cercava comprensione, affetto, e noi eravamo troppo presi dai nostri guai per accorgerci di quanto grave fosse la sua situazione. 
Io non riuscirò mai a perdonarmi e non credo che la vendetta privata sia stata un atto di giustizia.
Comunque il tenente Mueller era un aguzzino e meritava di fare la fine che ha fatto: in tanti lo volevano morto e immagino sia anche per questo che il tuo piano ha funzionato>>
Lui sollevò le spalle, come se se si fosse trattato di una cosa da niente, e comunque non avrebbe mai rivelato i dettagli di quel regolamento di conti.
Si appoggiò al davanzale della finestra e fissò il tramonto:
<<Il mio piano? Io non lo definirei così. E comunque non credo nei piani. 
Le cose non vanno mai secondo i piani. So bene di avere sbagliato tutto con Isabella, così come ho sbagliato con te. E mi porterò questo macigno nella tomba.
Ho imparato tardi la lezione. 
Solo ora mi rendo conto che basterebbe solo un po' di buon senso, e vivere un giorno alla volta.
E tenere a mente che questo giorno non ritornerà più>>
Era una sorta di epitaffio a quello che era stato il mondo in cui era cresciuto e dunque era anche un epitaffio per se stesso, ora che la sua vita volgeva al tramonto.
<<Per me è motivo di sollievo>> rispose Diana <<pensare che i giorni non si ripetano, perché se dovessi rivivere ciò che ho vissuto, credo che impazzirei per il dolore. L'unico pensiero che mi conforta è la speranza che dopo la morte non ci sia più nulla. Fino ad allora, troverò pace soltanto nell'oblio, poiché l'unica felicità che mi è concessa è data da ciò che mi permette di dimenticare, anche solo per brevi istanti, la spaventosa sorte del vivere>>
Il padre la guardò, rattristato:
<<E dunque dovrò chiederti perdono anche per averti generata?>>
<<In questo, almeno, eri in buona fede. Ma lasciamo da parte il passato. La guerra è finita, ma non per la nostra famiglia. I pericoli verranno sia da dentro che da fuori, e credo che tu sappia a cosa mi riferisco>>
Il Conte annuì, consapevole del significato di quelle allusioni, e determinato a utilizzare il poco tempo che ormai gli restava a rimediare a tutti i suoi errori passati, per il bene dei suoi figli.
Ormai il capofamiglia indiscusso era Ettore Ricci, di fronte a cui il giovane cognato Arturo Orsini, erede del titolo comitale, sembrava poco più di un valletto in livrea.
Ettore trovava comunque fastidiosa la presenza di Arturo, l'unico che ancora si permetteva, in famiglia di mostrare disprezzo nei suoi confronti.
La stessa sera in cui il Conte osservava il tramonto nella camera di Diana, Ettore mise in riga alquanto brutalmente il giovane cognato.
<<Ascoltami bene: ogni volta che hai avuto bisogno di denaro per una nuova macchina o una nuova motocicletta o un abito di sartoria, io ti ho sempre finanziato senza chiederti nulla in cambio se non il tuo rispetto. Ora però i tempi sono cambiati: ha vinto l'America e questo vuol dire che hanno vinto gli uomini come me, quelli che sanno fare i soldi, mentre tu sei solo capace di spenderli. Se vorrai ancora attingere dalle mie casse, dovrai rispettarmi in maniera convincente, non so se mi spiego>>
Arturo soppesò quelle parole e alla fine rispose:
<<Se tu mi facessi avere un lavoro di un certo prestigio, ben remunerato, nell'azienda di tuo fratello Oreste, quella che produce macchinari per l'agricoltura, te ne sarei eternamente grato e mostrerei a tutta la famiglia Ricci i miei rispetti>>
Ettore sorrise:
<<Mi pare un'ottima idea. Ti daremo l'occasione di mostrare a tutti quello che vali>>
Si strinsero la mano per suggellare il patto, credendo, ognuno, di aver ottenuto molto di più dell'altro.
Ma Ettore aveva altre questioni da risolvere.
I regolamenti di conti tra gli antifascisti e i loro nemici stavano diventando una specie di guerra civile.
Una mattina, durante la quotidiana passeggiata con le figlie, nel bosco retrostante a Villa Orsini, trovò di fronte a sé, in mezzo al sentiero, una scena macabra, che rimase impressa nella memoria e negli incubi delle bambine, che già avevano visto fin troppe atrocità.
Il maresciallo dei carabinieri era stato ucciso, quasi sicuramente dai partigiani, e il suo corpo giaceva a terra, con il teschio sfracellato.
Poco distante, altri corpi dilaniati e ammucchiati formavano una specie di avvertimento contro coloro che avevano collaborato con i tedeschi e con la RSI.
Un contadino con cui Ettore Ricci aveva litigato, e che era soprannominato "Baracca" per il luogo dove viveva, passava da un'osteria all'altra, ubriaco fradicio, a denunciare i Ricci-Orsini come dei voltagabbana.
Ma se questo era vero per gli Orsini, non era ancora vero per tutti i Ricci, tanto che Adriana, sorella di Ettore, era stata fermata dai partigiani sulla via di Salò e rapata a zero. 
Il vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci era riuscito comunque a cavarsela versando un'enorme quantità di denaro nelle casse di tutti i gruppi che avevano fatto la Resistenza e aveva scritto ai figli Oreste e Roderico (riparati in Svizzera) che presto l'ordine sarebbe tornato a Casemurate.
Ettore Ricci fece valere il sostegno fornito ai partigiani cattolici e liberali, ma c'era da fare i conti con i repubblicani, i socialisti e i comunisti.
E qui si presentò la prima grande occasione per il braccio destro di Ettore, Michele Braghiri, che durante il periodo della RSI era rimasto defilato in secondo piano, ma nei giorni immediatamente precedenti la Liberazione aveva preso contatto con i comunisti e aveva offerto il proprio sostegno.
Da quel momento, seppur in modo informale, Braghiri divenne il protettore e il punto di riferimento del Partito Comunista nella Contea di Casemurate.
Ettore vedeva i comunisti come il fumo negli occhi, ma sapeva che, per alcuni anni, avrebbe dovuto tenere a freno le proprie opinioni in merito.
Per questo accettò il ruolo di mediazione del suo amministratore.
Michele Braghiri, che faceva il doppio gioco, come sempre, gli disse che il Partito intendeva creare in Emilia-Romagna un modello di socialismo compatibile con la proprietà privata, e dunque consigliava alla famiglia Ricci-Orsini di far entrare il Feudo in una Cooperativa, una mossa che avrebbe permesso in prospettiva anche un notevole risparmio fiscale.
Nel frattempo quel che restava della dinastia Orsini Balducci di Casemurate e delle famiglie ad essa legate da vincolo di parentela, ci furono molte altre "grandi manovre" per cercare coperture politiche.
Il conte Achille, come suo ultimo atto politico, ebbe un colloquio molto costruttivo col neo-eletto segretario provinciale della Democrazia Cristiana, l'avvocato (e futuro deputato) Edoardo Baroni e gli spiegò perché, tutto sommato, anche se l'Italia fosse diventata una repubblica, l'aristocrazia avrebbe comunque mantenuto un suo ruolo, il politico chiese: <<E quale ruolo sarebbe?>>
<<Voi vi rivolgerete ad un elettorato anticomunista che richiede stabilità e solidità in un edificio sociale pieno di crepe. Il compito di una sobria e virtuosa aristocrazia sarà quello di nascondere queste crepe mostrandosi tranquilla e serena e infondendo tranquillità e serenità a tutto l'elettorato conservatore, che in Italia è quasi sempre maggioritario>>
Il futuro onorevole Baroni, che era anche marito di Caterina Ricci, sorella di Ettore, e dunque conosceva bene i segreti di famiglia, ebbe un'unica obiezione:
<<Quando parlate di sobria e virtuosa aristocrazia, esprimete un lodevole proposito, più che, se mi è permesso, un fedele ritratto di famiglia>>
In gioventù il conte Orsini aveva sfidato a duello persone ben più importanti per frasi assai meno vere. Ma i tempi erano cambiati, ed era cambiato anche lui.
<<Voi siete un uomo religioso, avvocato Baroni, quindi saprete che l'aristocrazia fonda spiritualmente i suoi privilegi su due concetti: la Grazia di Dio e gli obblighi che ne conseguono. La Grazia non è un capriccio, è parte di un disegno superiore, ossia quella che chiamiamo Divina Provvidenza. Ora, io ammetto di non essere stato all'altezza di tutto ciò, e sono pronto a farmi da parte, purché sia consentito ai miei figli superstiti di compiere il loro destino>>
L'avvocato accennò un lievissimo sorriso:
<<Vostra figlia Diana è mia cognata, e dunque il suo destino è legato al mio dallo stesso Grande Disegno, perché vedete, signor Conte, il disegno che io ho in mente per la mia carriera politica è decisamente molto grande. Pertanto io farò la mia parte per sostenere il prestigio degli Orsini di Casemurate e in particolare del clan Ricci-Orsini, ma voi dovrete fare in modo che i vostri familiari si attengano a comportamenti più consoni a quelli di un devoto cattolico che intende permanere nella Grazia di Dio>>
Il conte Achille l'avrebbe volentieri preso a schiaffi e invece gli tese la mano, con l'aria solenne e compunta di colui che sta percorrendo un salvifico cammino di espiazione e redenzione.
Ma in tutto questo avvicendarsi di patti e di riposizionamenti politici e strategici, la sorpresa fu grande un'altra.
Improvvisamente, così com'erano spariti, i De Toschi, padre e figlia, ricomparvero nella loro dimora.
Raccontarono una storia tanto commovente quanto inventata secondo cui il Generale, due anni prima, alla vigilia dell'8 settembre, era accorso a Roma ad offrire al Re in persona la propria vita e la propria spada, per poi scortarlo a Brindisi ed essere sempre presente per difenderlo, consigliarlo e confortarlo.
La Signorina mostrò a tutti le lettere grondanti di affetto e gratitudine (oltre che di contraffazione) che Sua Altezza Reale Maria José, Principessa di Piemonte, le avrebbe scritto in quei due anni di profonda amicizia e corrispondenza.
Per fare da contrappeso alla fede monarchica dei De Toschi, Ettore Ricci convinse il cognato giudice De Gubernatis, a iscriversi al Partito Repubblicano, che in Romagna poteva contare su molti voti.
Il Conte approvò: dal momento che De Gubernatis era sposato con Ginevra Orsini, la dinastia poteva considerarsi coperta anche sul fianco sinistro, nel caso non ci fosse più la Corona a garantire la solidità dei titoli nobiliari.
Solo qualche anno dopo, quando l'Italia era divenuta ormai saldamente una Repubblica, la Signorina De Toschi confessò alla contessa Emilia Orsini che lei e suo padre, tra il '43 d il '45, avevano trovato protezione in Vaticano, grazie all'interessamento dell'onorevole Baroni, e dunque il loro sostegno al partito monarchico era solo di facciata, mentre nei fatti votavano la Democrazia Cristiana.
Alla fine, quando nel dicembre del 1945 De Gasperi divenne Presidente del Consiglio, anche Ettore Ricci tenne un discorso all'intera famiglia allargata, citando le parole del grande statista democristiano:
<<Solo se saremo uniti saremo forti. Solo se saremo forti, saremo liberi>>
Tutti i dissapori interni vennero dunque, temporaneamente, messi da parte.
E così i Ricci-Orsini riuscirono a salvare, almeno per un altro po' di tempo, la vita, la famiglia, la Villa, il Feudo e la Contea.