lunedì 12 novembre 2018

Geopolitica e rimescolamento delle alleanze in Medio Oriente

Carta di Laura Canali, 2018.

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Carta di Laura Canali, 2017.
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“Al giorno d’oggi, una mosca non può ronzare sopra la Siria senza il consenso russo” è la frase con cui un funzionario della Difesa israeliana commentò l’installazione in Siria del sistema S-400 al think tank International Crisis Group. E questa frase può essere una sintesi eloquente di cosa significhi per Israele l’arrivo dei russi a Damasco e dintorni.

Per il primo ministro Benjamin Netanyahu, le frasi dell’ex ministro non possono certo essere un aiuto. Frasi del genere non fanno che dimostrare quanto sospettato da molti, e cioè che ormai sia Putin il vero tessitore della trama mediorientale. Se oggi la torre di controllo degli interventi in Siria è a Mosca, significa che tutto passa per il Cremlino.

Per Putin un compito non facile. Le forze in campo nella guerra di Siria, soprattutto in questa fase così complessa, hanno interessi diametralmente opposti. Molti sono finti alleate, altri, finti nemici. Controllare il gioco dei raid e degli interventi è difficile e adesso, con la ritirata americana dalla posizione di leadership del conflitto, è la Russia a dover gestire i suoi alleati, i suoi nemici ma anche Stati che non sono alleati ma che restano comunque inevitabili partner, vedi Israele.

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In una intervista al Washington Post, l'erede al trono saudita ha rivelato un segreto di Pulcinella, ma che non esce spesso sui media mainstream: l'ideologia estremista wahhabita è stata propagata da Riyadh dagli anni '70 in poi, su richiesta degli alleati occidentali del Regno, al fine di contrastare l'influenza dell'URSS nei paesi musulmani. Sono state quindi finanziate moschee e madrasse in tutto il mondo, per diffondere questa versione radicale dell'Islam. Secondo bin Salman, i governi sauditi hanno via via perso il controllo della situazione, ma ora, ha detto,“dobbiamo riprendere il controllo di tutto”.

Succede qualcosa di interessante nella politica estera di Israele per le sue alleanze nel Mediterraneo. La prima notizia viene sull’asse tra Atene e Tel Aviv e sono notizie che non vanno sottovalutate nell’ottica dell’equilibrio del Levante. Il capo di stato maggiore dell’Idf, il generale Gadi Eisenkot, è andato ad Atene ospite del capo di Stato maggiore greco, mentre il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, ha ospitato il ministro della Difesa greco in Israele.

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Gli incontri ci dicono molto sul consolidamento di un rapporto, quello fra Israele e Grecia. Un asse in cui rientra anche Cipro, che vive una politica praticamente ancillare a quella greca. L’anno scorso, Netanyahu il presidente Reuven Rivlin hanno fatto visita in Grecia per incontri con i loro omologhi di Atene, mentre, sempre nel 2017, ci sono stati una serie di importanti incontri fra i vertici militari, fra  cui la visita dei capi di Stato maggiore greco e cipriota in Israele e le visite dei comandanti della marina israeliana e delle forze di terra in Grecia.

A queste visite, si aggiunge poi l’avvio di importanti esercitazioni militari congiunte e dell’utilizzo del territorio e dei cieli di Grecia e Cipro per esercitazioni delle forze delle Idf. L’anno scorso, le forze armate israeliane hanno svolto importanti manovre nell’isola di Cipro per addestrarsi in una guerra che ricordava molto l’eventualità di un conflitto in Libano, anche per la conformazione del territorio. Mentre in Grecia, vi sono state esercitazioni congiunte con l’aeronautica israeliana. Grazie ai legami militari con Grecia e Cipro, Israele ora ha la possibilità di allenarsi in condizioni che non è in grado di trovare vicino a casa (catene montuose per le forze speciali, voli lunghi, gestione di sistemi antiaerei fabbricati in Russia per l’aviazione).

L’asse tra Tel Aviv, Nicosia e Atene nasce per due ragioni: l’erosione dei rapporti fra Israele e Turchia e la scoperta dei giacimenti di gas nei ricchi fondali israelianie e ciprioti con la possibilità di costruire un gasdotto che avesse come terminale la Grecia e quindi l’Europa. Negli anni Novanta, come ricorda Haaretz, Israele considerava la Turchia come suo alleato strategico nella regione. L”ascesa del presidente Erdogan, che ha un’identificazione ideologica infinitamente più grande con i palestinesi, ha di fatto reso impossibile la partnership strategica. Pur mantenendo comunque importanti legami commerciali e industriali.

Sotto l’amministrazione di Barack Obama, i due governi avevano tentato una riconciliazione, ma è stato tutto abbastanza inutile.L’incidente della Freedom flotilla, il neo-ottomanesimo di Erdogan e il suo proporsi come portavoce della causa palestinese hanno consegnato delle relazioni bilaterali del tutto negative. Così Israele ha spostato il suo occhio altrove, sia ad ovest che ad est, tra i Paesi sunniti che contestano la politica turca.

La visione regionale di Netanyahu vede dunque non soltanto il contenimento e contrasto all’Iran, ma anche la costruzione di una nuova serie di alleanze che vanno dall’Egeo al Golfo Persico, in particolare con Arabia Saudita, Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti. Netanyahu conta su molti fattori, ma tre sono essenziali: l’ascesa di Trump e l’asse con i sauditi, la costruzione di un potere nel settore del gas che leghi Cipro e Grecia all’energia israeliana, e, infine, il declino dell’interesse mondiale per la causa palestinese, che ormai non attrae neanche più tanto i Paesi un tempo fieri difensori del popolo arabo.

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L’Egitto, in questo senso, è esemplare. Il mese scorso, parlammo proprio su questa testata delle rivelazioni del New York Times sugli attacchi aerei condotti da Israele nella penisola del Sinai contro il ramo locale dell’Isis, in aiuto alle forze di al-Sisi. Questa settimana, l’Egitto, con l’approvazione di Israele e in violazione dell’accordo di pace tra i due Paesi, ha raddoppiato il numero dei suoi soldati schierati nel Sinai come parte delle loro forze impegnate contro lo Stato islamico. E l’asse del gas fra i giganti israeliani e quelli del Cairo è la certificazione anche monetaria di questa alleanza che, fino a pochi decenni fa, appariva impossibile.

è riemersa con forza l’ipotesi di un intervento militare dei Paesi del Golfo. Martedì è arrivata la conferma da parte del ministro degli Esteri di Riad Adel al-Jubeir. Sauditi e alleati sono disponibili e un loro contingente renderebbe possibile il ritiro delle truppe a stelle e strisce, magari entro quest’anno come vorrebbe Donald Trump.

Usa e Arabia Saudita hanno aggiornato un’idea soppesata fin dal 2015, quando l’intervento russo ha salvato il raiss. Alla fine Barack Obama scelse di appoggiare i guerriglieri curdi dello Ypg, in modo da fermare l’Isis ma senza rovesciare il regime. Come in una partita a scacchi, però, l’appoggio allo Ypg ha spinto la Turchia al fianco della Russia e dell’Iran. E ora Washington si trova davanti a un altro dilemma. Se lascia mano libera a Erdogan lo Ypg verrà distrutto e la Siria spartita fra le tre potenze del «patto di Astana». Se non cede deve restare in un angolo di Siria per anni. L’armata sunnita può risolvere il dilemma.

Già nel febbraio del 2016 l’Arabia Saudita aveva ammassato migliaia di uomini di 20 nazioni nell’esercitazione Tuono del Nord. Era l’abbozzo dell’alleanza che ha coinvolto Egitto e Pakistan e ha avuto il suo banco di prova nella guerra in Yemen, dando scarsa prova di sé. Un’operazione in Siria presenta molti più ostacoli legali e logistici. Si tratta di entrare nel territorio di uno Stato sovrano senza mandato Onu, in quanto la Russia porrà il veto. L’idea iniziale, nel 2015, era di un’offensiva dalla Giordania che avrebbe portato le truppe sunnite a congiungersi con i ribelli alla periferia di Damasco, in quella Ghouta orientale schiacciata da Assad proprio per evitare rischi di questo tipo. A completare l’opera di messa in sicurezza della capitale ieri l’esercito siriano ha lanciato l’assalto anche al campo di Yarmouk, controllato ancora dall’Isis, e all’enclave sui Monti Qalamoun.

Per «l’armata sunnita» ora l’unica via di accesso è attraverso l’Iraq, un Paese dove le milizie sciite hanno già minacciato azioni contro le truppe Usa. Teheran non intende arretrare. Ieri il presidente Hassan Rohani ha rilanciato il piano di riarmo, che prevede anche l’operatività del sistema anti-aereo S-300. Sistemi russi sono stati trasferiti anche dall’Iran alla Siria. Indiscrezioni israeliane hanno precisato che l’obiettivo del raid del 9 aprile sulla base T4 era anche una batteria anti-aerea Tor. Gli iraniani dispongono già di dozzine di batterie più piccole e c’è il sospetto che abbiamo partecipato all’abbattimento di un F-16 con la Stella di David lo scorso 10 febbraio.

Il Nuovo Impero Persiano

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