lunedì 30 dicembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 41. Amore e morte

Diana si recava in città nei giorni di mercato. Come scusa non era un gran che, ma l'importante era salvare le apparenze.
L'autista la lasciava all'inizio del Corso.
Federico, il suo amante, la aspettava all'Hotel de Ville.
La cosa andava avanti ormai da tempo, ma l'entusiasmo era sempre grande, come se fosse la prima volta.
Nella vita di Diana, in cui tutto era arrivato tardi: l'amore, la felicità, ogni dono era maggiormente apprezzato e nulla era dato per certo.
Quando erano insieme, lei e Federico perdevano la cognizione del tempo.
Poteva anche crollare il mondo, ma loro non se ne sarebbero accorti.
L'amore in età adulta ha dei vantaggi: l'esperienza, la capacità di concentrarsi sul presente e la consapevolezza che ogni singolo istante va vissuto in sé e per sé, al di fuori da qualsiasi progettualità, perché la maturità è il momento in cui tutto è al suo apice.
Erano entrambi sposati, vincolati a matrimoni di convenienza, che erano stati scelti dalle rispettive famiglie, quando erano giovani.
In una vita che era stata come una tempesta con rari sprazzi di sole, Diana aveva imparato a trarre da quel breve sole la massima gioia possibile.
Certo sapeva che ci sarebbe stata una fine, che prima o poi qualcosa o qualcuno si sarebbe messo nel mezzo, come sempre succede quando un amore è vissuto in clandestinità, ma preferiva non pensarci, perché, quando si ama, il presente è tutto il tempo che esiste.
L'appagamento che le derivava dal tempo trascorso insieme all'uomo che amava, rendeva Diana pienamente tranquilla e lucida, e quindi anche attenta e discreta nel modo di gestire quella situazione.
Non era gelosa, non era possessiva, non era suscettibile.
E del resto non lo si è mai, quando si è felici.
Per tutto il tempo della loro storia, Federico e Diana non parlarono mai di se stessi in termini assoluti, con espressioni logore e iperboliche come "anima gemella" o "unico vero amore". Sapevano entrambi che certe cose si possono sapere soltanto alla fine della vita.
E forse anche questa capacità di non aver bisogno di parole e di etichette per essere felici insieme, derivava dal fatto di essere persone adulte.
Solo gli adulti riescono a tenere insieme amore e saggezza, perché hanno imparato a cogliere le occasioni quando si presentano, e a non rovinarle per futili motivi.
In modo particolare riescono ad essere saggi in amore coloro che in gioventù hanno subito un grave torto. Diana lo sapeva bene, e da questo traeva forza.
Era consapevole del fatto che le persone danneggiate hanno un vantaggio: sanno di poter sopravvivere.
Ci sarebbe stato, dopo, alla fine di tutto, un tempo per le riflessioni e per la rielaborazione del ricordo.
<<Prima si vive, poi si filosofeggia>> era uno dei proverbi preferiti di Diana e uno dei consigli che, in tarda età, avrebbe espresso ai nipoti, soprattutto a quelli che sembravano non imparare mai quella lezione.
Ma vivere significava prima di tutto sopravvivere.
E Federico Traversari non apprese mai quell'arte.
Per quanto fosse stato discreto e prudente, non lo fu abbastanza da sfuggire alle trame della famiglia Braghiri, che per l'ennesima volta decise di colpire una persona cara a Diana Orsini per far ricadere i sospetti sul marito di lei, Ettore Ricci.
Quest'ultimo, pur sapendo che Diana lo tradiva, aveva comunque tollerato la cosa, perché era avvenuta con estrema discrezione e in paese nessuno se n'era accorto.
Se invece fosse accaduto qualcosa di brutto a Federico Traversari, allora sì che un nuovo scandalo si sarebbe abbattuto sul clan Ricci-Orsini, ed era proprio questo che Ettore voleva evitare.
Ma il suo braccio destro Michele Braghiri, roso dall'invidia e dal desiderio di diventare il "numero uno" all'interno della Contea di Casemurate, decise di agire con i suoi consueti metodi, ossia mascherando la morte per un "tragico incidente".
Ancora una volta agì da solo, per assicurarsi di non lasciare tracce.
Bisognava che l'incidente avvenisse nella zona di giurisdizione dei cognati di Ettore, e cioè l'ispettore Onofrio Tartaglia e il giudice istruttore Guglielmo De Gubernatis.
Questa volta però sarebbe stato troppo rischioso manomettere un mezzo di trasporto.
Bisognava che Traversari fosse investito, nel luogo e nel momento opportuno.
Braghiri si procurò un'auto destinata alla demolizione, in un "cimitero" delle macchine che si trovava nelle vicinanze di un grande orto dove in gioventù aveva lavorato come semplice bracciante.
Poi si appostò nel punto in cui la via Ravegnana entrava nella provincia di Forlì, dalle parti di Borgo Sisa, e lì attese il passaggio dell'auto di Federico.
Michele conosceva bene quella zona, avendo trascorso l'infanzia a Durazzanino, un paese nelle vicinanze, che cadeva già nella provincia di Ravenna.
Non c'era ancora molto traffico all'epoca, specie a quell'ora del giorno.
Erano le quattro del pomeriggio, l'ora degli adulteri, e anche degli omicidi.
Quando finalmente la macchina di Traversari si avvicinò al punto in cui la via Ortolani, dove era appostato Braghiri, si immetteva nella via Ravegnana, in aperta campagna, la trappola mortale scattò.
Con velocità sostenuta, Michele Braghiri speronò Federico Traversari, e continuò a spingere sull'acceleratore finché l'automobile di quest'ultimo non precipitò nel fiume Ronco.
Poi Braghiri, illeso grazie al casco e alle altre misure protettive che aveva indossato, uscì dall'auto in fretta e furia, e le lanciò uno zolfanello per darle fuoco.
Infine si diede alla fuga, contando sull'anonimato che gli dava il casco.
A quell'ora tutti i contadini della zona erano ancora a dormire per la "siesta" pomeridiana.
Ancora una volta, Braghiri riuscì a farla franca, dimostrando che, a questo mondo, il male è la regola, non l'eccezione.

domenica 29 dicembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 40. Francesco Monterovere fugge dal collegio

Nel 1956, Francesco Monterovere aveva diciassette anni ed una sola granitica certezza: non intendeva rimanere un giorno di più nel rigido collegio dei Salesiani.
La decisione incriminata di evadere dalle recinzioni di quello che per lui era un lager fu presa in seguito ad un susseguirsi di eventi.
In quel periodo tutta la sua famiglia era impegnata a festeggiare l'ottantacinquesimo compleanno di sua nonna Eleonora Bonaccorsi, vedova Monterovere.
Era stata una grande festa di famiglia, a cui tutti i Monterovere, i Bonaccorsi e i Bassi-Pallai avevano partecipato, con abbondanti scorpacciate e libagioni.
Francesco aveva ottenuto il permesso di unirsi alla festa.
Quando era arrivato, prima degli altri invitati, sua zia Anita, a tradimento, gli aveva scattato una foto in cui il ragazzo appariva cupo, tenebroso e ribelle.
La serata era stata pesante. Francesco aveva rivisto tutti gli altri zii, ma soprattutto i suoi genitori Romano e Giulia, sua sorella Enrichetta, che lavorava già come segretaria dell'Azienda Fratelli Monterovere, e suo fratello Lorenzo, che frequentava il ginnasio.
E qui incominciò la maturazione dell'idea della fuga:
<<Se Lorenzo frequenta il Ginnasio da casa, allora anch'io voglio frequentare l'ultimo anno di Liceo Classico da uomo libero>> aveva detto ai genitori e gli zii, suscitando l'ilarità generale.
Nessuno lo aveva preso sul serio.
Alla sera aveva dormito dalla nonna e contava di andare con i genitori a parlare ai Salesiani della sua decisione.
Purtroppo, per una singolare applicazione della Legge di Murphy, il giorno dopo accadde un'imprevista tragedia: suo zio Ferdinando, che aveva mangiato e bevuto con particolare voracità, si sentì male e morì d'infarto a soli cinquantotto anni.
La festa si tramutò subito in lutto, e fu un lutto molto grave, anche perché Nando era il vero dirigente dell'Azienda Fratelli Monterovere, il vero uomo d'affari, e i suoi figli, che pure erano destinati a succedergli in quel ruolo, erano ancora troppo giovani.
Tocco dunque al fratello Romano, seppure non avesse la stoffa del leader, assumere temporaneamente la guida dell'Azienda, insieme al vecchio suocero, il visionario ingegner Lanni, il Profeta delle Acque che sognava di rendere navigabili i fiumi della Romagna.
L'altro fratello, Edoardo, garantì come sempre la "copertura politica" da parte del PCI, specie per garantire i finanziamenti al grande progetto del Canale Emiliano Romagnolo per l'irrigazione agricola.
Quando Romano spiegò al figlio Francesco che gli eventi di quei giorni richiedevano la sua presenza altrove e gli impedivano di recarsi dai salesiani, il ragazzo tornò in collegio, ma con l'intenzione di uscirvi il prima possibile e il momento della fuga fu deciso quando gli arrivò per posta la foto che sua zia Anita gli aveva scattato il giorno del compleanno della nonna.
Vedersi così conciato, quasi come un novizio che avesse fatto voto di povertà, lo fece inorridire.
Francesco mise subito in atto il piano.
Quella notte, quando i suoi compagni di stanza si furono addormentati, prese il suo zaino e si diresse verso una zona dove l'alto cancello acuminato era affiancato da un ciliegio. Si arrampicò sul ciliegio e si trascinò con le mani lungo un ramo che andava oltre il cancello. 
Il ramo si piegò sempre di più, anche se all'epoca Francesco, pur essendo già alto più di un metro e ottanta, era talmente magro e denutrito da pesare pochissimo.
Si lasciò andare e se la cavò con qualche graffio e una sbucciatura di cui rimase la una cicatrice a forma di croce: l'ultimo ricordo dei Salesiani.
Si diresse subito dallo zio Edoardo, il quale, essendo comunista, odiava i preti e avrebbe fatto qualunque cosa pur di togliere il nipote dalle loro grinfie.
L'unico prezzo da pagare fu ascoltare per la milionesima volta i racconti puramente inventati da Edoardo riguardo alle sue presunte (per lo più inventate) imprese eroiche durante la Resistenza.
I Salesiani, non appena si accorsero che Francesco era fuggito, si rivolsero alla sua protettrice, la marchesa Zucconi, Dama di San Vincenzo, la quale subito individuò il rischio del pericolo comunista:
<<Quel suo zio è peggio di Lenin!>> dichiarò <<Sarebbe capace di tutto!>>
La delegazione andò ad affrontare il Lenin di Faenza e lo trovò particolarmente bellicoso.
<<Mio nipote non si muove di qua. Garantisco io per lui, e sapete che la mia parola pesa molto, da queste parti>>
Francesco fu irremovibile nel rifiuto di non tornare.
<<Non gli faremo superare l'anno di scuola>> minacciò il prete-vicepreside.
Ma lo zio Tommaso aveva già trovato la soluzione:
<<Darà gli esami di ammissione alla terza Liceo da privatista. E se non sarà presentato bene, sarete voi a fare una brutta figura>>
Alla fine si arrivò ad un compromesso: Francesco sarebbe stato promosso con la media del 6, molto più bassa di quella reale, ma avrebbe potuto accedere all'ultimo anno del Liceo Classico pubblico se, come prevedeva la legge per chi proveniva da scuole confessionali, avesse superato l'esame di ammissione. 
Lo superò con la media dell'otto e finalmente, alle soglie dei 18 anni, poté tornare a gustare il sapore della libertà, di cui per troppi anni aveva perso anche il ricordo.

sabato 28 dicembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 39. Io non so l'amore vero che sorriso ha

"Lady Diana" Orsini, contessa di Casemurate, entrò, per sua fortuna, in menopausa molto presto, nel 1955, all'età di soli 42 anni.
Ormai non doveva inventare più scuse per evitare le avances del marito Ettore Ricci, il quale andava a cercare altrove le sue avventure, e non reclamava ormai più l'erede maschio: aveva deciso che le figlie femmine gli sarebbero servite per utili alleanze matrimoniali, sperando che quelle unioni sarebbero andate meglio della sua.
Mentre Ettore era fuori casa, cioè quasi sempre, e le figlie erano a scuola o in compagnia delle nonne, Diana si dedicava al giardinaggio, un passatempo che trovava nel contempo rilassante e salutare.
Un giorno ricevette la visita di Federico Traversari, che non vedeva da tre anni ormai.
Erano stati sul punto di diventare cognati, perché la sorella di lui, Anastasia, era fidanzata col fratello di lei, Arturo.
C'era stata una reciproca attrazione fin da quando si erano conosciuti, ai tempi in cui Federico accompagnava Anastasia a Villa Orsini.
Poi però Arturo era morto in quel maledetto incidente, e poi lo stesso conte Achille si era ammalato e aveva seguito il figlio nella tomba, e per Diana c'era stato soltanto un lungo letargo fatto di sedativi e antidolorifici, da cui si era ripresa soltanto pochi mesi prima.
Federico si era sposato, ma non appariva felice.
Questo non fece altro che rafforzale la convinzione di Diana secondo cui i matrimoni sarebbero dovuti essere aboliti, e puniti con grave sanzione penale.
<<Federico, quanto tempo è passato!>>
Lui annuì:
<<Il tempo può avere invecchiato me, ma non la bellissima Contessa Orsini di Casemurate>>
Diana sorrise:
<<Sempre il solito adulatore. Comunque almeno adesso sto un po' meglio... voglio dire, per quasi vent'anni non ho avuto tregua: il matrimonio con Ettore, le gravidanze, la guerra, la morte di Isabella, di Arturo e di mio padre... c'è stato un momento in cui ho creduto di impazzire. Ma poi ho pensato alle mie figlie: hanno bisogno di me, specialmente Silvia, che vorrebbe proseguire gli studi. Ettore non ne vuol sentir parlare, ma mio padre le ha lasciato un fondo vincolato per pagare il collegio, il ginnasio e tutto il resto. Io farò in modo che lei possa laurearsi, come avrei voluto fare anch'io... ma erano altri tempi...
E tu? Cosa mi racconti?>>
Lui si rabbuiò:
<<Credevo che il matrimonio mi avrebbe permesso di dimenticare... e invece non è stato così>>>
Lei ebbe un sussulto:
<<Dimenticare cosa?>>
Federico la fissò con intensità:
<<Dimenticare te. Quello che provo per te>>
Diana rivolse lo sguardo a terra, confusa:
<<Io non sono niente di speciale. Ho quarantadue anni, se mai c'è stata una qualche bellezza in me, ormai è sfiorita. In compenso il mio naso sembra ancora più lungo... Ettore dice che ormai sembro De Gasperi>>
Federico rise:
<<Ah ah... ma che sciocchezza! Solo a Ettore poteva venire in mente! Lui piuttosto sembra Fanfani>>
Risero entrambi.
<<Mi ricorderò di dirglielo, alla prossima occasione!>>
Federico annuì, poi tornò sull'argomento che gli premeva:
<<Diana, io... riguardo a quello che provo per te... parlavo sul serio, io non ho mai smesso di pensare a te. Ho provato in tutti i modi di dimenticarti, ma c'è qualcosa in te, qualcosa di unico... a me piace tutto di te, l'aspetto, la personalità, il carattere... anche il naso, io adoro il tuo naso... vorrei ricoprirlo di baci>>
Lei sorrise:
<<Oh, avanti, Federico... con tutte le donne che ci sono al mondo!>>
Lui si fece serio:
<<Tu sei mai stata innamorata?>>
Diana socchiuse gli occhi, come se provasse a ricordare qualcosa:
<<L'unico amore che ho conosciuto è quello dei romanzi che ho letto. Un amore per interposta persona. Ma nella vita reale... io non so cosa sia l'amore... non so che volto abbia, che sorriso abbia... forse in passato ho creduto che avesse il tuo volto, il tuo sorriso, ma poi ho saputo che ti eri sposato e da allora...>>
Federico annuì:
<<Ho commesso il più grave errore della mia vita. Ma da allora ogni volta che chiudo gli occhi io vedo te. Ti sogno la notte, parlo con te nei miei pensieri... il primo e l'ultimo pensiero di ogni giornata, sempre...>>
Anche Diana aveva pensato a lui, ma più che altro come a una pura fantasticheria, come uno dei suoi romanzi, e quella dichiarazione la spaventava:
<<Nessuno mi aveva mai detto parole più belle... io... io non ci sono abituata. Capisci, io non ho mai vissuto veramente, se non come riflesso della vita di altre persone, spesso di personaggi inventati. 
Ma in realtà sono sempre stata sola, mi sono abituata alla solitudine, in un certo senso mi piace...>>
<<Però non sei felice>>
<<Io non credo alla felicità>>
<<Permettimi di dimostrare il contrario. Sei troppo giovane per rassegnarti a vivere nella solitudine nel rimpianto. Ringraziamo il destino che ci ha fatti incontrare. La vita incomincia adesso>>
Diana si guardò intorno:
<<Ma anche volendo, come potremmo fare? C'è la mia governante che non aspetta altro che cogliermi in flagrante adulterio per farmi cadere in disgrazia>>
Federico abbassò la voce:
<<Tu non mi sembri maldestra e ingenua come Madame Bovary e nemmeno impulsiva e provocatoria come Anna Karenina. Dai romanzi hai appreso quali sono gli errori da non fare.
Il resto, se mi concederai questa possibilità, te lo insegnerò io>>


venerdì 27 dicembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 38. La lista nera di Enrico Monterovere

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Quando Enrico Monterovere compì 86 anni, nel 1953, gli rimaneva un solo desiderio, piuttosto stravagante, tanto che ben pochi lo prendevano sul serio: voleva vivere almeno un'ora in più di Stalin. Non gli aveva perdonato l'assassinio di Trotsky,
Ma c'era anche un'altra ragione, ancora più singolare.
Anni prima infatti Enrico, mentre era in osteria con gli amici, ubriaco fradicio, aveva dichiarato solennemente che sarebbe morto contento se fosse riuscito a sopravvivere a un certo numero di persone, di cui aveva persino stilato l'elenco.
Non c'erano solo suoi conoscenti, ma anche personaggi pubblici nei confronti dei quali, per motivi ignoti a tutti e forse persino a lui stesso, nutriva del risentimento: tra questi, per esempio, oltre al già citato Baffone, c'erano l'ex Re d'Italia Vittorio Emanuele III, il re d'Inghilterra Giorgio VI e molti altri capi di stato che avevano avuto un ruolo nella devastazione dell'Europa durante la guerra.
Li aveva seppelliti tutti tranne uno: Stalin.
Non dovette però aspettare a lungo.
All'alba del 5 marzo 1953 in seguito alle complicazioni di un ictus, il leader sovietico si avvicinava alla fine. Drammatici furono i suoi ultimi istanti di vita: convinto di essere vittima di una congiura, Stalin maledisse i capi comunisti riuniti attorno al divano sul quale giaceva, e poi morì.
Naturalmente questa versione dei fatti, narrata dalla figlia Svetlana, venne fuori soltanto molti decenni dopo.
Già il fatto stesso che Stalin fosse morto risultava difficile da comunicare.
Nel tardo pomeriggio, alla fine, la radio confermò a tutto il mondo la notizia.
Ognuno reagì a modo suo, a seconda del proprio credo, ma quasi certamente la reazione più singolare fu quella del vecchio Enrico Monterovere, che dichiarò: <<Trotsky, sei vendicato!>> e provvide subito a depennare il nome di Stalin dalla propria lista, ma nel farlo, accorgendosi che era l'ultimo, fu assalito da un lugubre presagio.
Poche ore dopo, appena finito di cenare, Enrico avvertì un leggero malessere.
Si misurò la febbre, aveva 38. 
Si mise a letto.
Prese una medicina, ma la temperatura continuò a salire.
Sua moglie Eleonora gli portò una pezza intrisa di acqua fresca, ma Enrico vaneggiava.
Nel delirio gli parve di vedere un cavaliere in un bosco di montagna.
Era suo padre, il leggendario Ferdinando, morto quarant'anni prima disarcionato da cavallo presso l'Orma del Diavolo.
I folletti dei boschi erano con lui.
<<Sono venuti a prendermi>> sussurrò <<torno dai miei padri, nei boschi di Monterovere>>
Furono le sue ultime parole.
Poco dopo, nel momento del trapasso, assunse un'espressione serenacome se veramente le montagne boscose della sua gioventù lo stessero accogliendo con un coro di fronde fruscianti, percorse da una brezza leggera.

martedì 24 dicembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 37. Il potere del Trio

Nei suoi ultimi giorni di vita, il vecchio conte Achille Orsini di Casemurate, da tempo ricoverato in una clinica, ebbe la consolazione di essere vegliato dalle sue nipoti preferite, le tre considerevoli sorelle Ricci-Orsini, figlie della primogenita Diana e di Ettore Ricci.
Era il giugno del 1952, il clima era mite e l'aria profumata dall'aroma dei fiori di tiglio.
Si ricordò i versi di un poeta americano, che Diana gli aveva letto in un giorno simile a quello, tantissimi anni prima, quando ancora tra loro c'era una reciproca adorazione:
"Cosa c'è di più raro di una giornata di giugno?"
 What is so rare as a day in June? Il nome del poeta era Lowell... James Russell Lowell di Boston.
La Visione di Sir Launfall, o qualcosa del genere...
Il solo ricordo di quel giorno lontano gli confermava la verità di quel verso: allora e solo allora lui e sua figlia erano stati pienamente felici. Lui si era illuso che quello fosse solo l'inizio, solo il preludio di una vita felice, e non si era accorto che era quella la felicità, in quella lontana, rara giornata di giugno. Era quella, e non era più tornata.
Lui aveva rovinato la vita a Diana e gli altri suoi figli, per non parlare di sua moglie.
Ma grazie al cielo c'era il sollievo di quelle tre nipoti, che arrivavano sempre insieme, accompagnate dal severo autista dei Ricci-Orsini, e portavano le scuse da parte degli altri parenti.
Erano diverse e complementari tra loro, tanto da costituire una sorta di piccola trinità.
Margherita, la più grande e la più bella, che a tredici anni era come un fiore appena sbocciato, cercava di recitare con compostezza la parte che aveva imparato a memoria: "La nonna è andata a pregare alla tomba di Arturo e Isabella, la mamma ha l'emicrania e il babbo ha avuto un contrattempo sul lavoro".
Il Conte, naturalmente, non credeva a una mezza parola e puntava lo sguardo verso la nipote di mezzo, Silvia, che aveva dodici anni, e pur essendo la più intelligente delle tre e la più portata per gli studi, era del tutto incapace di mantenere un segreto:
<<Be', a dire il vero la nonna è ubriaca fradicia, la mamma sta dormendo e non vuole essere svegliata prima di mezzogiorno, e il babbo ha detto che sarebbe stato meglio se anche noi fossimo rimaste a casa>>
Il Conte non poté fare a meno di ridacchiare.
Adorava Silvia, era la sua preferita. Le aveva anche lasciato in eredità, come legato personale, gli oggetti che aveva amato di più, e che avevano nel contempo un valore affettivo e sostanziale.
<<Ma voi siete delle brave nipoti e siete venute lo stesso a trovare il vostro vecchio nonno>>
Parlare gli costava fatica, ma era ben spesa, perché quelle tre nipoti avevano il potere di rasserenarlo.
Isabella, la più piccola delle tre, che aveva solo otto anni, era la più sveglia, e con il maggior senso pratico.
E infatti annunciò subito:
<<La signora Ida ci ha detto che magari ci facevi un regalino>>
Il nonno sorrise: Isabella, delle tre, era quella che assomigliava di più ad Ettore, era una vera Ricci, era badava al sodo.
<<Ho preparato molti regalini per voi, ma li potrete avere solo quando sarò morto e il notaio leggerà il mio testamento. State tranquille, ormai manca poco. 
Dovete però promettermi alcune cose.
Primo: dovrete aiutare la nonna e la mamma a riprendersi dal loro dolore. La morte dei vostri zii è stata un durissimo colpo per tutti noi, e a questo dolore si aggiungerà anche quello per la mia fine. Non fate quelle facce tristi, questo è l'andare delle cose, e a volte la morte giunge come una liberazione, per chi, come me, è vissuto fin troppo tempo.
Siete tre ragazze forti, avete visto la guerra e il dopoguerra, non vi è stato risparmiato niente, eppure eccovi qui, forti e sane, e soprattutto unite!
Ecco, questa è la seconda promessa che vi chiedo.
Qualunque cosa succeda, dovrete sempre essere unite. 
Se rimarrete fedeli l'una all'altra, nessuno potrà sconfiggervi. Quando vi vedo insieme, sento che c'è una coesione profonda, nata dall'aver condiviso momenti terribili in comune, perché è nei momenti di crisi che si allacciano i legami più saldi.
Per voi tre sarà così per sempre. Chiamatelo come volete...  il potere della Triade, o magari "il potere del Trio".
Vi servirà, in ogni momento della vostra vita, anche se doveste allontanarvi dalla Contea>>
Quelle parole furono il "testamento morale" del nonno Achille, e quando egli alla fine cedette alla malattia e al dolore, il suo discorso sul "potere del Trio" rimase sempre valido, per tutto il resto della loro vita.
Del resto erano abituate a condividere tutto.
Dormivano insieme in un grande stanzone, con i loro tre lettini disposti l'uno a fianco all'altro.
Erano molto protettive l'una con l'altra, e mostravano persino un senso di iperprotettività nei confronti della madre, e questo pur cercando nel contempo l'approvazione paterna.
Si rendevano conto dei problemi di salute della madre e trascorrevano con lei molto tempo, ma non davano al padre la colpa dell'infelicità di Diana. Il fatto che il matrimonio dei genitori fosse disastroso, non le aveva spinte a schierarsi, ma a trovare il meglio in ciò che la madre e il padre potevano dare loro.
C'erano però alcune differenze, nel rapporto che ognuna delle sorelle aveva con i genitori.
L'ultimogenita, Isabella, aveva sofferto fin dall'inizio di due sensi di colpa: uno era legato al fatto che suo padre aveva sperato e desiderato ardentemente che nascesse un maschio; l'altro era il fatto di essere nata il giorno stesso della tragica morte della zia omonima, che era ella stessa la sorella più giovane. Questa circostanza, così come il nome infausto, erano un motivo di disagio quasi scaramantico.
Delle tre sorelle, dunque, Isabella si sentì spronata fin dall'inizio verso due direzioni: dimostrare a suo padre che poteva occuparsi delle questioni pratiche meglio di un maschio, e dimostrare a sua madre che avrebbe avuto un destino molto migliore di quello della giovane zia.
La primogenita Margherita, invece, aveva avuto il dono divino della bellezza, unendo il profilo alto e aristocratico degli Orsini, con gli occhi verdi e la pelle chiara tipica della famiglia Ricci.
I genitori ne erano orgogliosi e in generale tutta la famiglia persino gli abitanti della Contea, che passavano avanti e indietro, davanti a Villa Orsini, per poter ammirare i boccoli di Margherita, che assomigliava ad Elizabeth Taylor.
La sorella di mezzo, Silvia, era un personaggio del tutto singolare.
In lei il corredo genetico del padre e della madre si erano mescolati in maniera strana, sia nell'aspetto fisico che nel carattere.
Era bassa come il padre e aveva la magrezza e il naso pronunciato come la madre, e queste due imperfezioni la tormentarono per tutta la vita, per quanto, in un certo qual modo, la rendessero adatta al nuovo canone di bellezza femminile che di lì a poco si sarebbe affermato con Audrey Hepburn.
Ma la vera contraddizione di Silvia era quella interiore: il conflitto a cui assisteva da sempre tra i suoi genitori si replicava dentro di lei, nella sua mente. 
Era cresciuta osservando con stupore le liti furibonde tra Ettore Ricci e Diana Orsini, e non era mai riuscita a prendere le parti di nessuno dei due, perché nella sua psiche Ettore e Diana continuavano a litigare anche quando nel mondo esterno avevano finito, sbattendosi le porte in faccia e rintanandosi nelle loro reciproche stanze.
E fu così per sempre: ogni volta che c'era una decisione da prendere, un discorso da pronunciare, una qualsiasi reazione, anche minima, ecco che subito, nella mente di Silvia, i geni della madre tendevano verso una direzione e i geni del padre verso la direzione opposta, creando una specie di tiro alla fune, che rendeva piuttosto incerto e irrazionale l'esito della scelta.
Sapeva che questa maledizione era parte del suo destino, come il fatto di essere nata nel dolore, durante la Guerra, e aver assistito a tutte le atrocità che erano state compiute negli anni della Linea Gotica.
Le sorelle la aiutavano molto, e il padre le voleva bene, ma nei momenti di crisi si sentiva, alla fine, più vicina alla fragilità materna, ed entrava di soppiatto nella "Stanza delle Vecchie Pietre", dove la contessa Diana Orsini di Casemurate trascorreva la maggior parte del suo tempo, in una sorta di letargo indotto dagli antidolorifici. A volte trovava a fianco a lei anche la nonna, la contessa madre Emilia, che cercava di smaltire la sbornia e di non pensare ai figli perduti, ordinando alla nebbia di nascondere le cose lontane, perché quelle cose erano "ebbre di pianto".
Silvia si metteva nel mezzo, a formare una nuova triade, con un suo singolare effetto di deprivazione sensoriale, di atarassia, forse persino di indifferenza.
E così distesa tra la madre e la nonna, Silvia Ricci-Orsini osservava nella penombra quella stanza magica come una baita sperduta in mezzo a un bosco: il soffitto aveva travature antiche e pietre di montagna alle pareti, che venivano da una valle d'elfi e funghi, e dalle persiane socchiuse filtrava un sentore di resina, e una brezza da fuori sconvolgeva le pagine di vecchi romanzi, letti e riletti da sua madre, lontani ricordi d'ore perdute nei solai...

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martedì 17 dicembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 36. La nuova Contessa di Casemurate

Forse, se l'incidente fosse avvenuto in tempi più recenti, i moderni mezzi di indagine sarebbero riusciti a scoprire qualcosa di più sulle circostanze della morte di Arturo Orsini.
Ma era il 1952, e il fatto era avvenuto nelle campagne di una Contea sperduta in un'Italia ancora rurale.
Fu comunque avviata un'inchiesta a cui furono preposti, su interessamento dell'onorevole Baroni e del generale De Toschi, altri parenti del clan Ricci-Orsini: il giudice De Gubernatis e l'ispettore Tartaglia.
Nel frattempo, a Villa Orsini, le cose andavano di male in peggio.
Il giorno della morte di Arturo, Ettore Ricci era tornato a casa nel tardo pomeriggio, col cappello in mano, strascicando i piedi, scarmigliato e con un'espressione afflitta sul volto che pareva invecchiato di decenni.
Non aveva concesso a nessuno il tempo di dire alcunché:
<<Questo è il giorno peggiore della mia vita. Io e Arturo avevamo le nostre divergenze, ma il solo pensiero che non ci sia più mi toglie il respiro. Stavamo per trovare un accordo, lo volevo come socio alla pari, per unire ancora di più le nostre famiglie. Lui aveva accettato, avremmo concluso l'accordo oggi stesso. Non potete immaginare che pugno allo stomaco sia stato quando ho ricevuto la notizia. No, no... non dite niente, non è neanche il caso di parlarne... >>
Diana, che non credeva a una mezza parola di quella scena da premio Oscar, riuscì a interrompere il monologo del marito, rispondendo con amara ironia:
<<Sì, immagino il tuo dolore, un po' come dopo la morte di Isabella>>
Ettore incassò il colpo:
<<Ancora non mi sono ripreso da quella tragedia. Povera ragazza, con quello che ha subito dal tenente Muller, quel maledetto nazista. Che orrore! E adesso quest'altra disgrazia... Povero Arturo, scusatemi, ma non mi reggo in piedi, devo stendermi...>>
E si recò, strascicando i piedi, verso la sua stanza da letto.
Diana lo seguì, gli si avvicinò e gli sussurrò all'orecchio:
<<Io so chi sei. Non si può vivere per quindici anni a fianco di un uomo, senza capire chi è. 
Conosco la tua rabbia, la volontà di distruggere qualunque cosa che non sia tuo.
E mi fa disperare il pensiero che le mie figlie siano anche figlie tue, e possano trasmettere ai loro figli queste tue caratteristiche.
La morte di Arturo non è stata un'incidente. Tartaglia ha distrutto le prove. De Gubernatis insabbierà tutto come al solito.
Non dico che sia stato tu a manomettere la moto, ma di certo "la morte di Artù" ti fa molto comodo. Forse uno dei tuoi scagnozzi ha voluto farti un regalo senza nemmeno dirtelo...>>
Ettore scosse il capo:
<<Sei sconvolta, Diana... è naturale! Capisco il tuo bisogno di sfogarti.  Sfogati pure con me. Insultami... se ti fa sentire meglio... Non me ne avrò a male...>>
Lei rispose sempre a voce bassa:
<<Smettila di recitare! Almeno una volta nella vita, sii sincero!>>

Ettore si passò una mano sulla guancia non rasata:
<<Sincero? Anche se le cose che penso realmente possono urtare i tuoi sentimenti?
 Va bene, allora smetterò di recitare la parte del marito gentile, e tu rimpiangerai i miei tentativi di essere gentile.
Li rimpiangerai, ma sarà troppo tardi.
E pensare che c'è stato un tempo in cui ti amavo.
Non ti voglio rimproverare, tu non mi volevi. Tu hai sempre desiderato un uomo della tua stessa classe sociale, uno come Federico Traversari.
Ti piacerebbe andare a letto con lui, vero? 
E invece rifiuti di avere rapporti con me, tuo marito! Avrei potuto fare delle storie, e invece ho sopportato in silenzio. 
Ho sopportato le lunghe notti in un letto freddo, abbandonato. 
Non sei stata capace di vegliare neanche un'ora insieme a me. 
Ma io ho rispettato la tua decisione. Non ti ho voluto imporre la mia presenza.
Certo, ho smesso di amarti e anch'io mi sono innamorato di altre persone, come Anastasia, ma erano tutti vaneggiamenti, dovuti al fatto che tu mi hai lasciato solo.
E adesso, Diana, cosa vorresti fare? Mi vuoi accusare? Mi vuoi tradire? 
Che ne sarà delle nostre figlie?
Sono anni che cerchi di metterle contro di me, ma loro mi rispettano, e mi vogliono bene come io ne voglio a loro. 
Siamo una famiglia, anzi, adesso siamo noi, la Famiglia Orsini!
Tuo padre è malato e questa tragedia gli ha tolto il futuro.
Presto sarai tu la Contessa di Casemurate, ed io il capo del clan Ricci-Orsini.
Il nostro amore è finito da un pezzo (ammesso che sia mai cominciato), ma il nostro matrimonio è il pilastro su cui si regge tutto ciò che abbiamo di più caro su questa terra.
E' inutile danzare con i fantasmi del passato.
Noi siamo il presente e il futuro della dinastia Orsini di Casemurate!

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Certo, ora siamo i Ricci-Orsini, e non abbiamo figli maschi, ma il nostro Feudo porterà per sempre i nostri cognomi, uniti dal destino.
Devi fartene una ragione.
So che stai soffrendo per Arturo, Ma non dare la colpa a me. Non sono stato io, lo giuro sulla mia stessa vita. Nessuno degli Orsini può incolpare me per le proprie disgrazie.
E' stata la vostra superbia a condurvi alla rovina...>>
Diana rimase immobile, come una statua di marmo levigata dal tempo.
Un dubbio atroce la tormentava.
E se avesse ragione lui? Siamo stati davvero troppo arroganti? Troppo sicuri di noi stessi? Troppo pronti a scaricare la colpa sugli altri?
In cuor suo non poteva negarlo.
Come per una premonizione, Diana immaginò il suo futuro e si chiese come avrebbe fatto ad andare avanti, trascinandosi, giorno dopo giorno, nell'oscurità e nel dubbio, come una notte d'inverno senza una stella.
Ora c'era un fantasma in più a ballare con lei, nella sua danza macabra.
E quel fantasma, così come quello di Isabella, voleva giustizia:
<<Arturo era troppo sicuro di sé, ma io resto convinta che la moto sia stata manomessa. Devi scoprire chi è stato, perché un giorno questo assassino potrebbe decidere di far fuori anche te...>>
Ettore pareva aver considerato quell'eventualità:
<<Non nego di essere preoccupato al riguardo, ma se anche ammettiamo che si sia trattato di omicidio, io non saprei dove guardare. Non possono essere stati i miei nemici, perché oggettivamente hanno rafforzato la mia posizione di capofamiglia. 
E non possono essere stati i miei amici, perché la loro fortuna dipende da me, e se io dovessi finire in galera, loro perderebbero tutto, perché non sarebbero nemmeno lontanamente capaci di tenere in piedi la baracca.
E di sicuro non sono stato io, perché non volevo fare di Arturo un martire. Avrei potuto accusarlo di molte cose, negli affari, e screditarlo, rivelando al mondo la sua incapacità.
Ma in fondo non occorreva nemmeno quello:  si sarebbe comunque rovinato da solo.

E' il destino della vostra stirpe, e spero solo che le mie figlie e i loro discendenti non abbiano ereditato questa maledizione. Per ora mi sembra di no, ed io vigilerò affinché crescano cercando sempre di seguire il buon senso e di mantenere  i piedi per terra>>
Era una critica severa al modo in cui Diana aveva fino a quel momento svolto il suo ruolo di madre.
Non volle replicare, perché il suo animo era straziato dal dolore per la morte di Arturo, e sentiva il bisogno di piangere, dopo un'intera giornata di impegno a mantenere la compostezza necessaria per venire a capo delle circostanze di quella tragedia.
Se ne andò dalla stanza del marito senza una parola e tornò nella propria camera lastricata di vecchie pietre a danzare con i propri fantasmi.

lunedì 9 dicembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 35. Perisca il giorno

Quando il sole era già alto sul parco di Villa Orsini, finalmente il giovane Arturo, figlio del Conte di Casemurate, si decideva a recarsi al suo "lavoro" (in realtà una remunerativa sinecura) di vice-direttore della fabbrica del cognato e padrone del Feudo, Ettore Ricci.
Il "prode" Arturo montava sulla sua nuovissima Mondial 125, come i suoi avi sui grandi destrieri, e sollevando, tra una sgommata e l'altra, un polverone notevole sulla Cervese piena di buche.
La gente scuoteva la testa, ma in fondo provava simpatia per Augusto, perché era molto più socievole dei suoi familiari.
Gli amici lo chiamavano James Dean, senza immaginare che sia lui che l'attore avrebbero fatto una fine analoga, alla stessa età, a un anno di distanza l'uno dall'altro.
Il fatto è che Augusto gli assomigliava anche fisicamente, e sotto tanti aspetti si poteva considerare come un antesignano della "beat generation" e della "gioventù bruciata", fenomeni che in Italia si sarebbero visti solo negli Anni Sessanta.
Ma Arturo Orsini non vide mai gli Anni Sessanta.
Prima di narrare gli eventi oscuri e ambigui che portarono alla sua morte prematura, è necessario narrare gli eventi che precedettero la terribile disgrazia.
Stranamente c'era stata, nell'ultimo mese, una specie di tregua nell'eterna faida familiare tra Ettore Ricci e suo cognato Arturo Orsini, che aveva persino ottenuto una promozione "a socio" all'interno dell'azienda Ricci, come "dono di nozze", visto che Arturo stava per sposarsi con Anastasia Traversari.
Ma gli altri membri della famiglia Orsini non si fidavano di questo "regalo".
Diana mise in guardia il fratello citando Virgilio: <<Timeo Danaos, et dona ferentis>>
<<Cioè io dovrei temere Ettore Ricci anche quando porta doni?>>
<<Sì>> confermò Diana <<Conosco troppo bene mio marito e so che quando prende qualcuno in antipatia è impossibile fargli cambiare opinione. Vuole darti la colpa di qualche irregolarità di bilancio e rovinarti.
Ho sempre sospettato che fosse stata la sua strategia, ora ne sono certa>>
Augusto prima era parso offeso:
<<Anche tu dubiti delle mie qualità? Insomma, ormai lavoro lì da qualche anno, conosco gli affari, ho letto i documenti, mi sembra tutto in ordine. Che cosa c'è di strano se Ettore alla fine ha deciso di darmi fiducia? In fondo me l'ha detto lui stesso tante volte: il Clan Ricci-Orsini ormai è un'unica grande famiglia e non conviene a nessuno far nascere una faida interna>>
Sua sorella aveva scosso il capo:
<<Ettore non vuole che tu diventi il nuovo Conte. Ne ha abbastanza di nostro padre e non vuole più che la gente pensi che il capo sia ancora un Orsini.
Oltre tutto, quando sposerai Anastasia, diventerai ricco e potrai risollevare autonomamente le sorti degli Orsini, magari ricostituendo un nuovo feudo e una nuova villa, comprando le terre di altri possidenti della nostra Contea.
Devi stare attento a non firmare nulla e a non accettare nuovi incarichi.
Come vice-direttore, potresti ancora salvarti, ma se diventassi direttore e socio, allora cadresti in trappola. 
Sii saggio! Concentrati sul tuo matrimonio, tu che hai avuto la fortuna di poterti fidanzare con una donna che ami. 
Io conosco mio marito: vuole far scoppiare uno scandalo finanziario per mandare a monte le tue nozze, per questo ti ha nominato nominato dirigente della fabbrica, solo per accusarti di chissà quali colpe, magari frodi fiscali commesse da quel viscido verme del suo amministratore Michele Braghiri>>
aveva scrollato le spalle:
<<Non ho paura di lui! E' solo un villano rifatto!>> 
Diana scosse la testa, sospirando:
<<E' proprio per questo tuo atteggiamento strafottente che sei in grave pericolo!
Sei troppo sicuro di te, del tuo titolo, della tua successione... ma lo vuoi capire che Ettore non avrà pace fintanto che l'erede del titolo di Conte di Casemurate non verrà estromesso dalla successione per indegnità morale. Potresti persino finire in galera. Il giudice De Gubernatis e l'ispettore Tartaglia, i cari cognati di Ettore, non aspettano altro che un tuo passo falso. Per questo devi cominciare ad agire seriamente e con prudenza.
Non voglio perderti, tu sei l'ultima speranza per gli Orsini: io ho sacrificato tutto per te, nostro padre vive per te, nostra madre ti adora... se tu fallissi, sarebbe il colpo di grazia per tutti noi!>>
Lui si commosse e la abbracciò:
<<Tu sei sempre stata la mia preferita tra le sorelle. Hai fatto tanti sacrifici per la nostra famiglia. Hai rinunciato alla tua libertà per noi. Ma ti prometto che Ettore dovrà imparare a rispettarti, altrimenti se la dovrà vedere non solo con me, ma con tutti i miei amici. Non te lo dovrei dire, o forse tu l'hai già capito, ma il mio futuro cognato, Federico Traversari, ha un debole per te>>
<<Non ci credo, sono troppo... insomma, sai cosa voglio dire. Certo sarebbe stato un ottimo marito, se si fosse fatto avanti quando era il momento! Ora è tardi. Non ci sono elementi per chiedere alla Sacra Rota l'annullamento del mio matrimonio con Ettore, neppure se lo volessi, e non lo voglio, perché ho tre figlie. Ho rinunciato alla libertà in nome della famiglia, eppure non è bastato. Ho perduto Isabella e il suo fantasma mi tormenterà per tutta la vita. Per questo ti supplico, Arturo, sii prudente!>>
Lui sorrise:
<<Una nave che resta nel porto è al sicuro, ma non è per questo che sono fatte le navi. Io ho fatto la mia scelta e ora devo difenderla, costi quel che costi.
E se Ettore vuole imbrogliarmi con i suoi libri contabili e le sue conoscenze in alto loco, io dimostrerò la mia innocenza, perché ne ho le prove e i mezzi!>>
Diana allora vide per la prima volta in suo fratello una forma di cupio dissolvi mascherata da volontà di vita. La sua spavalderia era coraggio oppure avventatezza?
La sua sete di libertà era una religione, ma la libertà va conquistata e difesa non solo con il coraggio, ma anche con il buon senso.
Si chiese se Arturo fosse consapevole di tutto questo, ma non seppe mai rispondere a tale domanda.
Lo lasciò andare, anche se il suo cuore andava in mille pezzi, perché se i suoi timori erano fondati, con Arturo se ne sarebbe andata l'ultima speranza della famiglia Orsini.
Ripensò alla leggenda di Artù, mitico re di Britannia, ferito a morte, ma secondo la leggenda ancora vivo, nell'isola di Avalon, accudito da sua sorella Morgana la Fata, e pronto a ritornare per ridare ai Britanni una nuova età dell'oro.
Arturo, la Speranza dei Bretoni.
La speranza vana...
E così, alla fine, in un giorno d'inverno, con le strade scivolose per le pozzanghere ghiacciate, accadde ciò che tutti paventavano accadde davvero.
Una mattina del febbraio 1952, mentre tutte le radio comunicavano con grande cordoglio la morte di re Giorgio VI di Gran Bretagna e il grande dolore di sua figlia, la nuova giovanissima regina Elisabetta II, Arturo Orsini si recò come di consueto al lavoro in motocicletta.
Fu a questo punto che accadde la tragedia.
La sua moto deragliò dopo nemmeno un chilometro, presso la curva di Bastìa, appena oltre i limiti della Contea, e fu così che il giovane erede dei Conti di Casemurate si schiantò contro un pioppo.
L'unico testimone, un anziano che aspettava la corriera, andò in soccorso al giovane e lo trascinò sulla strada, poi si mise a gridare aiuto.
Un passante in bicicletta si recò alla casa più vicina per cercare un telefono e chiamare i soccorsi, che arrivarono un quarto d'ora dopo seguiti da un'automobile della polizia guidata dall'ispettore Onofrio Tartaglia, in persona, marito di Maria Teresa Ricci e quindi cognato di Ettore.
I soccorritori non poterono far altro che constatare il decesso del giovane venticinquenne.
L'ispettore "Compagnia Bella" Tartaglia si tolse il cappello con aria compunta e poi corse subito presso la moto per verificare lo stato delle gomme e dei freni.
Pareva estremamente contrariato da ciò che aveva visto.
Si trattava di qualcosa che nessun altro avrebbe dovuto vedere.
Diede un'occhiata al serbatoio, ai tubi e senza farsi vedere accese un fiammifero.
Poi, mentre Tartaglia si allontanava di corsa, il serbatoio deflagrò, mandando la moto in mille pezzi e incendiando tutta la zona circostante, compreso il pioppo.
Furono chiamati i Vigili del Fuoco, e nel frattempo si formò un assembramento di passanti, ai quali Tartaglia diede ordine di allontanarsi, mentre dettava il rapporto ad un agente.
Un'ora dopo, sistemate tutte le formalità, Onofrio "Compagnia Bella" Tartaglia, si recò al telefono più vicino per informare il giudice istruttore De Gubernatis e, al di fuori di ogni regola procedurale, la signorina De Toschi, che si esibì in una scena madre arrivando a simulare uno svenimento e a chiedere i sali alla governante Assuntina.
Alla fine, confuso e imbarazzato, perché quell'evento non rientrava nei piani di Ettore, Tartaglia si fece forza e si recò ad annunciare la notizia a Villa Orsini.
Ma le voci della disgrazia lo aveva preceduto e quando arrivò all'antica magione dei Conti di Casemurate, trovò una situazione pietosa.
La governante si esibì a sua volta in una scena da premio Oscar, attirando l'attenzione di tutti gli altri.
La contessa Emilia, appena si rese conto che suo figlio era morto, fu travolta da un dolore tale che corse subito in cantina alla ricerca dell'unico possibile rimedio che conosceva: una bottiglia di Porto rosso invecchiato di trent'anni, che scolò tutta d'un fiato, per poi crollare su un divano e abbandonarsi a un vaneggiamento che durò tutta la notte.
Ettore Ricci era al lavoro.
Sua sorella Adriana mostrò un'autentica sorpresa, perché, come Tartaglia, riteneva impossibile che un motociclista esperto come Arturo non fosse riuscito a prendere bene una curva.
Sussurrò varie cose all'orecchio del cognato ispettore, il quale a sua volta scuoteva la testa con aria sbalordita.
Ida Braghiri si era messa a recitare platealmente il rosario, baciando ripetutamente il crocefisso e invocando la protezione della Santa Vergine.
L'unica a mantenere una certa compostezza fu Diana Orsini, perché per sua natura era sempre preparata al peggio.
Si informò con estrema attenzione alla dinamica dell'incidente.
<<Mio fratello sapeva guidare molto bene. Non credo sia finito fuori strada per un proprio errore. Sei sicuro che non ci fosse un guasto alla moto?>>
"Compagnia Bella" Tartaglia incominciò a borbottare frasi incomprensibili e alla fine trovò la risposta adatta:
<<Non ho fatto in tempo a verificare. La moto ha preso fuoco ed è un miracolo che io sia riuscito a scappare in tempo>>
Diana lo fissò severamente: <<Un tempismo perfetto. Strano però che il motore sia esploso tanto tempo dopo lo schianto. Di solito succede pochi minuti dopo lo schianto. Tu quando sei arrivato lì?>>
<<Non ricordo esattamente, ma ho fatto molto in fretta, ero nell'ambulanza a sirene spiegate!
Comunque ho rischiato grosso. Il motore è esploso. Succede in questi casi. Sarà molto difficile stabilire se c'era un guasto>>
Diana annuì:
<<Diciamo pure che sarà impossibile. Un delitto perfetto!>>
L'ispettore sbiancò:
<<Diana, ti assicuro che faremo chiarezza sulla faccenda. Nessuno, e dico nessuno, almeno che io sappia, voleva che le cose finissero così>>
Voleva forse dire che Ettore non c'entrava niente?
<<Ne sei certo? Sto ricacciando dentro di me tutto il dolore in attesa che torni Ettore, per riversaglielo in faccia. In fondo, anche se non c'entrasse nulla, avrebbe un movente grande come tutta la nostra Contea!>>
Tartaglia la fissò con determinazione:
<<Ascoltami: conosco Ettore da una vita. So di cosa può essere capace, ma non è un assassino. 
Su altri che lavorano con lui, invece, non metterei la mano sul fuoco. 
Ora, io ti prometto una cosa: cercherò di stanare tutti quelli che avevano interesse a far scoppiare una faida tra i Ricci e gli Orsini. 
Ma tu mi devi promettere di non accusare Ettore pubblicamente.
In privato puoi fare quel che vuoi, naturalmente. La cosa non mi riguarda, ma a livello pubblico occorre salvare le apparenze, ora più che mai.
Tu sei l'erede della Contea, adesso, e ci si aspetta da te un comportamento più consono al ruolo che ti spetta.
Prima di fare scenate, ricordati chi sei e che cosa rappresenti!>>
Detto questo se ne andò, lasciando Diana in una tempesta interiore.
Ora tutti guarderanno a me, ed io non potrò più nascondermi come ho fatto fino ad ora.
Dove troverò la forza per non impazzire?
Mentre pensava queste cose, vide sua madre, la Contessa Emilia, che si aggirava nei corridoi con la bottiglia di Porto in mano e ripeteva, con una voce impastata:
<<Ho sentito cosa ti ha detto quel bifolco di Tartaglia: che sei la nuova erede. Ma tu sei debole e continuerai a lasciare che Ettore faccia quel che gli pare. 
L'erede è tuo marito, non tu. E questa è la fine della Dinastia>>
Diana si chiese se sua madre avesse ragione.
Se io cedo adesso, sarà veramente la fine degli Orsini.
Si recò al piano di sopra, nella stanza di suo padre.
Il vecchio Conte Achille, già prostrato da un attacco di gastrite, (destinata a tramutarsi in cancro allo stomaco, e a condurlo alla tomba nel giro di pochi mesi) era stato informato della cosa dalla governante, che aveva sostenuto con assoluta certezza la tesi del "tragico incidente".
Il Conte, ormai fuori di senno, maledisse se stesso per aver fatto entrare Ettore Ricci e Michele Braghiri nella sua vita, nella sua casa e nella sua famiglia e infine, gracchiò con disperazione il lamento irato di Giobbe, :
<<Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: "è stato concepito un uomo!" >>

venerdì 6 dicembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 34. Presagi di tempesta

Tutte le volte che Ettore Ricci si aggirava intorno ad Anastasia Traversari, ormai fidanzata ufficialmente con Arturo Orsini, non riusciva a trattenersi dal fischiettare il motivo di qualche canzone d'amore, e addirittura dal canticchiare espressamente le parole di tali canzoni.
Era più forte di lui, e piuttosto compatibile con la sua indole istrionica e il suo debole per le belle donne.
All'inizio la cosa era sembrata talmente ridicola da non poter essere presa sul serio.
Era il 1951, e dopo tanti anni dal suo matrimonio con Diana Orsini, ancora i parenti di sua moglie continuavano a ridere di lui.
La loro ostinazione era snervante, anche se prevedibile.
<<Non imparano mai>> disse Ettore, sospirando, a sua sorella Adriana <<non hanno ancora capito con chi hanno a che fare>>
Adriana Ricci, la cui bocca "a culo di gallina" impediva di capire quali fossero i suoi reali stati d'animo, ammesso che ne avesse, rispose:
<<Meglio così. Meglio che abbassino la guardia. Ma fa' attenzione a Diana. E' pazza, ma non è stupida>>
Ettore scrollò le spalle:
<<Diana non esce dalla sua stanza ormai da un anno e per il momento è meglio così. 
Mi occuperò di lei dopo aver risolto le questioni in sospeso con Arturo e Anastasia>>
Adriana sapeva che i rischi erano alti:
<<Li vuoi ridurre sul lastrico? Con quali mezzi? Sei sicuro che il giudice De Gubernatis insabbierebbe tutto un'altra volta, se ce ne fosse bisogno?>>
Lui inarcò le sopracciglia cespugliose:
<<Nel caso della morte di Isabella non c'era nulla da insabbiare: non sono stato io, anche se fatico ancora a credere che Mueller fosse il colpevole. Non era nel suo stile. Se proprio voleva far fuori Isabella, le avrebbe sparato in fronte, davanti a tutti, prima della ritirata.
Ma non importa, ormai tutto questo appartiene al passato.
Per il presente io non ho preoccupazioni: tutti i miei cognati dipendono da me e se io dovessi affondare, il giudice De Gubernatis, il senatore Baroni, l'ispettore Tartaglia, il conte Gagni di Montescudo, tutti loro affonderebbero con me. Il nostro è un patto di sangue, il cosiddetto "patto infrangibile". Non avrebbero altra scelta che collaborare, come hanno sempre fatto>>
E così l'atteggiamento di Ettore verso Angelica divenne sempre più imbarazzante.
Un giorno Arturo affrontò Ettore di persona:
<<Se non smetti di fare il cascamorto con la mia fidanzata, giuro che te la farò pagare!>>
Ettore parve cadere dalle nuvole:
<<Oh, avanti, Arturo! Cosa sarà mai se io fischietto e canticchio qualcosa?
Se avessi in mente chissà quali piani, me ne starei zitto... 
So bene che Anastasia mi disprezza, così come del resto anche mia moglie e in generale tutti voi Orsini, voi nobili, che con l'arroganza dei privilegiati vi fate chiamare "il gran mondo", l'elite, la crème, "l'alta socieà"... ma io non mi offendo, siamo ormai una sola famiglia, il clan Ricci-Orsini, e tu potresti diventare il mio braccio destro, se solo ti impegnassi un po' di più in ufficio. Io ti tendo la mano: lavoriamo insieme, la nostra fortuna economica è in crescita.
Non roviniamo tutto per queste piccinerie!>>
Arturo scosse il capo:
<<Io non ti credo. Non riesco a capire a che gioco stai giocando, ma se oserai anche soltanto sfiorare Anastasia, io e tutti gli Orsini prenderemo apertamente le distanze da te, le porte dell'alta società torneranno ad esserti sbattute in faccia>>
Era una frase terribilmente snob, e forse furono proprio le frasi di questo tipo quelle che portarono ai tragici eventi che stavano per abbattersi sulla stirpe degli Orsini.
Ettore sorrise, ma era un sorriso terribile a vedersi:
<<Tu credi di essere furbo, Arturo! Ma pur con le tue sottigliezze non hai discernimento. 
Credi che gli occhi della famiglia Ricci siano ciechi? Io ho visto più di quanto tu sappia: con la mano sinistra mi useresti come fonte di guadagno e con la destra cercheresti di soppiantarmi! 
So chi cospira con te... ah sì... è giunta voce alle mie orecchie di quello che tu e Federico Traversari avete in mente! Lui è ricco, certo, ma non quanto me, e ha molti meno agganci nelle istituzioni. 
E tu, tu che cosa sei, se non l'ultimo discendente di una cenciosa casata da lungo orbata di signoria e comando?>>
Arturo Orsini, erede dei Conti di Casemurate, si sentì avvampare:
<<Hai imparato a parlare con linguaggio forbito, Ettore, ma resti pur sempre un villano rifatto!>> e se ne andò sbattendo la porta.
L'aria era così grave e densa, nei corridoi di Villa Orsini, che sembrava potersi tagliare con un coltello.
La governante, Ida Braghiri, che aveva ascoltato di nascosto tutta la conversazione, la riferì al marito Michele:
<<E' il momento di agire, Michele. Il clima è come quello dell'ultima notte di Isabella, prima che tu la imbavagliassi e le tagliassi le vene>>
Michele mise l'indice sopra le labbra:
<<Non dire mai più queste parole. La colpa allora fu affibbiata al tenente Mueller, ma questa volta tutti dovranno credere che sia stato Ettore. Lui la farà franca, ma avrà ancora bisogno di me, per tenere in piedi la baracca.
Tutto procede come avevo previsto. Gli Orsini e i Ricci si distruggeranno a vicenda, e allora sarà il nostro momento>>
Ida si sentì percorrere da un brivido di emozione:
<<Ma non siamo ancora abbastanza ricchi per aspirare al controllo del Feudo!>>
Michele le lanciò uno sguardo complice:
<<La più grande ricchezza sono le informazioni riservate. Se si è in grado di ricattare una persona ricca e potente, allora è come se si fosse più ricchi e potenti di quella persona, e della sua famiglia. Il tramonto degli Orsini è vicino. E i Ricci saranno ricattabili.
Molto presto tutto sarà compiuto, e noi diventeremo i padroni!>>

lunedì 2 dicembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 33. Cristallo tagliente

Come Diana aveva previsto, i buoni propositi di suo marito erano svaniti nel giro di quindici giorni.
Ettore aveva proprio perso la testa.
La sua infatuazione per Anastasia Traversari era ormai sulla bocca di tutti, anche perché, oltre tutto, la bella e nobile fanciulla gli preferiva il suo giovane cognato, Arturo Orsini, l'astro nascente, molto più bello e affascinante, oltre che aristocratico ed erede del titolo comitale di Casemurate.
Ma il padrone del Feudo Orsini restava comunque Ettore Ricci, il quale aveva incominciato a esprimere la propria delusione per come Arturo si comportava al lavoro, in qualità di dirigente della fabbrica di macchinari agricoli di proprietà della famiglia Ricci.
Se ne lamentava con i suoceri, i Conti Orsini, e con sua moglie:
<<Tuo fratello arriva tardi al lavoro, passa la mattina a leggere i giornali, poi prende la sua moto, che romba come un aereo, e corre a in città a pranzare con gli amici, poi torna dopo tre ore, e quando finalmente si decide a incominciare qualcosa è ormai sera. 
Insomma è uno scansafatiche, oltre che un incapace!>>
Diana non ci credeva:
<<Ti stai inventando tutto per denigrarlo! E lo fai perché sei invidioso di lui!>>
Ettore sbottava:
<<Invidioso? E di cosa? E' un rammollito, proprio come suo padre! Siete tutti dei rammolliti, voi Orsini! E comunque ho una ventina di testimoni pronti a confermare le mie accuse>>
Diana rise:
<<Sì, certo, una ventina di ruffiani tutti a libro paga di tuo fratello Oreste: quello sì che è un buono a nulla>>
Su questo Ettore poteva anche essere d'accordo, ma non l'avrebbe mai ammesso:
<<Noi Ricci siamo forti, voi Orsini siete deboli, questa è la verità e tu lo sai bene, Diana. Non puoi negarlo!>>
Diana lo fissò con un misto di rabbia e di minaccia:
<<E' vero, noi Orsini siamo fragili come cristalli di Boemia, ma stai attento, Ettore: i frammenti di un cristallo sono taglienti. Non ti conviene spezzarci, perché è proprio quando andiamo in frantumi che diventiamo realmente pericolosi.
E questo vale particolarmente per me, ti avverto: io sono un cristallo tagliente e se farai del male a me o a mio fratello, potrai anche spezzarci, ma ti farai male anche tu>>
Ettore assunse un'espressione innocente:
<<Ma di cosa stai parlando? Io non spezzerò proprio nessuno. Tuo fratello si rovinerà con le sue stesse mani, se continua così. Non è certo colpa mia!>>
Diana non sapeva cosa pensare:
<<Lui nega tutte le tue accuse. Dice che lo hai assunto solo per poterlo poi denigrare. Una strategia davvero furba. Ma cercherò testimoni imparziali per capire cosa sta realmente succedendo>>
Lui ne fu indignato:
<<Una brava moglie crederebbe a suo marito e starebbe dalla sua parte. Guarda Ida Braghiri, lei vive in adorazione di suo marito>>
Diana sorrise:
<<Per forza. Chi altri avrebbe avuto lo stomaco di sposare una donna così brutta e antipatica? E se posso darti un consiglio, ti prego di non fidarti di Michele Braghiri. Lui invidia te mille volte più di quanto tu invidi mio fratello. E quando sente che vi sparlate dietro a vicenda, gli brillano gli occhi>>
Ettore dovette ammettere che sua moglie non aveva tutti i torti:
<<Lo so, ma non gli conviene rovinarmi. Se cado io, cade anche lui. Cadiamo tutti. Ho passato vent'anni a creare una rete di relazioni con persone che contano. Conosco i loro segreti, i loro punti deboli. Io sono il capo e loro lo sanno. La mia unica debolezza è che non ho un erede maschio: volevo creare una dinastia, e invece alla fine tutto morirà con me. 
Ti prego Diana, proviamoci un'ultima volta... >>
Lei inorridì:
<<Ma non hai sentito quello che ha detto il medico? Un'altra gravidanza, a quest'età, nelle mie condizioni, potrebbe uccidermi>>
Lui le rivolse un'occhiataccia:
<<Magari! Così mi prenderei una moglie più giovane, più sana, più fertile, più rispettosa e anche più bella, perché ormai tu sei appassita, cara mia, sei sfiorita. Ah, sei stata la mia rovina... 
E dire che io sono stato davvero innamorato di te, ma anche le emozioni più sincere si stancano di rincorrere chi non le apprezza.
E veneravo il cognome degli Orsini, che per me era il simbolo di tutto ciò che io non sarei mai riuscito a diventare: un uomo raffinato, elegante, affascinante. In una sola parola: un aristocratico.
Sapevo che per me non c'era speranza, ma se avessi avuto un figlio maschio, lui avrebbe fondato la dinastia dei Ricci-Orsini, e magari avrebbe ricevuto un titolo nobiliare, da tramandare ai suoi eredi.
Ora mi rendo conto che tutto questo era solo vanità. 
Voi Orsini non siete il simbolo di nulla, nemmeno di voi stessi, ed io ho perso i miei anni migliori inseguendo dei fantasmi>>
Aveva gli occhi lucidi, la voce incrinata.
<<Abbiamo tre figlie, Ettore. Se solo tu le amassi un po' di più...>>
Lui rispose con voce assente, come se già la sua anima fosse lontano:
<<Vale anche per te. Che esempio dai alle nostre figlie? Te ne stai sempre chiusa in questa stanza, con le tende tirate, a leggere romanzi senza senso, a vivere le vite degli altri, e non ti accorgi di diventare sempre più assente, più distante. Ti atteggi a vittima, e nel contempo ferisci chi ti è intorno. Ti atteggi a grande signora, ma sei meno nobile adesso di quanto tu lo sia mai stata>>
Lei avrebbe potuto replicare che era stato lui a farla diventare così, è che "noi siamo quello che ci è successo", ma era solo una mezza verità.
L'altra parte di verità, quella più scomoda, era che origini del male venivano da dentro. 
La melanconia, quella goccia di sangue nero che rendeva più scuro il sangue blu degli Orsini.
Forse Ettore aveva ragione.
Non ricevendo risposta, lui uscì dalla camera da letto come un vecchio leone ferito.
Diana rimase sola nella stanza, quella stanza da cui non voleva più uscire.
Anche lei danzava con i suoi fantasmi, quelli che aveva perduto e quelli che aveva trovato, e quelli che l'avevano amata di più.

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La guerra aveva lasciato una devastazione nella sua mente.
Per questo non voleva più andare via da quelle vecchie pietre che la circondavano.
Ed era come se la guerra non fosse mai finita.
Dall'inverno all'estate e di nuovo all'inverno, la sua mente aveva continuato a danzare con i fantasmi.
E non voleva mai andarsene da quella stanza.
E non sarebbe voluta uscire mai più.
Un attacco di emicrania la riportò alla realtà.
Era ormai notte. L'antidolorifico l'avrebbe aiutata a dormire, ma da tanto tempo ormai sapeva che il sonno avrebbe portato solo incubi.
Spense la luce.
Avrebbe desiderato un sonno senza sogni. Lungo. Eterno.
Ecco, era quella la sua unica speranza: smarrire la coscienza di esistere.
Non aveva letto Heidegger, ma aveva letto Pascal e il suo concetto di "divertissement":
«Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci».
Ma mentre Pascal invitava a pensare e a farsi carico dei misteri del cosmo, Diana voleva al contrario dimenticarsene. E quindi era più vicina a Carducci, quando scriveva: <<Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere, meglio quest'ombra, questa caligine>>
Ma qui subentrava per Diana Orsini una situazione amletica.
"Io non so vivere e non so morire. Ho paura di vivere e ho paura di morire".
Perché morire non è affatto facile, come credono quelli che amano la vita alla follia.
Diana sapeva di dover vivere per le proprie figlie, ma sapeva anche che, in ogni caso, il suicidio non faceva per lei: aveva paura del dolore e di quello che eventualmente potesse esserci dopo la morte.
Morire, ma senza dolore.
Morire, sì, ma con la certezza che sia per sempre.