venerdì 4 ottobre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 21. Via col vento


Nell'aprile del 1941 nacque la seconda figlia di Ettore Ricci e Diana Orsini e fu registrata all'anagrafe come Silvia Ricci-Orsini, in virtù della regia concessione riguardo al doppio cognome dei figli di madre aristocratica.
Ma questo aveva poca importanza agli occhi di Ettore, la cui costernazione per il fatto che la neonata fosse una femmina si era presto tramutata in rabbia contro il mondo intero, come se tutto l'universo avesse cospirato per impedire la nascita del tanto atteso erede maschio, che nei suoi progetti a lunga scadenza avrebbe dovuto schiacciare ogni eventuale pretesa di primato nella Contea di Casemurate da parte del fratello di sua moglie, il giovane e viziato Arturo Orsini, figlio prediletto del conte Achille.
Quando Diana aveva chiesto al marito se avesse delle preferenze per il nome, lui aveva risposto:
<<E' una femmina! Chiamala come ti pare!>>
E in quel momento, poiché la visione del mondo di Diana era molto vicina al pessimismo leopardiano, le parve naturale chiamare sua figlia col nome di una delle figure femminili che avevano ispirato il poeta di Recanati.
L'unica consolazione, per Ettore, fu che anche uno dei suoi cognati più in vista, l'irreprensibile giudice De Gubernatis, aveva avuto dalla moglie Ginevra Orsini addirittura due figlie in una sola volta, due gemelle eterozigote, che erano state chiamate Anna ed Elisabetta.
Più fortuna, nell'ottica maschilista imperante a Casemurate in quegli anni, aveva avuto l'ambizioso Michele Braghiri, amministratore del Feudo Orsini, la cui moglie Ida, dopo aver sfornato una femmina, di nome Floriana, al primo parto, aveva dato alla luce il bramato erede maschio, il quale, naturalmente, era stato chiamato Massimo, poiché da lui ci si attendeva il meglio del meglio.
E come se non bastasse, la signora Ida, temutissima e autoritaria governante di Villa Orsini, era poi rimasta nuovamente incinta.
Diana, invece, aveva chiesto al marito almeno un anno di tregua, per potersi riprendere da quelle che oggi chiamiamo "depressioni post partum".
Per calmare Ettore, suo suocero, il conte Achille Orsini Balducci di Casemurate, gli aveva prospettato i vantaggi di avere delle figlie femmine, con le quali avrebbe potuto stringere alleanze matrimoniali con qualche rampollo delle famiglie che possedevano i feudi confinanti, ossia i marchesi Spreti di Serachieda e i conti Zanetti Protonotari Campi. Questo discorso placò temporaneamente le ire di Ettore, ma non piacque affatto ai coniugi Braghiri, che si erano proposti come obiettivo primario un legame matrimoniale tra il loro perfetto Massimo e una delle sorelle Ricci-Orsini.
Ma a parte le questioni familiari, c'erano preoccupazioni maggiori che tenevano occupata la mente di Ettore.
Le difficoltà dell'esercito italiano si erano rivelate persino maggiori di quello che aveva previsto il conte Achille, nel suo atteggiamento che la famiglia Ricci aveva bollato come "disfattista".
Ettore cercava di mantenere un atteggiamento moderatamente filo-governativo, ma dentro di sé aveva già intuito che le cose non stavano andando affatto secondo i piani del Duce.
Glielo suggeriva il suo istinto di sopravvivenza, che percepiva da molto lontano "l'odore del sangue".
Nel suo intimo sapeva che suo suocero aveva ragione e incominciava a rendersi conto che persino la Contea di Casemurate non era più da considerarsi un luogo sicuro.
I fratelli di Ettore ostentavano un fascismo intransigente e fideistico, per quanto, nella famosa triade del "credere, obbedire e combattere", si fermavano al secondo punto, avendo ottenuto, grazie alle conoscenze della Signorina De Toschi, l'esenzione dal servizio militare a causa dei "piedi piatti".
Ma non tutti i parenti di Ettore erano fascisti: c'era infatti un suo zio materno, tale Remigio Vallicelli, considerato la pecora nera della famiglia, che si faceva beffe della retorica patriottarda e militarista portata avanti dal regime.
L'umiliazione delle truppe italiane nella Campagna di Grecia, che aveva costretto la Germania a intervenire direttamente nei Balcani per evitare la disfatta, aveva infranto il mito dell'invincibilità dell'Italia fascista, ed era stato un brusco risveglio per chi, in buona fede, aveva creduto ai proclami e alle parate militari.
Lo stesso Hitler era incredulo e furioso a causa dell'evidente inadeguatezza dell'alleato a cui in un primo tempo aveva affidato le sorti dell'area mediterranea.
Il Duce, per evitare che il disfattismo prendesse piede in Italia, aveva incaricato i gerarchi di risollevare il morale delle masse con un'adeguata propaganda.
Fu così che, nella Contea di Casemurate, arrivò il gerarca Baroncini in persona, segretario federale del Partito nella provincia di Forlì, che tenne un'appassionata orazione, scritta a quattro mani col Generale De Toschi, sull'imminente rinascita dell'Impero Romano e sul valore dei "militi italici di contro all'oste avversa". 
Esortò quindi tutti quanti al coraggio, citando il dannunziano "Memento audere semper", <<perché è nel vivere pericolosamente che si attualizza il nostro spirito, come ci ricorda Gentile. E poiché, come ha scritto lo stesso Duce, il Fascismo doveva essere azione e fu azione, allora è evidente che l'onore del milite fascista consiste nella ricerca della pugna>> e qui ci fu qualche risolino subito smorzato dalle occhiatacce della milizia <<nello sprezzo del pericolo e nella dedizione totale ai gloriosi destini della Patria>>.
Al termine del discorso, Baroncini, commosso, attese l'applauso della folla, che fu però inferiore alle aspettative, non fosse altro che per il linguaggio arcaizzante dell'oratore e la sua tendenza mistico-filosofica al vaniloquio.
Fu in quegli istanti di imbarazzato silenzio che il vecchio zio Remigio alzò la mano con un aria sorniona e un sorriso sbilenco stampato sul volto e dichiarò, in perfetto dialetto romagnolo, una frase destinata ad essere ricordata per molti decenni a venire, e tramandata di generazione in generazione:
<<Evviva Baroncini, che cun un'arenga us fa magné una smana!!>>
L'idea che Baroncini, con una sola aringa, potesse far mangiare i casemuratensi per un'intera settimana, era quasi più credibile del coraggio dei militi della Contea, che tutto avrebbero desiderato tranne il "vivere pericolosamente".
Il gerarca, sbigottito e sdegnato, non perse tempo:
<<Chi è stato? Chi ha parlato! Al confine! Al confine!!!>>
Fu a quel punto che, nello stupore generale, Ettore Ricci trovò il coraggio di difendere lo zio e sussurrò alle orecchie del Federale:
<<Perdonate, Eccellenza, mio zio Remigio soffre di demenza senile, nessuno lo prende sul serio. Non è il caso di sprecare risorse mandandolo al confino>>
<<Per essere un demente, fa battute fin troppo spiritose>>
<<E' comunque il fratello della maestra Clara, amica personale di donna Rachele. Mia madre farà in modo che d'ora in avanti tenga la bocca chiusa>>
Baroncini sbuffò:
<<Sarà meglio, se no alla prossima parola fuori posto, finisce dritto dritto in manicomio, parola mia. E ringraziate il fatto che, al contrario di voi, signor Ricci, che pensate solo a far soldi,  i vostri genitori e i vostri fratelli sono tutti ferventi fascisti e patrioti esemplari>>
Esemplari a parole, pensò Ettore, ma si sono imboscati tutti, come del resto lo stesso Federale Baroncini, che vale meno dell'aringa citata dallo zio.
Quando le acque si furono calmate, lo zio Remigio andò a ringraziare il nipote:
<<Ettore, tu vali più di tutti i tuoi altri parenti messi insieme. Un giorno anche gli Orsini capiranno che sei un uomo buono e impareranno a rispettarti sul serio>>
Ettore, compiaciuto e in vena di confidenze, appoggiò una mano sulla spalla dello zio:
<<Un uomo buono io? Non lo so. Nel Bene non ci ho mai creduto, ma quando mi è possibile cerco di praticare la bontà>>
Ebbe l'occasione di dimostrarlo qualche mese dopo, quando i bombardamenti aerei degli alleati anglo-americani incominciarono a colpire in maniera massiccia e capillare prima le città, poi le campagne.
Ettore fece costruire un rifugio molto ampio, nei campi adiacenti a Villa Orsini, e ogni volta che suonava l'allarme, fece in modo di accogliere gran parte dei compaesani.
Nell'anno successivo, il 1942, il numero dei bombardamenti aumentò in intensità e violenza.
Mentre la reazione di Ettore era sempre pragmatica, quella di Diana era prevalentemente emotiva.
All'inizio le era sembrato che tutta quella situazione fosse irreale, come se fossero fuochi d'artificio
Spesso si ritrovava a correre con una figlia per mano e l'altra in braccio, mentre il cielo diventava rosso per le esplosioni delle bombe, e quando finalmente arrivava al rifugio, l'anomalia di quella situazione le faceva deragliare il pensiero verso le guerre di cui aveva letto e studiato, e le sembrava di essere dentro un romanzo, in particolare "Via col vento".
L'analogia derivava da alcuni punti in comune tra la vicenda di Rossella O'Hara e quella di Diana Orsini: l'appartenenza a una famiglia di latifondisti caduti in disgrazia, l'aver sposato un uomo ricco per salvare la propria famiglia dalla miseria e soprattutto lo scoppio di una guerra che era destinata a spazzare via il tipo di società nella quale entrambe erano cresciute, nel bene e nel male.
Ma la guerra che stava travolgendo il mondo di Diana Orsini era molto più devastante, nella sua potenzialità distruttiva, della Guerra Civile Americana.
I bombardamenti ne erano la prova evidente, indiscutibile.
Inoltre si stava facendo strada, nella famiglia Ricci-Orsini, l'idea che il peggio dovesse ancora venire.
Per quanto il governo cercasse di censurare le notizie scomode, alla fine comunque le voci circolavano. La "gloriosa sconfitta" di El-Alamein, ("mancò il valore, non la fortuna"), tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre del 1942, in concomitanza con l'impantanarsi dell'avanzata tedesca in Unione Sovietica, fece sorgere i primi dubbi anche tra i più ottimisti.
Il 1943 iniziò in un clima di grande sconforto. Non era più possibile nascondere le voci che provenivano dalla Russia, dove il contingente italiano stava soccombendo al Generale Inverno che già aveva sconfitto Napoleone più di un secolo prima.
Dopo la sconfitta nell'assedio di Stalingrado, in febbraio, la ritirata si era resa inevitabile.
Si confabulava sottovoce, nel buio dei rifugi antiaerei, sull'eventualità della sconfitta e sulle sue conseguenze per l'Italia.
Nessuno osava dirlo pubblicamente, ma la sensazione era quella di una catastrofe imminente.
A conferma di questo, avvenne un fatto a dir poco clamoroso: il generale De Toschi e sua figlia erano partiti di nascosto per destinazione ignota.
A quel punto fu chiaro a tutti che la nave stava affondando.