giovedì 3 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 97. Apologia e apoplessia


La procedura penale italiana è molto diversa da quella americana,  a cui siamo stati abituati a partire dai tempi di Perry Mason fino ad arrivare ai legal thriller.
I processi americani sono molto teatrali, perché l'obiettivo è quello di convincere una giuria popolare, non esperta di diritto penale o di medicina legale, a emettere una sentenza sull'onda dell'emozione del momento.
Niente di tutto questo nei processi italiani, prevalentemente burocratici, basati per lo più sul lavoro d'ufficio, sulle scartoffie, sull'esame meticoloso delle perizie e poco sul dibattimento in aula, che nei tribunali italiani è privo di tutta la drammatizzazione che si vede nei film americani.

Ciò non toglie che, data l'importanza dell'imputato e l'attenzione dei mass-media, il processo ad Ettore Ricci abbia finito per costituire un'eccezione alla regola.
Nel suo caso ci furono testimonianze di alto valore drammatico, nel senso teatrale del termine, dove tutti i testimoni cercarono di recitare, con la massima perizia, una parte degna di una nomination al Premio Oscar.
Riporteremo qui soltanto alcuni passaggi.
Diana Orsini si presentò all'udienza in modo sobrio e dimesso, comunicando a tutti l'immagine di una semplice madre di famiglia e di una moglie affranta:

<<Non è mia intenzione dubitare della buona fede dei testimoni dell'accusa, ma è mio dovere rilevare che si è trattato di un terribile equivoco. 
La loro ricostruzione dei fatti si basa su un completo fraintendimento. 
Mio marito ha aiutato finanziariamente molte famiglie in difficoltà, e lo ha fatto con la massima discrezione, perché gli è stato insegnato che il bene va fatto senza vantarsene e senza compromettere la rispettabilità di coloro che sono stati aiutati. Se poi qualcuno si è sentito in dovere di sdebitarsi in qualche modo, non è stato certo dietro nostra sollecitazione.
Riguardo alle questioni contabili l'unica colpa di mio marito è di essersi fidato di persone che in apparenza si comportavano da amici, mentre in realtà non lo erano affatto.
Non voglio spingermi oltre, nel parlare di queste persone, ma credo che avessero da tempo l'intenzione di nuocerci.
Noi, in questa situazione, siamo la parte lesa, non certo i mandanti.
In considerazione di tutto ciò che ho detto, mi permetto di invitare la Corte a tenere presente la nostra buona fede.
Le uniche colpe di mio marito sono state la generosità e l'ingenuità>>

Quando il Pubblico Ministero le chiese se aveva le prove per sostenere quanto affermava, Diana Orsini sospirò:
<<So che la mia parola non è sufficiente, ma confido che le sia attribuito quantomeno lo stesso peso di chi, in maniera anonima, ha cercato di dimostrare il contrario>>
La risposta piacque all'uditorio, ma l'avvocato Vanesio  rischiò di rovinare tutto con un commento fuori luogo:
<<Ecco il discorso di una donna innamorata! Del resto è noto che ogni donna sceglie l'uomo che la sceglierà>>
Le cose non erano andate affatto così, ma non era quello il momento di sottilizzare. Si era creato un clima nuovo in aula.

Naturalmente, Ettore Ricci, da par suo, volle rilasciare una focosa deposizione spontanea, destinata a rimanere impressa nella memoria dei presenti, non fosse altro che per il suo clamoroso finale:
Quando prese la parola tutti tremavano, compreso l'avvocato Vanesio.
<<Vostro Onore>> esordì Ettore Ricci rivolto al Presidente del Tribunale <<Signori della Corte, come è emerso da questo dibattimento, la mia unica colpa è stata quella di aver riposto la mia fiducia nelle persone sbagliate, che hanno approfittato della mia generosità, della mia ingenuità e della mia ignoranza a livello contabile.
Si è detto che io "non potevo non sapere", ma mi si fa troppo onore: io non sono un uomo istruito e come tale, se anche determinati documenti fossero passati per il mio ufficio, non ero in grado di capire le insidie che celavano,

Si è obiettato che l'ignoranza della legge non può essere addotta come scusante: ma ciò che io ignoravo era la contabilità, non la legge. 
Michele Braghiri era un ragioniere ben preparato, ed io credevo che fosse anche un amico.
Per questo, in buona fede, ho firmato documenti di cui non comprendevo il significato.
Se l'ignoranza è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Ma la mia ignoranza non deriva da una negligenza, o da una mancanza di volontà.
Il fatto è che io vengo da una famiglia povera, di braccianti, di contadini. 
Quando ero bambino, mio padre non aveva ancora avviato le attività che in seguito portarono la famiglia Ricci alla prosperità, cosa che avvenne quando io avevo più di vent'anni, ed avevo lavorato nei campi per almeno due lustri.
Se la povertà che mi ha impedito di studiare è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Sono sempre stato fiero delle mie origini umili.
E forse magari agli occhi di molti è questa la mia vera colpa: essere quello che l'elite chiamerebbe un "arricchito", o come avrebbe detto mio suocero, "un parvenu".
Scommetto che molti, tra i banchi dell'accusa, ridono di me e dei miei modi contadini, e vogliono punirmi perché ai loro occhi sono rozzo e volgare. Ma questo non è un reato!
Posso aver commesso delle leggerezze, per le quali io chiedo di essere giudicato tenendo conto della bontà delle intenzioni e della sincera volontà di rimediare, se sono state commesse delle irregolarità.
Ma chiedo umilmente questa Corte di riconoscere che il mio successo negli affari non è frutto di un crimine, ma solo ed esclusivamente del mio duro lavoro e delle fatiche di una vita.
E' questo il punto, Signori della Corte...>> e qui fu travolto dalla commozione e dallo sdegno, come Julien Sorel alla fine de Il Rosso e il Nero. <<... sì, questo è il punto. E cioè il fatto che coloro che mi accusano vogliono punire in me tutti coloro i quali, nati in una condizione sociale inferiore, hanno avuto l'audacia di mescolarsi a quella che l'orgoglio dei ricchi di antica data chiama altezzosamente "la Buona Società">>

Quelle parole colpirono nel segno la platea, che, pur essendo inizialmente ostile ad Ettore Ricci, alla fine lo applaudì calorosamente come se fosse un martire della causa del proletariato.
A prescindere dalle decisioni del Tribunale, quell'applauso stava a significare che la famiglia Ricci-Orsini aveva ritrovato la simpatia e il rispetto dei concittadini.
Ma su Ettore pendeva comunque una maledizione potente, e Ida Braghiri in persona si era recata dalle sue sorelle streghe delle paludi, Iole, Irma ed Ermide, che le garantirono ciò che era stato pattuito: "Due sacrifici sono stati compiuti, e una vita è già stata spezzata. Ora tocca alla seconda. Non sarà una cosa breve, perché ci sono altre forze in gioco"
Ida Braghiri capì a chi alludevano le sue sorelle, quando parlarono dell'Iniziato, e si rese conto che la situazione era diventata assai più complessa.
Tutto era divenuto evidente quel giorno, al Tribunale.
Mentre la platea applaudiva, Ida notò con fastidio che l'Iniziato si stava recando al telefono più vicino, perché sapeva che ce ne sarebbe stato bisogno.
E infatti, proprio nel momento dell'apparente redenzione, un malore colpì Ettore Ricci non appena ebbe finito di parlare. 
Era ancora in piedi, al termine della propria apologia, con la faccia paonazza e il respiro affannato, quando si manifestarono i sintomi dell'ictus ischemico.
Dopo alcuni istanti di esitazione, Ettore barcollò, si aggrappò al microfono, che cadde.
Si accasciò infine sul banco degli imputati, sentendo che metà del suo corpo perdeva i sensi, e scrutando le tenebre che s'infittivano davanti ai suoi occhi, pensò:
"Non ancora. Non è il momento. Lontano è il mio destino, ed io farò ritorno nella mia terra da uomo libero".