giovedì 25 giugno 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 73. Il salotto giallo di Silvia Ricci-Orsini Monterovere

10 idee per il colore delle pareti in soggiorno | Salotto giallo ...

Ogni sabato sera, Silvia Ricci-Orsini e il marito Francesco Monterovere invitavano a cena il fior fiore dell'Intellighenzia forlivese, tra cui il Sommo Poeta Adriano Trombatore e la moglie Anna De Gubernatis; la sorella di quest'ultima, Elisabetta, col marito, professor Massimo Braghiri (finto amico e acerrimo rivale di Francesco); la Signorina Mariuccia De Toschi, detta la Grande Mademoiselle, che ancora, a ottantacinque anni, impartiva lezioni di latino e greco; il professor Piero Giovannelli, matematico e metafisico, e la compagna Carla Gatti; il Giudice Guglielmo De Gubernatis, grande latinista e francesista, e la moglie Ginevra Orsini, zia materna di Silvia; il Senatore democristiano Leandro Baroni e la moglie Caterina Ricci, zia paterna di Silvia; la professoressa Dea Vermiglioni, col suo neo di ampiezza spropositata; il vice-preside professor Paride Marchesi, illustre studioso di lingua e letteratura inglese; il preside, lo storico Fernando Rocca Rossellino, esperto della Mesopotamia Sumera e Presidente del Rotary Club oltre che del circolo degli Amanti della Lirica; più altri notabili che variavano a seconda delle serate, come "ospiti a sorpresa", tra cui, ogni tanto, l'ìllustrissimo docente universitario Prof. Lorenzo Monterovere, fratello minore di Francesco e studioso di Storia delle Religioni e di Esoterismo e Iniziazioni misteriche. Si mormorava che lui stesso facesse parte di una Setta Segreta.
Silvia sapeva che, nonostante i "grandi nomi" che figuravano tra i suoi ospiti, non sarebbe stato facile competere col "Salotto Liberty" di sua madre, presso la Villa Orsini di Casemurate, dove si riuniva l'Aristocrazia, ossia, i marchesi Spreti di Serachieda, i conti Zanetti Protonotari Campi, i nobili della secolare stirpe dei Paolucci de' Calboli, dei Traversari di Ravenna, dei Gagni di Montescudo e degli Orsi-Mangelli.
Ogni tanto, qualche illustre esponente di quelle antiche casate si degnava di partecipare ad una serata presso il salotto dei Monterovere.
Certo non era stato facile convincerli, e anzi si era resa necessaria una forte moral suasion della madre di Silvia, la leggendaria Diana Orsini Balducci, diciottesima Contessa di Casemurate.
La quale Diana, tuttavia, quando partecipò per la prima volta ad uno dei sabati sera organizzati da sua figlia, ebbe da ridire sugli ospiti fissi, commentando la lista con una citazione di Shakespeare:
<<Vuoto è l'inferno, tutti i diavoli sono qui!>>
Si trattava di un giudizio lungimirante, tenuto conto di ciò che avvenne molti anni dopo, ma all'epoca appariva troppo severo.
L'altra obiezione di Diana, che invece risultò valida fin dall'inizio, riguardava il fatto che c'erano "troppi galli in un pollaio, e anche troppe galline, per non parlare delle oche, con tutto il rispetto per i pennuti".
In effetti a contendersi il ruolo di "primo attore, regista e capocomico" del dotto cenacolo di casa Monterovere c'erano troppe personalità istrioniche: la Signorina De Toschi, per le citazioni classicheggianti, anche se l'età le aveva fatto perdere qualche colpo; il Sommo Poeta per la voce da baritono che affascinava le donne, quando declamava i versi di Dante o di Montale; il professor Giovannelli, il cui cavallo di battaglia era la capacità di raccontare con grande ironia qualunque tipo di aneddoto, pettegolezzo o stroncatura di film e opere liriche; Massimo Braghiri, a cui andava riconosciuta un'estrema erudizione per quanto riguardava la storia dell'arte, i musei (li aveva visitati tutti, almeno in Italia) e le mostre. La rivalità tra questi personaggi (esclusa la De Toschi, che era stata docente di tutti gli altri), si estendeva anche alle rispettive mogli o compagne, provocando accese discussioni che spesso rischiavano di degenerare in risse da osteria.
Memorabile e mai del tutto sopita fu la cosiddetta "Questione di Fellini".
Tutto ebbe origine quando Francesco Monterovere dichiarò apertamente, davanti a quel pubblico di sapienti e Maîtres à penser, che il suo regista preferito era Federico Fellini, di cui adorava tutti i film, per il loro stile visionario e surrealista.
Questa affermazione, espressa con ingenuo entusiasmo, provocò nella sala un effetto pari a quello che avrebbe potuto scaturire da una volgare bestemmia.
In quel primo momento di sdegno, tutti i vari Soloni si trovarono concordi nel condannare l'affermazione di Francesco, contrapponendo a Fellini i propri personali idoli.
Massimo Braghiri fu il primo a scattare, furibondo, dichiarando che Fellini era un bieco reazionario, nemico dei lavoratori e del popolo, e gli contrappose Rossellini, Vittorio De Sica, Pasolini ed Eduardo De Filippo.
La De Toschi e Giovannelli, di gusti più estetizzanti, ma in senso classico, dichiararono che Luchino Visconti era incommensurabilmente superiore a tutti gli altri, e citarono "Senso", "Ludwig" e naturalmente "Il Gattopardo".
Giovannelli poi si lasciò trasportare e spaziò oltralpe e molto indietro nel tempo, citando Jean Renoir e "La grande illusione".
Il Sommo Poeta condannò il cinema come diavoleria moderna, di cui salvava soltanto l'espressionismo tedesco e sovietico, e in particolare "Dies irae" di Carlo Teodoro Dryer, "Der Kabinett des Doctor Caligari" di Murnau e naturalmente il classico dei classici, "La corazzata Potëmkin", del maestro Sergej M. Eisenstein.
A questo punto si sentì in dovere di dire la sua anche il preside Fernando Rocca Rossellino, che dichiarò che, a costo di suscitare l'ilarità dei presenti, lui giudicava impareggiabili le regie d'opera del maestro Zeffirelli.
Nessuno ebbe il coraggio di contraddirlo, ma il silenzio che seguì tale affermazione fu una risposta adeguatamente significativa.
A questo punto intervennero le signore.
La professoressa Gatti ammise che di Fellini, comunque, si poteva salvare "Lo sceicco bianco", e in questo trovò concorde il compagno Giovanelli.
La professoressa Vermiglioni concedeva che "tutto sommato "I Vitelloni" è spassoso e "La strada" è profondo, ma non si può andare oltre".
A quel punto interveniva la prof. Elisabetta Braghiri, nata De Gubernatis, dicendo che lei, per quanto riguardava Fellini, poteva arrivare fino a "La dolce vita".
Suo marito Massimo Braghiri annuì.
Non volendo essere da meno della gemella, la signora Anna Trombatore, nata De Gubernatis, dichiarò che a suo parere anche "Otto e mezzo" era guardabile, mentre "Giulietta degli spiriti" era stata per lei una cocente delusione.
A quel punto tutti gli sguardi si rivolsero alla padrona di casa, per una sentenza definitiva sulla vexata quaestio, e dunque Silvia Monterovere, nata Ricci-Orsini, azzardò un parere scandaloso, tale da épater le bourgeois : <<Pensatela come vi pare, ma a me Amarcord è piaciuto tantissimo. Mi ha ricordato la mia infanzia in campagna>>
Apriti cielo!
Tutti i notabili presenti nella sala si sentirono in dovere di dissociarsi immediatamente da tale incresciosa affermazione.
Sua zia Ginevra Orsini De Gubernatis, sdegnata, dichiarò: <<Fai un grande torto alla nostra famiglia quando parli della vita di campagna come se noi Orsini fossimo degli zotici villici>>
Anche il Senatore Baroni, con aria solenne, espresse tutto il suo sdegno:
<<Noi non ci confondiamo con quei villani che si mettono le dita nel naso!>> e annuì, approvando la propria stessa sentenza.
Chiuse la questione la Signorina De Toschi:
<<Silvia, te lo dico con affetto, non insistere su questo punto. Non farti del male...>>
Ed espirò una nube mefitica di fumo di sigaretta.
In quel momento i due Monterovere, Silvia e Francesco, si guardarono negli occhi e si sentirono accomunati dal desiderio di prendere a calci nel sedere quei ridicoli snob che frequentavano a sbafo, ogni sabato, il loro salotto, dispensando disprezzo verso tutto e verso tutti.
E tuttavia non lo fecero mai, perché Forlì era ed è ancora una piccola città, dove tutti conoscono tutti e dove, se ti fai un nemico, questo nemico te la farà pagare, in un modo o nell'altro, avvalendosi della rete delle cosiddette "amicizie comuni", che non erano mai vere amicizie, poiché tutta quella ragnatela di relazioni era intrisa nel veleno dell'invidia e della volontà di rivalsa contro la figlia e il genero del potente Ettore Ricci e della sua aristocratica consorte.
Silvia e Francesco lo sapevano, e si rendevano conto che se non si era in grado di sconfiggere un nemico era meglio farselo amico e tenerlo sotto controllo.
Ma non sempre questa massima è efficace, perché certi nemici sanno infiltrarsi nelle vite delle loro vittime fino a scoprirne i punti deboli e a colpirli senza pietà.
Il punto debole di Silvia e Francesco era loro figlio Roberto, che secondo i pediatri era un bambino "mentalmente dotato, ma fragile, con una bassa soglia di sopportazione dello stress e una tendenza alla ripetitività e all'asocialità, e potrebbe darvi dei problemi, andando avanti".
Mai diagnosi si rivelò più fondata.