Gli oggetti sono ancora al loro posto
a custodire muti la quiete polverosa
delle stanze, nell'oppiaceo incantesimo
che inutilmente finge un'illusione:
come se i decenni non fossero sfumati
nell'inconcludenza di un tempo nascosto
già negli interstizi e sotto i tappeti.
E non serve a nulla fare l'inventario
delle cose perdute, per poi soffocare dentro
l'urlo dei rimpianti e appoggiarsi a questi
arredi fragili come fossero pilastri
mentre tutto frana intorno
e i volti a poco a poco si congedano.
Come il silenzio,
noi scenderemo ognuno
per le proprie scale,
non penseremo più
al tuo bene ed al mio male,
senza guardare in giù,
e tutto il resto vada poi
come gli pare.
Come il deserto,
che avanza dentro me
veloce come il suono,
la nostra storia brucerà
un'ultima volta
e finalmente poi sarà
soltanto fumo.
Che ne faremo
di questa farsa
che si ferma e poi riparte,
di questa vita
che non nasce e che non muore?
Dal grande fiume
svogliatamente
ci faremo trascinare
dalla sorgente alla foce,
fino al mare,
dalla corrente alla deriva
e non nuotare.
Dentro l'abisso,
che si spalanca sotto noi
come una fauce,
potremo infine
dolcemente sprofondare
e tutto il male
ora e per sempre svanirà,
svanirà,
svanirà.
Noi abbiamo sognato in grande:
stelle, galassie, universi interi,
nebulose, viaggi, distanze siderali.
Noi eravamo i visionari, l'onda
che si è infranta, gli anormali
naufragati tra un millennio e l'altro,
già obsoleti a detta dei nativi digitali.
Loro sono invece troppo scaltri,
ci tarpano le ali e irridono l'immenso.
Ecco quel che non abbiamo avuto:
in cambio ci hanno dato i cellulari.




