Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
lunedì 1 gennaio 2018
Vite quasi parallele. Capitolo.97 La brace dei Monterovere
Il "patriarca" Romano Monterovere aveva compiuto 95 anni il 15 febbraio del 2006.
Le sue condizioni di salute erano ormai gravemente compromesse: era in atto un edema polmonare che lo aveva costretto al ricovero al reparto di terapia intensiva di una clinica privata nella quale era solito recarsi alla ricerca di soluzioni che potessero prolungare il più possibile la sua vita.
Ma sapeva anche lui che questa vita era giunta al crepuscolo.
Ogni giorno gli prelevavano l'acqua dai polmoni con un ago, e non era certo una pratica che potesse durare all'infinito.
L'edema stava affaticando tutti gli altri organi e mostrava i segni di degenerazione in enfisema, con tutti i gravi problemi respiratori che ne sarebbero conseguiti.
A metà marzo, in mancanza di segni di miglioramento e con una prognosi negativa, Romano incominciò a sentire "il tedio della fuga e della vita", come Cicerone quando si lasciò catturare dai sicari di Marco Antonio.
La sua vita era stata lunga e intensa, ma segnata dalla perdita prematura dell'amata moglie e dai rapporti difficili con i figli e i nipoti.
Alla fine i momenti felici, quelli da salvare e da ricordare nell'ora in cui si avvicinava il trapasso, erano davvero pochi.
Cercò di enumerarli e di riviverli.
Il volto di Giulia il giorno del loro matrimonio, l'azzurro dell'oceano nel Golfo di Aden, ai tempi della guerra di Abissinia, e prima ancora il profumo dei boschi che circondavano l'antico borgo Monterovere, vicino al quale aveva trascorso la sua infanzia.
A quei tempi il castello era perduto da generazioni e mai avrebbe immaginato che suo figlio Lorenzo, quello che aveva praticamente cacciato di casa, avrebbe avuto tanto successo da poterselo ricomprare.
Ma era stato un atto di vanità.
A Romano non importava nulla del castello: era cresciuto felice nella fattoria dei suoi genitori, ascoltando le storie di suo nonno Ferdinando, che a novant'anni andava ancora a cavallo per i boschi.
Ricordava le notti d'inverno trascorse attorno al camino, mentre il nonno raccontava le leggende sugli elfi dei boschi e sulle fate dei ruscelli, quando c'erano ancora i druidi gallici e l'Antica Quercia si ergeva maestosa nel luogo che, dopo il suo abbattimento per ordine dell'imperatore romano Teodosio, era stato soprannominato cupamente "l'Orma del Diavolo".
Ferdinando andava avanti per ore, fino a quando la brace del camino non era consumata e i nipoti si erano addormentati.
Ripensando a quelle serate della sua infanzia, Romano si accorse di non essere mai stato più così completamente e serenamente felice: era piccolo ed era povero, eppure quei momenti di magia e di calore erano stati quanto di meglio avesse avuto dalla vita.
Romano aveva provato molto dolore quando il vecchio era morto, disarcionato dal cavallo proprio nei pressi dell'Orma del Diavolo.
Lui fu un bravo nonno. Io non lo sono stato, né sono stato un buon padre. Nessuno piangerà al mio funerale.
Quando subentrò l'enfisema, l'ossigenazione tramite maschera non fu più sufficiente.
Occorreva intubarlo dal naso, passando per le corde vocali fino ad arrivare ai polmoni.
Fece venire un prete per la confessione e l'estrema unzione.
Poi si preparò all'ultimo atto.
Al suo capezzale c'erano solo la figlia Enrichetta e il fratello Edoardo, destinato a diventare l'ultimo dei Fratelli Monterovere, fondatori dell'omonima Azienda, ormai controllata dalla famiglia Bassi-Pallai.
Prima che lo intubassero, volle sussurrare le sue ultime parole:
<<La parte migliore di me è morta con la mia povera Giulia, trent'anni fa.
Ora è soltanto la parte peggiore quella che sta morendo.
Sono stato troppo duro con Francesco e Lorenzo: pregate loro di perdonarmi.
Grazie, Enrichetta ed Edoardo, per avermi sopportato fino all'ultimo>>
Poi fece cenno agli infermieri procedessero con l'intubazione.
Entrò in coma poco dopo.
L'enfisema si aggravò e subentrò il blocco renale.
Romano Monterovere morì il 20 marzo 2006.
Al suo funerale parteciparono tutti i parenti.
Ormai le uniche occasioni di ritrovo erano quelle, insieme ai matrimoni, ai battesimi e alle cresime.
Riccardo tornò da Bologna per partecipare alle esequie insieme allo zio Lorenzo, il grande accademico, che non vedeva il padre da anni.
Guidava Lorenzo:
<<Vedo che con Latino non sei partito proprio col piede giusto, dico bene?>>
Riccardo temeva di aver dato a suo zio una grande delusione.
<<Mi dispiace. La prossima volta mi preparerò meglio>>
Lorenzo sorrise:
<<Non preoccuparti. Anch'io sono stato bocciato, la prima volta. E sai cosa ti dico? Il fallimento è il più grande maestro>>
Riccardo sorrise a sua volta:
<<Nel qual caso dovrebbero darmi una laurea ad honorem in fallimenti>>
Lo zio allora si rivolse a lui in tono serio:
<<Tu sei l'ultimo dei Monterovere. L'ultimo erede maschio della famiglia. So che sei più legato alla famiglia di tua madre, il grande clan Ricci-Orsini, ma ora che Romano è morto, è tempo che ti prepari al tuo ruolo. Se ti mostrerai all'altezza delle grandi aspettative che nutro nei tuoi confronti, potrai diventare l'erede del mio patrimonio, compreso il castello di Monterovere Boica>>
La cosa spaventava un po' il nipote:
<<Io ti ringrazio per la fiducia, zio. Ma temo che non potrò mai guadagnare a sufficienza per potermi permettere la manutenzione di un castello così antico. A dire il vero non so nemmeno come tu ci riesca>>
Lorenzo assunse un'espressione da vecchia volpe astuta:
<<Un giorno avrai tutte le risposte. Ma per ora ti basti sapere che io non sono solo un docente universitario. Ricopro altri incarichi, meno noti, ma più remunerativi e decisamente più interessanti>>
Riccardo ebbe un brutto presentimento: gli sembrava di essere come Anakin Skywalker nel momento in cui il cancelliere Palpatine gli pone la fatidica domanda su Darth Plagueis il Saggio.
Lorenzo rappresentava il Lato Oscuro della famiglia Monterovere e Riccardo ne aveva paura.
domenica 31 dicembre 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 96. La disastrosa prova scritta di latino ossia come sbocciò l'amore tra Ilaria e Riccardo
Tutti sanno che l'esame più temuto dalle matricole di Lettere a Bologna è la famigerata prova scritta di latino, di cui si narra che mai nella storia fu superata al primo tentativo.
La data era prevista per la seconda settimana di gennaio del 2006.
Riccardo, scioccamente illuso delle proprie capacità di traduttore, non avendo mai preso meno di otto nelle versioni del Liceo, affrontò la prova con irresponsabile leggerezza.
Ma anche i più preparati e i più responsabili si trovarono in difficoltà.
Venne fuori un brano di Cesare particolarmente ostico, contorto ed ellittico, pieno di ablativi assoluti appesi nel vuoto e avulsi dal contesto, di frasi oscure con soggetto implicito e di espressioni a tal punto sintetiche e ruvide da risultare quasi inesprimibili in italiano.
Panico e disperazione regnarono sovrani nelle quattro ore d'esame, che si rivelarono comunque insufficienti per riuscire a venire a capo di quel rebus assurdo.
Alla fine della prova, tutti avevano un aspetto da zombie e a malapena si reggevano in piedi.
Riccardo era nel pallone più totale, per usare un'espressione fantozziana, ma anche la precisa e infallibile Ilaria sembrava insolitamente scossa.
Tutti confrontavano le loro traduzioni e scoprivano di aver preso cantonate pazzesche.
Tenete conto che il 2006 fu l'ultimo anno dell'Era Ante I-Phone, per cui non ci si poteva connettere ad internet dal cellulare, e dunque nessuno aveva immediato accesso alla versione corretta.
Fu così che tutti tornarono a casa, sia per controllare la vera traduzione, sia per riprendersi dallo sfinimento e mettersi a letto, dopo aver staccato il telefono e spento il cellulare.
I risultati uscirono due settimane dopo e mai Riccardo avrebbe potuto immaginare che quell'infausto giorno sarebbe coinciso con il suo primo, magico e persino romantico colloquio con l'irraggiungibile Ilaria Mantovani.
Vale dunque la pena raccontare nel dettaglio e con la massima accuratezza tutto ciò che avvenne quella memorabile mattina.
Riccardo era uscito da Mascarel Palace di buon'ora, con stoica determinazione a non lasciarsi abbattere da quella che si profilava come la sua prima vera bocciatura in una prova scritta.
Quando arrivò al Dipartimento di Filologia Classica ancora non sapeva che quella sarebbe stata la location principale della storia d'amore più importante della sua vita.
I cartelloni con l'esito dell'esame erano già stati appesi alla bacheca e la folla di matricole si accalcava nell'assurda speranza di trovare, a fianco del proprio nome, almeno un miracoloso 18.
Forse i lettori non ci crederanno, ma non vi fu neanche una sufficienza.
Tutti bocciati.
Tutti.
Compresi naturalmente Riccardo e Ilaria.
Lui ormai se n'era fatta una ragione da un pezzo e probabilmente il suo voto reale, in trentesimi, sarebbe stato meno di zero.
Ma per Ilaria dovette essere un vero shock, perché quando riemerse dalla calca, si andò a stendere su una panca di legno lungo il corridoio.
Fortuna volle che Riccardo si trovasse già seduto proprio in quella fatidica panca.
Esistono momenti, nella vita, e circostanze particolari e speciali che annullano le normali barriere comunicative tra le persone: succede nei momenti di emergenza, nelle camere di ospedale, nelle sale d'attesa degli ambulatori o nelle sedi di un concorso pubblico, specie quando si è accomunati ad una sorte simile.
Successe così anche a Ilaria e Riccardo.
Lui era a tal punto concentrato nel pianificare le strategie per riprendersi da quella disfatta che non si accorse nemmeno del fatto che la ragazza per la quale provava tanto interesse si fosse letteralmente distesa nella stessa panca di legno scuro e antico dove lui era seduto.
Per un tempo non quantificabile rimasero così, inconsapevoli e indifferenti l'uno dell'altra, lei con gli occhi rivolti al soffitto, lui con la faccia più ebete del solito e lo sguardo perso nel vuoto.
Poi, improvvisamente, ecco il Miracolo.
Nello stesso istante, i loro sguardi, alla fine si incontrarono.
Lei era bellissima anche così, nel momento della sconfitta e del dubbio.
Lui per poco non fu colto da un infarto e la sua espressione dovette sembrare così comica agli occhi di Ilaria che lei si mise a ridere.
In quel momento a Riccardo sembro di essere come Roger Rabbit, la cui meravigliosa moglie Jessica diceva: "Lo amo perché mi fa ridere" e "Non sono cattiva, è solo che mi disegnano così".
A tanti anni di distanza, per lui rimaneva un dolce ricordo pensare che un amore così grande fosse nato con un momento di ilarità capace di scacciare la tristezza per una sconfitta.
Dopo alcuni secondi di estasi, Riccardo recuperò le proprie facoltà mentali e verbali:
<<Anche tu sei reduce dall'esito della prova di latino?>>
Lei, ricomponendosi, annuì:
<<Ha fatto crollare tutte le mie certezze>>
Riccardo annuì a sua volta:
<<Diciamo che anch'io ho avuto momenti migliori>>
Disse esattamente così, ma non era vero: quello era in assoluto il momento migliore che gli fosse mai capitato di vivere.
Il ghiaccio tra lui e Ilaria si era rotto da sé, spontaneamente, senza bisogno di goffi tentativi di approccio.
<<Hai fatto il classico?>> chiese lei.
Lui scosse il capo, mortificato:
<<Ahimè no, io sono un "barbaro" dello scientifico e non so una parola di greco>>
E lei si mise a ridere di nuovo:
<<Ah, ah, ma anch'io una "barbara" dello scientifico! E' solo che non avevo mai preso meno di otto in latino>>
Riccardo si illuminò come se avesse visto apparire la Vergine Maria in persona:
<<Pure io! Se c'era una materia dove mi sentivo sicuro era questa. Adesso non sono più sicuro nemmeno della mia esistenza>>
Ogni tristezza e delusione sparirono dal bel volto di Ilaria e i suoi meravigliosi occhi tornarono a splendere:
<<Allora siamo in due. Solo che per me è una batosta più dura, perché io sono iscritta al corso di Lettere Classiche>>
Riccardo era stupefatto:
<<Quindi dovrai imparare il greco ex novo? Ehm, perdonami il latinismo!>>
Lei ormai rideva per ogni scemenza di lui:
<<Il greco me lo sono studiato quest'estate. Immagino che avrai notato che non ero molto abbronzata>>
Questa risposta aveva due implicazioni:
1) Ilaria, oltre che essere bellissima, era una vera secchiona, il che la rendeva, agli occhi di Riccardo, assolutamente irresistibile, come certe segretarie con gli occhiali.
2) Lei si era accorta che lui l'aveva osservata per tutto il primo trimestre e voleva farglielo capire.
Lui colse la palla al balzo:
<<Sì, l'avevo notato. Ma stai benissimo così: hai una pelle così fresca, così vellutata, se posso permettermi...>>
Lei ormai rideva a crepapelle:
<<Ah ah, ma come parli? Sei uscito fuori da un romanzo di Jane Austen? Ti hanno ibernato durante l'Ottocento?>>
Lui stette al gioco:
<<In verità sono un Vampiro, guarda che canini appuntiti!>>
A quel punto ogni barriera era infranta.
Lei aveva un'espressione allegra mai mostrata prima, durante le lezioni:
<<Piacere, io mi chiamo Ilaria, spero che tu non ti chiami Vlad Dracula o Edward Cullen!>>
Lui era in Paradiso:
<<Molto piacere, io mi chiamo Riccardo, ma sono molto più bello di Robert Pattinson>>
Potrà sembrarvi incredibile, ma i grandi amori possono incominciare anche così.
mercoledì 27 dicembre 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 95. Ilaria
Dopo un inizio abbastanza positivo del suo lavoro in banca, Riccardo ebbe alcuni mesi di tregua. L'anno successivo però si manifestarono i primi dubbi, che divennero certezze quando fu trasferito all'Ufficio Controllo Crediti. Per motivi di privacy non possiamo essere troppo espliciti nel riferire cosa accadeva in quell'ufficio: basti sapere che gran parte degli attuali problemi finanziari delle banche italiane e non solo, erano già evidenti nel 2003.
Dopo scrupolose analisi dei bilanci delle società indebitate verso la banca per cui lavorava, Riccardo si rese conto che la maggioranza dei crediti era da considerarsi "in sofferenza", ossia sostanzialmente inesigibile, poiché i debitore erano de facto già insolventi.
I dirigenti, in maniera furbesca e illegale, facevano firmare la pratica di messa "in bonis" di questi debitori insolventi proprio ai neoassunti, specie a quelli con contratto a tempo determinato.
Riccardo si rifiutò di firmare la certificazione di esigibilità di crediti concessi ad aziende sull'orlo della bancarotta e questo provocò la reazione stizzita dei capi, con un successivo mobbing e una nota di demerito spedita all'ufficio del personale.
Per farla corta, alla fine il suo contratto di formazione e lavoro non venne rinnovato alla scadenza del termine, nel 2005, e la banca disse esplicitamente che non avrebbe fornito referenze positive. A quel punto, dopo l'ennesimo buco nell'acqua, Riccardo non sapeva più a che santo votarsi.
Fu allora che entrò in scena lo zio Lorenzo Monterovere, Docente Ordinario di Storia delle Religioni all'Università di Bologna. che lo convinse ad iscriversi al Corso di Laurea Triennale in Storia (c'era stata la riforma del 3+2) e gli promise tutto il suo appoggio per una carriera accademica nell'insegnamento delle discipline storiche.
La prospettiva sembrava molto allettante, anche perché, essendo lo zio Lorenzo senza figli e scapolo, oltre che smisuratamente ricco, c'era anche la possibilità di entrare nelle sue grazie anche come erede.
Tutta la famiglia (genitori, nonni, zie, zii, cugini di vario grado) e gli amici più intimi appoggiarono con convinzione e determinazione questa idea, che in effetti era più consona alle attitudini e agli interessi culturali del nostro "eroe".
Fu così che, nell'autunno del 2005, a 30 anni, Riccardo Monterovere si iscrisse all'Università di Bologna e incominciò a frequentare le lezioni per la sua seconda laurea.
Ritornare nell'ambiente universitario dopo tanto tempo lo fece ringiovanire nel corpo e nello spirito.
Inoltre si trattava di un'università molto diversa, e in particolare di una Facoltà, quella di Lettere, Filosofia, Storia e Scienze umanistiche, del tutto opposta rispetto a quella di economia, frequentata negli anni milanesi.
Riccardo, che era un fighetto "milanesizzato" tipo quelli descritti nella pagina Facebook del Milanese Imbruttito, si trovò circondato da un'orda di matricole di tutti i tipi, compresi i rasta, punk e alternativi vari, ma soprattutto da una marea di ragazze, perché è noto che nelle facoltà umanistiche la presenza di studentesse è maggiore.
Erano però ragazze di diciannove anni, cioè undici in meno di lui, e questo gli faceva una certa impressione, come se fosse entrato in un territorio pericoloso.
Tenne segreto fin dall'inizio tutto il suo passato, compresa la sua età: in fondo dimostrava molti meno anni di quelli che aveva e nessuno sospettava che lui fosse alla seconda esperienza universitaria.
E tuttavia l'esperienza di vita che aveva acquisito sia nei cinque anni milanesi, sia nell'anno del servizio civile, sia nei due anni del lavoro in banca, gli avevano dato una maggiore sicurezza di sé e un distacco ironico che gli conferivano un certo fascino, tanto da renderlo popolare sia tra i nuovi amici che tra le ragazze.
Le sue colleghe di studi erano tutte persone molto intelligenti e molto interessanti, e questo rinnovò in lui la speranza che tra di loro, forse, chissà, ci potesse essere la sua tanto sognata Anima Gemella.
In particolare una di loro aveva attratto la sua attenzione.
Si trattava di una ragazza "seria", di quelle che si sedevano sempre nei primi banchi e prendevano appunti con grande precisione, senza distrarsi e mantenendo una compostezza olimpica.
Già questo la rendeva speciale e misteriosa.
Il suo aspetto era in parte diverso da quello delle donne da cui Riccardo era stato attratto negli anni precedenti, ed era decisamente molto lontano da quello delle sue ex fidanzate Vittoria e Barbara.
Era il classico tipo "acqua e sapone", con la pelle fresca, i capelli castani lunghi e lisci in maniera naturale, e l'abbigliamento tradizionale da studentessa modello (maglioncino con camicetta abbottonata, gonna simile a quelle delle divise scolastiche anglosassoni o giapponesi, oppure pantaloni o jeans ampi, leggermente svasati, come andavano in quegli anni e come stanno tornando ad andare adesso, dopo il "decennio skinny").
Con lei c'erano sempre due amiche, che le stavano appiccicate come se fossero due guardie del corpo, e che copiavano tutto quello che lei scriveva sul quaderno.
Quasi tutti gli orari di lezione di Riccardo per i corsi del primo anno coincidevano con quelli della misteriosa ragazza.
Fu così che ebbe inizio una "strategia dell'attenzione" ed una manovra di lento, ma costante avvicinamento.
Quando finalmente, a fine novembre, Riccardo arrivò a sedersi esattamente dietro di lei, riuscì a carpire le prime informazioni dai dialoghi (in realtà non molti) tra la ragazza del mistero e le sue amiche.
Riuscì quindi ad ottenere la prima informazione fondamentale e cioè il nome.
La fanciulla del mistero si chiamava Ilaria Mantovani.
Aveva una voce limpida, quasi senza inflessioni, per quanto si potesse intuire che fosse nata e cresciuta in Emilia.
Osservando il suo viso, con discrezione naturalmente, Riccardo fu come folgorato da un'illuminazione edipica: c'era qualcosa, in quel volto, che le ricordava le foto, da ragazze, di sua nonna e di sua madre.
Forse era stato quello l'elemento decisivo che aveva catalizzato la sua attenzione su Ilaria, ma faceva fatica ad ammetterlo persino a se stesso.
Ricordò il giorno in cui aveva detto a Diana: "Tu vorresti che io trovassi una come te", e sua nonna aveva riso, rispondendogli che non era una buona idea, considerando quanto travagliato era stato il suo matrimonio. Eppure quella risposta non era stata convincente, perché Diana aveva sposato l'uomo sbagliato perché costretta dal suo nobile e indebitato padre, il Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate.
In ogni caso, anche a prescindere da quelle considerazioni, Riccardo sentiva il desiderio di conoscere meglio Ilaria, magari di fare amicizia con lei e capire la sua personalità.
Non voleva essere però in nessun modo troppo affrettato o invadente.
Occorrevano prudenza, discrezione e tatto.
Tenete conto che nel 2005 non esistevano ancora i social network così come li abbiamo conosciuti dopo la rivoluzione digitale del 2007 e l'inizio dell'era degli smartphone e di tutto il sistema di contatti ruotanti intorno a quella realtà di impatto così immediato.
Questo permetteva ancora un approccio personale "vecchio stampo", che oggi ci sembra lontano come l'Ancien Regime o il Medioevo, tanto che forse, un triste giorno, incominceranno a datare i calendari dall'anno in cui Steve Jobs vendette il primo I-Phone.
Col senno di poi, Riccardo avrebbe detto che sarebbe stato più prudente non imbarcarsi nel viaggio verso quel continente inesplorato che era Ilaria, considerando che tutta la loro tormentata e profonda neverending story (infinita solo per quel che riguarda le cicatrici lasciate nel cuore di entrambi) avrebbe avuto l'effetto di una tempesta da far felice Emily Bronte.
Ma questo discorso vale per tutti i viaggi, sia in amore che in mare: si è più sicuri rimanendo ormeggiati nel porto, ma non è per questo che sono costruite le navi.
martedì 26 dicembre 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 94. Dura pioggia cadrà
Dopo tutti gli scandali, i disastri finanziari, i testamenti traditi, i matrimoni osteggiati e quelli combinati, gli amori impossibili, le promesse non mantenute, i lutti, le delusioni e le conseguenti umiliazioni, il clan Ricci-Orsini-Monterovere credeva di aver toccato il fondo e che dunque il peggio fosse passato.
E invece no.
A volte ci sembra impossibile che le cose possano andare peggio di come stanno andando, ma è un'illusione.
La verità che non vogliamo sentirci dire è che non esiste limite al peggio, almeno non in questa vita.
Quello che era accaduto prima alle famiglie Ricci-Orsini e Monterovere era solo l'inizio, il preambolo, l'ouverture della vera tragedia greca che si sarebbe abbattuta come un uragano su tutti i membri della famiglia.
Grandi nubi incombevano su di loro, nubi che si facevano ogni giorno più nere e cariche di pioggia, di dura pioggia battente, di tempesta, anzi, di uragano.
Nessuno sarebbe stato risparmiato da quella bufera.
Né la generazione più anziana, né quella intermedia, né quella più giovane: soltanto quelli che nacquero dopo gli anni difficili poterono crescere come "figli dell'estate".
Il vecchio Romano Monterovere, più che novantenne, era ormai un relitto umano aggrappato alla vita come un'ostrica al proprio scoglio.
Aveva diseredato i figli maschi, ma anche alla figlia avrebbe lasciato poco, dal momento che tutti i suoi soldi furono spesi in un forsennato accanimento terapeutico, per prolungare il più possibile una vita che ormai non gli offriva altro che dolore. A tenerlo in vita era una specie di puntiglio: ci teneva a sopravvivere a tutti i suoi nemici e a tutte le persone pubbliche che non sopportava: era disposto a soffrire pene indicibili pur di ottenere questo risultato.
Diana Orsini aveva varcato la soglia dei novant'anni in condizioni apparentemente migliori, ma c'era un male che lavorava in segreto dentro di lei.
Ciò che però era ancora più sconvolgente era il fatto che lo stesso male, nello stesso identico punto, stava lavorando anche nel corpo di sua figlia, Silvia Ricci-Orsini.
A volte la genetica non perdona.
Nel 2003 ancora non lo sapevano, perché si trattava di una malattia silente, quasi impercettibile, che poteva andare avanti per decenni senza lasciare traccia, ma poteva anche rivelarsi fatale, se diagnosticata troppo tardi.
In ogni caso Silvia incominciava a sentire il peso dell'età, avendo oltrepassato i sessant'anni: per questo aveva deciso di andare in pensione.
Francesco Monterovere era andato in pensione nello stesso anno di sua moglie, ed entrambi speravano di potersi godere il tempo libero concedendosi qualche viaggio, qualche lunga vacanza, qualcosa che li aiutasse a riprendersi dagli eventi dell'ultimo decennio.
Ma Francesco aveva ereditato dalla madre gli stessi problemi cardiaci che avevano condotto Giulia Lanni Monterovere ad una morte precoce.
Grazie al cielo la medicina e la chirurgia avevano fatto passi da gigante, da quel lontano giorno in cui Giulia Monterovere era venuta a mancare, per cui il monitoraggio della situazione cardiovascolare fu tale da permettere a Francesco di conoscere per tempo i rischi a cui era esposto.
Il numero di interventi a cui dovette sottoporsi fu incredibilmente lungo e incominciò con una cardioversione e una defribrillazione, seguite poi da un'angioplastica coronarica. I rischi maggiori tuttavia provenivano dalle valvole cardiache calcificate e dall'aorta, che presentava un principio di aneurisma e di dissezione.
Era preoccupato, certo, ma le preoccupazioni più assillanti derivavano naturalmente dal figlio Riccardo, la cui situazione era incerta.
Finito il servizio civile, aveva incominciato una serie di colloqui di lavoro e aveva finito per accettare un incarico nella sede centrale di una banca di Bologna, sufficientemente lontano da Forlì per conservare un certo anonimato, ma anche sufficientemente vicino alla famiglia, che intendeva tenerlo d'occhio, affinché non ricadesse nei vizi milanesi.
E si trattava di un trasferimento destinato a durare.
Aveva anche acquistato un appartamento in Via Mascarella, con tanto di cortile interno, facendo un mutuo garantito da una fideiussione di sua nonna.
Fu da quel momento che i suoi amici, per scherzare bonariamente sui suoi quarti di nobiltà e sulla sua nuova residenza, incominciarono a chiamarlo "il Duca di Mascarel", e a ribattezzare la palazzina bolognese con l'epiteto sarcastico di Mascarel Palace.
Meno ironica era stata la reazione della sua ragazza.
Barbara non aveva gradito quella scelta.
A dire il vero, era da un po' di tempo che non gradiva più le scelte del fidanzato:
<<E' una banchetta da quattro soldi! Uno come te doveva accettare soltanto un posto alla Goldman Sachs, magari nella sede di Zurigo o di Londra. Avremmo fatto la bella vita! E invece ti sei infognato in quel grasso paesone emiliano... no, così non va... hai fatto una scelta da perdente ed io con i perdenti non voglio avere a che fare>>
Riccardo annuì:
<<Capisco. In fondo è tutta colpa mia: ti ho trasmesso di me un'immagine che non corrispondeva alla mia vera natura, e di questo ti chiedo scusa. L'ho fatto in buona fede, però, perché all'epoca anch'io credevo di essere forte e vincente. Ora non so più esattamente cosa sono, ma di sicuro non sono la persona che tu meriti di avere al tuo fianco>>
Senza l'euforia del Deadyn e l'atmosfera frenetica e mondana di Milano, la storia tra lui e Barbara non poteva più continuare.
Ci fu un addio civile e consensuale e con questo Riccardo dimostrò che, se anche fosse stato vero che era un perdente, almeno sapeva perdere con stile.
La fine della relazione con Barbara lo convinse ancora di più che era concluso il tempo delle relazioni superficiali, innescate solo da infatuazioni derivanti dall'aspetto fisico o dall'ambiente circostante.
Sarebbero state solo una perdita di tempo.
Era il momento di incominciare a cercare la donna giusta, la famosa anima gemella, ammesso che esistesse: quella che sarebbe potuta diventare la madre dei suoi figli, perché all'epoca ancora lui credeva di avere un dna degno di essere trasmesso.
Ciò che accadde dopo, però, sia ai suoi famigliari, in termini di malattie congenite, sia a lui stesso, in termini di instabilità emotiva e di scelte di vita, avrebbe messo fortemente in dubbio l'idea che il suo sangue, per quanto moderatamente blu, fosse poi così degno di essere perpetuato con una discendenza.
Tutti dicono che mettere al mondo un figlio sia un atto d'amore.
Può anche darsi, ma in certi casi può essere una scelta narcisistica, una volontà di completare se stessi, di rendersi immortali, oppure di prendersi una rivalsa, nella speranza che i figli ottengano ciò che noi non siamo riusciti ad ottenere.
Ma i figli non sono i nostri figli, sono i figli del futuro. Non ci appartengono, vivranno vite che noi non potremmo nemmeno immaginare e assisteranno a cose che noi non vedremo mai neppure in sogno.
Questo lo capì quando nacque la figlia di suo cugino, ma di ciò si parlerà più avanti.
Fino a quel momento era lui il più giovane della famiglia e sapeva quali dolori un figlio poteva dare.
Poteva succedere che un giorno un figlio arrivasse a rimproverare i genitori per averlo messo al mondo, perché, come disse Edipo: "Non nascere è il più grande dei doni".
Questa però è una consapevolezza della tarda età, non della gioventù.
E poiché Riccardo all'epoca era ancora giovane, conservava la speranza di potersi riscattare, di avere successo nel lavoro, di trovare la donna giusta e la felicità a cui tanto anelava.
Forse si aspettava un po' troppo, ma erano ancora gli anni precedenti alla grande crisi finanziaria del 2008 e al drastico cambiamento delle regole del gioco che ne sarebbe scaturito.
Ma quello era il meno.
Riccardo non poteva sapere che i lavori che avrebbe fatto e la donna di cui si sarebbe innamorato, erano destinati ad essere parte integrante di quell'uragano che stava per abbattersi su di lui e sulla sua famiglia.
Eppure era tutto già scritto in quelle nubi sempre più nere e in quei tuoni che, in lontananza, sembravano cantare una lugubre litania, simile a una ballata di Bob Dylan:
<<A hard rain's a gonna fall. Una dura pioggia cadrà>>
domenica 24 dicembre 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 93. Il mondo sa tutto di noi
Il 23 ottobre 1999, Riccardo Monterovere si laureò, magna cum laude, in Economia e Marketing presso quella famosa università di Milano. I festeggiamenti durarono per settimane, fino all'epifania del 2000.
A quel punto arrivò la lettera di coscrizione obbligatoria, che destinava il milite Monterovere, in qualità di obiettore di coscienza, al servizio civile presso un noto sindacato di Forlì, dove avrebbe svolto le mansioni di centralinista, fattorino e facchino.
Ma non era questo il problema, anzi, era un'occasione per ricominciare da zero.
Riccardo era consapevole dei propri errori e delle proprie responsabilità, soprattutto per quel che riguardava tutte le persone che il suo comportamento avrebbe potuto ferire: i suoi familiari, la sua fidanzata, i suoi amici.
Ma c'era anche qualcos'altro di cui tener conto e cioè le aspettative di un'intera comunità riguardo alla sorte di una famiglia di spicco e in particolare del suo ragazzo prodigio, colui che, agli occhi del mondo, avrebbe dovuto tenere in piedi quell'enorme baracca scricchiolante che era diventato il Clan Ricci-Orsini-Monterovere.
Riccardo, in cuor suo, era ormai consapevole di non essere all'altezza di quel compito e di tutto ciò che ci si aspettava da lui. Però non voleva mollare tutto senza aver almeno provato ad essere ciò che gli sembrava che gli altri si aspettassero da lui.
Il problema era come gestire questa fase di transizione.
Tornare a Forlì era diventata un'esperienza surrerale.
Tutto gli sembrava più piccolo, più stretto, quasi angusto.
Una città noiosa, monotona, insignificante, senza identità, senza palpiti, senza mai un momento di vitalità o di calore umano.
O forse era lui che la vedeva così?
Dopo cinque anni vissuti intensamente in una metropoli frenetica e mondana, il ritorno al "natio borgo selvaggio" gli sembra un viaggio indietro nei secoli, in un'epoca dove ancora reggevano tradizioni millenarie, non troppo diverse da quelle dell'antica Forum Livii, dove i contadini celti e i coloni romani commerciavano con i mercanti etruschi, umbri e greci.
Una tradizione millenaria non è necessariamente un male, anzi, se è durata tanto deve aver avuto di certo i suoi lati positivi.
In ogni caso, Forlì era esattamente la stessa di quella dell'infanzia e dell'adolescenza di Riccardo.
E allora, cos'era cambiato, o meglio chi era cambiato?
Ovviamente era lui ad essere cambiato, e non certo in meglio.
Non era dunque Forlì il problema, così come lo specchio non è responsabile della bruttezza di ciò che riflette.
Era lui il problema: l'ex ragazzo prodigio che voleva conquistare il mondo e aveva perduto la sua anima. L'uomo che avrebbe potuto essere grande, ma non lo era diventato.
Quel pensiero lo torturava come un'emicrania.
Non intendeva assolversi, ma nemmeno farsi tormentare dai sensi di colpa, perché alla fine, al di là delle grandi narrazioni e persino delle più complesse teorie filosifiche e scientifiche, Riccardo sapeva che i principi fondamentali dell'universo erano pur sempre l'errore e il caso.
Doveva parlarne con qualcuno che aveva vissuto sulla propria pelle questo tipo di pressione psicologica e ovviamente la prima a raccogliere questa confessione fu sua nonna Diana.
Riccardo cercò di prepararla lentamente alla triste verità, ma lei non apparve affatto meravigliata.
<<Hai solo 24 anni, sei ancora in tempo per rimediare>>
Lui scuoteva la testa:
<<Mi sono bruciato>>.
Diana sorrideva:
<<Tutte le stelle si bruciano. Sono le fiamme a farle risplendere. Ma possono ardere per moltissimo tempo. Che sia un inferno o un paradiso non si sa. Non lo sanno nemmeno loro>>
Riccardo sorrideva a sua volta, ma con amarezza:
<<Una frase molto bella, ma in fondo una bella frase è solo una bella frase, non necessariamente una verità>>
Lei scosse il capo:
<<Non importa che sia vera! Importa che serva per farti stare meglio e a cambiare per il meglio!>>
L'intenzione era buona, ma la confusione tra valore estetico e valore di verità poteva rivelarsi pericolosa.
<<E' quello che pensano anche gli psicoterapeuti e con le menti semplici possono anche riuscirci. Ma i loro trucchi non funzionano con me. Il massimo che possono ottenere gli analisti, quando hanno a che fare con una persona che conosce loro armi, è trasformare i problemi nevrotici in infelicità esistenziale>>
Diana ne sapeva qualcosa:
<<Dovresti trovare qualcuno più intelligente di te. Ma non un analista! Una donna!
Una di cui innamorarti davvero. Una personalità che riesca a tenerti testa, a imbrigliare la tua natura selvaggia, per riportarti sulla retta via>>
Era vero, ma Riccardo non era un mostro e non poteva certo lasciare Barbara soltanto perché i familiari non la consideravano adatta a lui:
<<Io amo Barbara e lei ricambia questo sentimento>>
Diana chiuse gli occhi:
<<Se fosse stato vero amore, non avresti avuto bisogno di prendere tutte quelle pastiglie>>
Era una delle questioni più delicate e occorreva molta prudenza nel trattarla:
<<L'amore vuol dire molto, moltissimo, a volte anche troppo, ma non è sufficiente per stare bene. Non è sufficiente... e tu lo sai!
Il fatto è che vorresti che io sposassi una donna come te, ma non esistono altre donne come te: ci sei solo tu, e basta>>
Lei si mise a ridere:
<<Che sciocchezza! Tu mi hai sempre idealizzata, e non so nemmeno il perché, ma una cosa è certa: anche quando tentavo con tutte le mie forze di essere una brava figlia o una buona moglie, in realtà sapevo benissimo di non esserlo. Ho sempre avuto ben chiari i miei limiti>>
Lui sorrise:
<<Ed è proprio questo che ti rende perfetta. Nel momento in cui si ammettono a se stessi, senza riserve, i propri limiti, allora si è pronti anche per relazionarsi con la propria anima gemella. Quella che ha limiti speculari, limiti che si incastrino bene con i nostri, come due tessere di un puzzle. Se trovassi una ragazza così, forse potrei anche riuscire a stare bene, ma questa è un'illusione.
In ogni caso, quando finirà il servizio civile, non potrò rimanere a Forlì. Qui non mi sento più a mio agio.
Mi sento osservato, giudicato...>>
Diana lo fissò severamente:
<<Sei l'erede di una famiglia importante, e questo comporta degli obblighi, compreso quello di accettare le osservazioni e le critiche con compostezza, come ho fatto io per tutta la vita>>
Riccardo scosse il capo:
<<Io non ho la tua forza! Non mi piace essere l'oggetto di pettegolezzi e chiacchiere. Se si venisse a sapere cos'ho combinato a Milano, diventerei la barzelletta del paese>>
Diana allora alzò l'indice della mano destra e scandì molto bene le parole di quella che sarebbe stata un'importante lezione di vita:
<<Lo verranno a sapere e forse lo sanno già. Credevi di poter barare al gioco senza che gli altri sospettassero qualcosa? O di poter fare il ribelle senza poi pagarne il prezzo?
Delle due l'una: o impari a seguire la retta via, oppure impari ad essere indifferente alle critiche e ai pettegolezzi.
Non esiste una terza via, perché, che ti piaccia o no, noi qui siamo come una famiglia reale:
il mondo sa tutto di noi!
E questa è una cosa che non puoi cambiare>>
venerdì 22 dicembre 2017
Divinità celtiche
Nel "De bello Gallico" Cesare elenca le principali divinità celtiche di cui fa una interpretatio latina, dando a ciascuna di esse il nome della divinità romana o greca con cui a suo giudizio andava identificata. Lucano invece conserverà i nomi esotici, tra questi si devono ricordare Teutates che corrisponde al Mercurio romano che spesso viene placato con sangue umano, Esus dio della guerra, Taranis, dio del cielo e del tuono, rappresentante il Dis-Pater, Lúg che riceve l'epiteto di samildanach ("che possiede tutte le arti") a cui è dedicato un racconto, "La battaglia di Moytura". Il dio Ogmios viene identificato da Luciano di Samosata con l'Eracle greco, anche se era in realtà un vegliardo con i capelli canuti, la pelle rinsecchita e la fronte rugosa che si dice essere stato l'inventore dell'alfabeto irlandese: l'ogam. Un debole legame c'è tra Apollo e Belenus o la divinità Atepomaros che significa "che possiede tanti cavalli", definito altrove come Maponos ("il giovane ragazzo") figlio di Dagda "il dio buono" e la dea Boann ("colei che concede vacche ai suoi devoti").
Il dio della medicina è invece Dian Cecht, che prepara una mirabile protesi d'argento per Nuadu Airgetlam a cui in combattimento era stata mozzata una mano. I morti invece si recano dal dio irlandese Donn "lo Scuro", una divinità minore che abita nel Tech Duinn presso le coste irlandesi. Tra le divinità femminili vanno ricordate Brigit che spesso viene associata a Minerva (vedi immagine sotto),
Epona dea dei cavalli da associare alla romana Demetra e Sirona dea delle acquee dolci e della bianca luce lunare. Esistono anche due dei silvestri Sucellus e Nantose soprattutto il dio Cernunnos ("cornuto"), che ha le corna di cervo e Morrigan, dea della guerra.
Epona dea dei cavalli da associare alla romana Demetra e Sirona dea delle acquee dolci e della bianca luce lunare. Esistono anche due dei silvestri Sucellus e Nantose soprattutto il dio Cernunnos ("cornuto"), che ha le corna di cervo e Morrigan, dea della guerra.
Il culto delle Matronae
Le celtiche Matronae sono l'incarnazione della maternità. Nelle figurazioni non compaiono mai sole, ma sempre in gruppo e formano quasi sempre una triade.
Esse rappresentano un complesso insieme di forze positive ornate di spighe e frutti a simbolo di una perenne fruttuosità. Non appartengono al pantheon ufficiale, ma rappresentano precise realtà locali o sociali, il loro culto è legato ad un'idea di fiducia gratuita. Prima di esistere nella religione celtica, appartenevano già ai culti indoeuropei.
Tradizioni gallesi
Due famose collezioni del XIV secolo, il "Libro bianco di Rhydderch" e il "Libro rosso di Hergest" contengono alcune tradizioni gallesi come quella della raccolta detta Mabinogi. Altri racconti gallesi contengono tradizioni che gli studiosi definiscono come sciamaniche, il cui protagonista è Cei che si trasformerà nel lugubre Key del ciclo arturiano. Infine il modello gallese di Merlino è il poeta bardo Taliesin che si vanta di possedere tutte le arti magiche dell'Europa e dell'Asia.
Ma anche altri personaggi come Math, Gwydion, figlio di Don (la dea Dana), Llwyd, ecc. sono capaci di imprese
favolose.
Ma anche altri personaggi come Math, Gwydion, figlio di Don (la dea Dana), Llwyd, ecc. sono capaci di imprese
favolose.
Tradizioni irlandesi
Queste tradizioni ci raccontano la storia mitica dell'isola dopo il diluvio. I primi immigrati subiscono continuamente gli attacchi dei Fomori, esseri crudeli arrivati da oltremare. Una nuova ondata di immigrati porta le leggi e la società civile. Sono seguiti dai Túatha Dé Danann, le tribù della dea Dana, iniziati al sapere magico. Essi sono guidati dal Dio Lugh in persona nella grande battaglia di Magh Tuiredh contro la razza dei Fomoriani che vinta verrà per sempre bandita dall'Irlanda. Dopo la battaglia arriveranno i primi Celti provenienti dal continente. Le relazioni fra i Celti e i Tuatha restano tese, come dimostrano le diverse battaglie che combattono gli uni contro gli altri.
Finalmente i Tuatha si ritirano nell' Annwn e cedono lo spazio visibile ai Celti.
Finalmente i Tuatha si ritirano nell' Annwn e cedono lo spazio visibile ai Celti.
Il ciclo eroico
Questo ciclo è detto di Ulster e ha come protagonista l'eroe Cù Chulainn, che risiede alla corte del re Conchobar, a Ulster. La regina Medhbh di Connacht invia un'armata per impadronirsi del toro bruno di Cuailnge e la gente di Ulster, per effetto di un sortilegio, non è capace di opporle resistenza. Ma Cù Chulainn lotterà da solo contro l'armata degli avversari e un combattimento feroce tra il toro bruno di Cuailnge e il toro di Connacht metterà fine all'epopea. La carriera del semi-dio Cù Chulainn sarà breve, perché i suoi avversari lo uccideranno attraverso i loro poteri magici. Tra gli eroi mitici non si può scordare anche Fionn mac Cumhail, capo dei Feniani, una confraternita di guerrieri iniziati. Fionn possiede poteri magici che utilizza per eliminare le forze sovrannaturali che minacciano il suo paese.
Le feste celtiche
Il calendario celtico si basava su un computo complesso, regolato sia dal ciclo solare che da quello lunare. Il ciclo solare scandiva l'anno in due fasi, segnate dalla festa di Samhain (pronuncia: Sa'win) e di Beltane; queste due fasi principali erano ulteriormente divise in due parti uguali, segnate dalle festività minori di Lughnasadh (pronuncia: Lùnnasad) ed Imbolc (pronuncia: Ìmmolc). Nella festa di Samhain, il trentuno ottobre, ha inizio la parte oscura dell'anno. In tale occasione le porte degli inferi si aprivano e gli spiriti dei morti tornavano a vagare nel mondo terreno. Il 1º maggio incominciava invece la parte luminosa dell'anno, con la festa di Beltane che significava "fuoco di Bel" dedicata probabilmente a Belenus. Il primo agosto era la volta della festa di Lughnasadh in cui si festeggiava la mietitura e il nuovo raccolto, celebrando la fertilità della terra, dedicato al dio Lúg. Il 1º febbraio si celebrava invece la festa di Imbolc (letteralmente"latte di pecora") che era una festa di purificazione e rinascita, in cui si celebrava la Dea Madre e si festeggiava la nascita degli agnelli. Durante la celebrazione il latte veniva versato copiosamente sulla terra a simboleggiare la fertilità. Accanto a queste che erano le date più importanti del calendario solare, c'erano delle date variabili legate al calendario lunare.
Bibliografia
- Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini, La saga irlandese di Cu Chulainn, Mondadori, Milano 1982.
- Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini, Saghe e racconti dell'antica Irlanda, Mondadori, Milano 1993.
- Giordano Berti, Il sogno di Oengus, Lo Scarabeo, Torino, 1991 (illustrazioni di Milo Manara).
- Giordano Berti, Miti dei Celti d'Irlanda, Lo Scarabeo, Torino, 1994 (illustrazioni di Giacinto Gaudenzi).
- Melita Cataldi, Antiche storie e fiabe irlandesi, Torino 1985.
- Giovanni Giusti, Antiche liriche irlandesi, Salerno Editrice, Roma 1991.
- Augusta Gregory, Dei e guerrieri d'Irlanda, Studio Tesi, Milano 1991.
- Françoise Le Roux e Christian-J. Guyonvarc'h, I Druidi, ECIG, Genova, 1990; nuova ediz. 2000.
- Thomas W. Rolleston, I miti celti, Longanesi, Milano 1994.
Voci correlate
giovedì 21 dicembre 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 92. La pecora nera della famiglia: vita mondana e dissoluta di Riccardo a Milano
Negli anni milanesi Riccardo aveva perduto l'innocenza ed aveva condotto, pur salvando le apparenze nei confronti della famiglia, una vita mondana godereccia, dissipata e incredibilmente spericolata, che lo aveva trasformato in una persona diversa, tanto che nei rari momenti di lucidità faceva fatica a riconoscersi.
C'era stato un momento particolare, alla fine del primo anno, un momento in cui era ancora innocente, un momento in cui però aveva già perduto qualcosa, qualcosa che amava e che potremmo chiamare "la retta via".
Com'era potuto accadere?
Innanzi tutto, neanche un esame del primo anno gli era piaciuto.
Quelli di diritto e di contabilità lo avevano annoiato a morte.
Quelli di economia aziendale erano aria fritta.
Quelli di economia politica erano modelli matematici totalmente campati in aria, privi di qualunque valore scientifico.
Ma il peggio l'aveva toccato con l'esame di statistica, dove alla fine aveva accettato un 24 al terzo tentativo.
In quei giorni il suo umore era sprofondato nella depressione più nera.
Ma piuttosto che ammettere di aver sbagliato la scelta universitaria, cosa che avrebbe fatto gongolare tutti i suoi detrattori e disperare i suoi sostenitori, decise di far finta che andasse tutto bene.
Tutto questo stupido orgoglio, però, aveva un prezzo.
Riccardo si era accorto che tra i suoi coinquilini del quinto piano del famigerato studentato San Mansueto, circolava quella che con un nobilitante eufemismo veniva definita: la pozione magica.
Si chiamava Deadyn (già il nome non prometteva bene) ed era un farmaco stimolante, simile alle anfetamine, ma meno dannoso e pertanto, all'epoca, ancora reperibile in farmacia su ricetta di qualche medico compiacente che non stesse troppo a sottilizzare.
Riccardo, che non aveva alcun vizio (non fumava, beveva poco alcool e teneva moltissimo ad avere un fisico atletico), decise di andare dal medico compiacente, di cui è meglio tacere il nome, per farsi visitare e consigliare. Il Dottore gli diagnosticò un affaticamento da stress e gli prescrisse il Deadyn così come aveva fatto con tutti gli altri studenti del quinto piano del San Mansueto.
All'inizio Riccardo era scettico e in preda a scrupoli morali, ma poi decise di provare e gli si aprì un continente inesplorato.
Bastava quella piccola pastiglia per far sparire come d'incanto tutta la stanchezza, la noia, l'ansia, la tristezza: ci si sentiva pieni di energie, carichi, senza fame, senza sonno, e si riuscivano a fare mille cose.
Una volta entrato nel Club, come in gergo si chiamava il giro dei consumatori di Deadyn (in pratica tutti i più ambiziosi, danarosi e spregiudicati studenti del San Mansueto), Riccardo incominciò a fare anche vita notturna, insieme al solito gruppetto di esaltati, tra pub, discoteche, in particolare quella frequentata dai bocconiani, il famigerato Parco delle Rose di Piazzale Corvetto.
Fu lì che, sotto l'effetto congiunto del Deadyn e della Vodka alla pesca, perse ogni freno inibitore e corteggiò spudoratamente quella bambola ereditiera sexy di nome Barbara, detta Barbie (non a caso), che nel giro di pochi mesi divenne, nell'incredulità di tutti, la sua fidanzata ufficiale.
Tutto sembrava andare a meraviglia.
Macinava esami uno dietro l'altro, trovava il tempo per fare tutto, anche andare in palestra, in piscina e accompagnare Barbie a fare shopping in Via Monte Napoleone, dove poteva capitare di incontrare in boutique Miuccia Prada in persona, oppure le grandi top model, tipo Kate Moss o Gisele Bundchen, mentre adesso ci si deve accontentare della Ferragni e delle sue emulatrici.
Poteva persino capitare che, in una torrida giornata di luglio del 1997, Barbie fosse riuscita a procurarsi un esclusivissimo invito per partecipare ai funerali di Gianni Versace, a solo due panche di distanza da lady Diana Spencer, Principessa di Galles, ignara del fatto che un mese dopo avrebbe seguito il suo stilista preferito nella tomba.
La giornata media milanese di Riccardo e Barbie terminava poi con il sesso sfrenato (il Deadyn potenziava anche la libido), a cui faceva seguito, però, il cosiddetto "rebound", ossia il rimbalzo dell'umore, che, unito alla fisiologica disforia postcoitale (post coitum omne animal triste, dicevano saggiamente i Latini), sfociava in agghiancianti minuti di amara consapevolezza della propria condizione di sostanziale tossicodipendente.
Si può mentire alla propria coscienza, ma non al proprio inconscio, e per questo Riccardo era perseguitato da incubi catastrofici, nei quali il mondo intero lo accusava di avere barato.
Fu così che perse la fiducia in se stesso e anche la propria innocenza.
Il resto fu una specie di film che oscillava tra la commedia brillante in stile "Sex and the City" e l'horror demenziale del tipo "American horror story".
Ma nessuna pacchia può durare in eterno.
Prima o poi, nella vita, chiunque viene chiamato a pagare il conto delle proprie scelte.
La tegola cadde improvvisamente nel 1999.
Riccardo era impegnato nella tesi di laurea, quando la Commissione Unica del Farmaco mise il Deadyn fuori commercio per danni epatici.
A quel punto procurarsi il farmaco, ormai parificato a una droga sintetica, diventava molto più difficile, costoso e rischioso, per non parlare poi delle preoccupazioni relative agli effetti collaterali.
Riccardo decise di farsi le analisi del sangue e scoprì di avere le transaminasi epatiche a livello di allarme. Ritornò dal famoso medico compiacente, il quale ammise che si era scoperto poco tempo prima che un uso continuativo del Deadyn poteva portare ad un'epatite tossica.
Per Riccardo fu una doccia gelida.
<<E adesso come faccio? Ci sarà pure qualcosa che mi permetta di gestire la crisi di astinenza?>>
Il medico, che era un neurologo, gli prescrisse degli epatoprotettori per il fegato e degli antidepressivi uniti a benzodiazepine per gestire la crisi di astinenza. Nel dire questo non sembrava affatto preoccupato, o almeno non lo dava a vedere:
<<Stia tranquillo, signor Monterovere. Vedrà che la situazione si risolverà presto>>
<<Non credo proprio, dottore, perché i farmaci possono mitigare i sintomi, ma non possono risolvere i problemi>>
Il medico allargò le braccia:
<<Non abbia paura. Lei non è in pericolo di vita, e questa è l'unica cosa che conta, dal punto di vista medico>>
Riccardo scosse il capo:
<<Ma non capisce? Non è la morte che mi spaventa! E' la vita! Ho uno stile di vita che non è più sostenibile, ma non voglio rinunciarci. Il solo pensiero di ritornare al grigiore di prima mi terrorizza>>
<<Mi dispiace, ma questo non è il mio campo. Posso segnalarle qualche bravo terapeuta, ma io, come neurologo, posso solo "costringerla a vivere">>
Riccardo allora scoprì una verità, su se stesso, che fino ad allora non aveva voluto ammettere:
<<Mi fa più paura chi mi costringe a vivere di chi mi costringe a morire>>
Differenza tra temperamento, carattere e personalità
In psicologia e psichiatria il termine temperamento (etimologicamente derivante dal latino temperare, cioè "mescolare") viene usato per indicare la mescolanza degli aspetti innati della personalità.
Nella psicopatologia moderna il termine è stato ripreso nell'accezione di componente innata e quasi somatica della personalità da Kretschmer nel 1923. Questa formulazione ha fornito la base definitoria per i contemporanei teorici e clinici della personalità, in particolare Kernberg e Cloninger.
Definizione secondo la psicoanalisi
Nella teoria psicoanalitica, secondo l'ultima formulazione di Otto Kernberg (1994), la personalità normale si considera formata da due componenti fondamentali: il temperamento e il carattere. Per temperamento si intende l'insieme delle tendenze innate, cioè determinate geneticamente, dell'individuo a reagire agli stimoli ambientali con determinate modalità anziché altre. Queste modalità secondo Kernberg sarebbero l'intensità, la frequenza e la soglia delle risposte affettive. Ciò significherebbe che per ogni individuo vi sono delle soglie tipiche di attivazione delle emozioni positive e dei sentimenti di piacere, come pure di quelle dolorose e delle risposte aggressive conseguenti a queste. È il funzionamento di questo meccanismo che a quanto pare sarebbe innato. Il bilanciamento dei fattori potrebbe essere proprio di ciascun individuo, dipenderebbe perciò direttamente da meccanismi intrinsecamente biologici.
Principali usi del termine
Le osservazioni di molti autori di diverse scuole di psichiatria e psicologia hanno usato il termine in funzione descrittiva secondo diverse categorie. “Temperamento” in genere viene utilizzato con riferimento ai tre ambiti di significato seguenti:
- Insieme di tendenze dell'organizzazione cognitiva. Ciascun individuo ha un proprio “stile cognitivo”, cioè un modo originale e proprio di organizzare pensieri, concetti ed esperienze emotive, che in parte è tale dalla nascita, e talvolta viene considerato parte del temperamento. (Attenzione: L'organizzazione cognitiva non è da confondere con l'organizzazione di personalità, che nella terminologia di Kernberg indica invece sempre caratteristiche non innate).
- L'insieme di tendenze, comportamenti e ritmi della persona considerati anche in relazione con il comportamento motorio. Alcuni autori hanno osservato analogie tra lo “stile” del movimento corporeo o delle funzioni corporee e lo “stile” cognitivo o emotivo degli individui (ad esempio Alexander Lowen)
- In riferimento all’identità di genere. Questo è il terzo elemento generalmente riconosciuto come facente parte del temperamento innato. L'identità di genere è quel sistema di risposte a stimoli che normalmente definisce le differenze di istinto sessuale tra gli individui, più frequentemente indica la differenza di comportamento tra maschi e femmine. L'identità di genere è una dimensione psicologica che oggi viene considerata separatamente dal sesso biologico. Tuttavia, non si deve confondere l'identità di genere con i comportamenti effettivi della sfera sessuale: non sempre, secondo gli autori, l'identità determinata dal temperamento coincide con le preferenze espresse dall'individuo né con i comportamenti sessuali reali. È noto che anche i contesti e condizioni culturali hanno un ruolo nell'identità sessuale "finale" che appare nell'individuo, e vi sono casi di disturbi della personalità che possono interferire con gli orientamenti sessuali (si osservano casi di preferenze apparentemente divergenti dall'identità di genere (Kernberg descrive casi di omosessualità “fasulla” in persone affette da disturbi gravi). Le differenze di livelli ormonali, in particolare il testosterone, sono correlate in qualche modo sia al comportamento sessuale sia all'identità di genere (Kernberg 1994), ma su quest'ultima non hanno il potere di modificarla.
Temperamento e disturbi mentali
Lo studio del temperamento nell'ambito della psichiatria è stato condotto nell'ambito di ricerche sulla eziologia dei disturbi di personalità. In pratica, le ricerche erano per cercare di capire se ci sono fattori genetici ereditari all'origine dei disturbi. Queste ricerche, se non hanno dato risultati chiari in tal senso, hanno portato alla definizione di ulteriori aspetti della personalità che sono stati “misurati” e considerati parte del temperamento. Una ricerca di Cloninger (1993) indica gli aspetti: “ricerca della novità”, “evitamento del danno”, “dipendenza dalla ricompensa”, "persistenza". Gli autori hanno posto in collegamento aspetti del temperamento con la maggiore o minore predisposizione a di certi tipi di patologia. Nel modello di Cloninger le disposizioni temperamentali innate interagiscono con l'ambiente per determinare il carattere, secondo tre dimensioni, "auto-direzionalità", "cooperatività" e "auto-trascendenza". In particolar modo la prima di queste tre dimensioni sembra essere negativamente correlata con la presenza di disturbi di personalità.
Studi condotti su gemelli separati, però, fanno pensare che non esiste una correlazione fra il temperamento e disturbi specifici. Esiste una correlazione solo generica nell'occorrenza di disturbi tra consanguinei di persone affette da patologia mentale, ma non c'è un collegamento con specifiche patologie. L'unico disturbo di Asse II con una qualche incidenza familiare sembra essere il disturbo schizotipico di personalità (Torgersen 1985, 1994). Kernberg (1996) conclude che «i fattori temperamentali genetici determinano solo le caratteristiche di temperamento delle personalità normali», secondo questa opinione autorevole perciò i quadri sintomatici - cioè i diversi tipi di disturbi mentali - in linea di massima non dipendono dal temperamento dell'individuo cioè sarebbero in qualche modo acquisiti nelle esperienze di vita.
Il carattere
Il termine carattere[1] è utilizzato in ambito psicologico per descrivere le motivazioni del comportamento e i tratti di personalità che rendono ogni persona un preciso individuo diverso da un altro[2].
Quindi con il termine "carattere" si intende quel
« complesso unitario e organizzato di forme di vita psichica, che dà un'impronta particolare al comportamento dell'individuo. Come tale il carattere è una struttura risultante da una costante interazione tra individuo e ambiente, ed è l'agente responsabile del fatto che la vita di un uomo ci appare naturalmente un'unità psicologica e non una mera sequenza di fatti » |
(Fabio Metelli. Introduzione alla caratterologia moderna. Padova, Editrice Libraria Siciliana, 1951, pag. 11) |
ovvero quella
« configurazione relativamente permanente di un individuo a cui ricondurre gli aspetti abituali e tipici del suo comportamento che appaiono tra loro integrati sia nel senso intrapsichico che in quello interpersonale » |
(Umberto Galimberti. Carattere, in Psicologia. Milano, Garzanti, 1999, pag. 170) |
A questo termine, tuttavia, molti psicologi, soprattutto statunitensi, hanno preferito quello di personalità in quanto ciò eviterebbe valutazioni di ordine morale[4].
Infatti
« Nella storia della psicologia il termine "carattere" [...] è stato preceduto dai termini temperamento e costituzione, dove sottesa era l'ipotesi di una dipendenza fisiologica dell'indole dai tratti somato-costituzionali. [...] Oggi al termine carattere si preferisce il termine personalità di volta in volta definito in base ai criteri adottati e perciò descrivibile in modo oggettivo » |
(Umberto Galimberti. Op.cit., pag.170) |
Ma Enrico Cattonaro rileva comunque un differente contesto di significato tra il termine "carattere" e quello di "personalità:
« Abitualmente con il termine personalità ci si riferisce all'intera organizzazione mentale dell'essere umano in ciascuno stadio del suo sviluppo, mentre con il termine carattere si sottolinea piuttosto l'aspetto oggettivo della personalità, il suo manifestarsi concreto attraverso un tipico comportamento, un costante modo di reagire di fronte all'ambiente, per cui acquista rilievo particolare il lato affettivo e volitivo della personalità stessa. » |
(Enrico Cattonaro. Enciclopedia filosofica vol.3. Milano, Bompiani, 2006, pag. 1636) |
Storia e significati del termine "carattere" in ambito psicologico
La nozione di "carattere" origina prevalentemente dagli studi di psicologi europei, in particolar modo tedeschi, che seguirono il corso delle scienze umane fondate nel XIX secolo sull'opera di autori come Wilhelm Dilthey (1833-1911).
Tenendo presente che, come ricorda Umberto Galimberti,
« Il limite che separa il carattere dalla personalità dipende dalla convenzione scientifica e non riposa su un criterio oggettivo, come risulta anche dal fatto che grandi aree psicologiche e psicopatologiche usano i termini "carattere", "personalità" e, talvolta, "tipo psicologico", come intercambiabili. » |
(Umberto Galimberti. Op.cit., pag. 170) |
Una delle prime nozioni del termine la si riscontra nell'opera Zur Psychologie des Gestalterfassen (Die Müller-Lyersche Figur) (1905) dello psicologo italiano Vittorio Benussi (1878-1927). Tale nozione occorreva a distinguere dei differenti "caratteri" indicati come "globali", "misti" e "analitici". Tale classificazione, poi sviluppatasi grazie ai contributi di autori come Walter Ehrenstein (1899−1961)[5] o B. J. Cymbalistyj[6], identificava nei "globali" coloro che tendevano alla sintesi, a preferire le parti strutturali di una immagine, alle vedute ampie, all'approccio teorico, questi individui "globali" risultavano più facili a subire le illusioni percettive; negli "analitici" coloro che tendevano alla divisione, alla frammentazione del "tutto", a preferire i particolari, costoro erano meno propensi a subire le illusioni percettive; un terzo tipo, detto "misto", corrispondeva invece ad un quadro intermedio rispetto ai due precedenti.
Ludwig Klages (1872-1956), in Prinzipien der Charakterologie (1910, nel 1926 come Die Grundlagen der Charakterkunde) utilizzò il termine per differenziare i "caratteri" guidati dagli "istinti" da quelli governati dagli "interessi" ovvero, in quest'ultimo caso, da coloro che possedevano un "Io" più evoluto.
Carl Gustav Jung (1875-1961), in Contribution à l'études des types psycholgiques (1913) e in Psychologischen Typen (1921, in italiano Tipi psicologici), classificò alcuni tipi di carattere, classificazione poi ripresa e sistematizzata dallo psicologo anglo-tedesco Hans Jürgen Eysenck (1916-1997) in The Scientific Study of the Personality (1946) e in The Structure of Human Personality (1970). Da questi studi risulterebbero tre tipi di "carattere":
- soggetti con carattere "estroverso", dove le preferenze vanno per il mondo esterno, il gruppo sociale, il partner attuale o potenziale, l'impegno politico e l'affermazione personale immediata, le preferenze vanno per i colori caldi e per il colore rispetto alla forma;
- soggetti con carattere "introverso", dove si predilige il mondo interiore, quello dei simboli, delle impressioni personali, delle immaginazioni fantastiche, cautela nei rapporti sociali dove risultano alcune inibizioni, l'affermazione personale è ricercata sulla lunga scadenza, le preferenze vanno sulle tonalità fredde e per la forma rispetto al colore;
- soggetti col carattere "ambiverso" dove sono presenti caratteristiche opposte o intermedie rispetto ai due precedenti.
Frédéric Paulhan (1856-1931), in Les caractères (1914), identifica il "carattere" di una persona in base a ciò che fa di questo una persona e non un'altra, quindi la sua particolare natura mentale.
Eduard Spranger (1882-1963), in Lebensformen (1921) ritenne di individuare alcuni "caratteri" denominati come "estetico", "sociale", "politico", "economico" e "religioso" che risulterebbero a fondamento delle differenze individuali. Dalla classificazione di Sprangler originò, negli anni a cavallo del II Conflitto mondiale, il reattivo di Gordon Willard Allport Scala dei valori (Values scales).
Ernst Kretschmer (1888-1964), in Körperbau und Charakter (1924), tenendo conto della costituzione corporea distinse il carattere "ciclotimico", caratterizzato dalla socievolezza, dalla euforia o dalla depressione, e correlato alla costituzione picnica; il carattere "schizotimico", rigido nei rapporti interpersonali, con tendenze autistiche e correlato alla costituzione leptosomica; a cui, in un'opera successiva[7] aggiunse il carattere "atletico", contraddistinto da calma emotiva alternata ad esplosioni emotive e da tenacia, e correlato alla costituzione atletica.
Philipp Lersch (1898-1972), in Der Aufbau des Charakters (1938), descrive il "carattere" come l'insieme dinamico delle sue disposizioni persistenti che ne costituiscono l'impronta individuale.
Albert Burloud (1888-1954), in Le Caractère (1942), intende il "carattere" l'aspetto dell'individuo che ne "singolarizza" la personalità.
René Le Senne (1882-1954), in Traité de caractérologie (1945), differenziò invece i lemmi di "carattere" e "personalità", indicando come "carattere" l'insieme delle disposizioni congenite radicate in un individuo, mentre "personalità" rappresenterebbe il "carattere" unito ai particolari automatismi acquisiti nel corso della sua vita.
Emmanuel Mounier (1905-1950), in Traité du caractère (1946),
Heinz Remplein (1914-), in Psychologie der Persönlichkeit (1954) rifacendosi all'opera di Klages, individuò un carattere "forte" con un forte senso di Sé e una permanente convinzione nelle proprie opinioni e un carattere "debole" con un Sé inadeguato e labile nelle proprie convinzioni.
Solomon Eliot Asch (1907-1996) in Studies of indipendence and submission to group pressure: I. A minority of one against an unanimous majority (1956) individuò due tipi di "carattere", quello "influenzabile" dalle opinioni o pressioni degli altri e quello "indipendente" che utilizza differenti strategie per essere indipendente dalle pressioni di una maggioranza, di un leader o di un partner, quest'ultimo "carattere" conserva una maggiore fiducia in sé stesso.
Karl Jaspers (1883-1969)
Ludwig Binswanger (1881-1966)
Sigmund Freud (1856–1939)
Karl Abraham (1877-1925)
Melanie Klein (1882-1960)
Personalità
Con il termine personalità si intende l'insieme delle caratteristiche psichiche e delle modalità comportamentali (inclinazioni, interessi, passioni) che definiscono il nucleo delle differenze individuali, nella molteplicità dei contesti in cui la condotta umana si sviluppa.
Ogni nucleo teorico, in psicologia, concettualizza la personalità entro modelli diversi, adoperando metodi, obiettivi e modalità d'analisi anche molto dissonanti fra loro.
Il più antico precursore dello studio della personalità fu Ippocrate che, in un'ottica di considerazione dell'uomo con lo stesso grado di differenziazione di un microcosmo, definì quattro tipi personali, in base all'umore di base presente nel suo corpo: melanconico, collerico, flemmatico, sanguigno.
Il termine latino personalitāte(m) deriva dal greco πρόσωπον e dall'etrusco phersu. Cicerone la definì come l'aspetto e la dignità di un essere umano, oppure, in un'altra definizione, quella parte che si recita nella vita, e non a caso "persona" rappresentava la maschera indossata dagli attori.[1]
Il teatro antico giapponese (nō) contemplava un certo numero di maschere, aventi caratteristiche corrispondenti al concetto di personalità contemporaneo, simboleggianti il passaggio da una fase di vita ad un'altra più matura.
Alla soglia del XX secolo si affermò la convinzione che la personalità del soggetto si rispecchi nel modo in cui la realtà gli appare e nelle idee che esprime. Questo modello, che in Kurt Lewin[2] e Kurt Koffka ebbe i suoi migliori esponenti, venne definito "fenomenologico", seppur discordante in molti aspetti dalla corrente filosofica di Husserl.
In quegli anni si diffusero le tecniche di indagine e di diagnosi della personalità che esplorarono tre vie di accesso alla personalità: [3]
- L'osservazione esterna, costituita dall'insieme degli elementi biografici, fisiologici, anatomici, oltre alla motricità e ai test di efficienza.
- L'autointerpretazione, che utilizza i questionari.
- L'analisi fenomenologica (analisi dei sogni, visioni del mondo).
Lo psicologo anglo-tedesco Hans Eysenck (1916-1997), studioso della struttura della personalità, nella sua opera "The structure of Human Personality" afferma che:
« La personalità è la più o meno stabile e durevole organizzazione del carattere, del temperamento, dell'intelletto e del fisico di una persona: organizzazione che determina il suo adattamento totale all'ambiente. » |
(Hans Eysenck "The structure of Human Personality"[4]) |
Lo sviluppo della personalità
La personalità è un concetto tipicamente dinamico nell'arco di vita di una persona e gli esseri umani affrontano, durante tutto l'arco della loro vita, alcuni nodi cruciali di passaggio necessari per evolvere una maturazione psicofisica adeguata al contesto sociale. Le varie fasi possono essere distinte come segue:[5]
- La prima infanzia, dai 0 ai 3 anni, in cui il bambino deve ricevere le cure materne necessarie, per evitare l'insorgere di insicurezze e di ansie.
- Lo svezzamento, che comporta le prime privazioni, e il superamento della dipendenza.
- L'indipendenza, che consente al bambino di allargare il suo mondo e di acquisire quelle capacità di base per far da sé.
- La fase del no, nella quale il bambino prova il piacere di opporsi ai genitori.
- I conflitti con i genitori dello stesso sesso.
- La prima socializzazione, che avviene grazie all'ingresso nella scuola. Qui il bambino riceve il giudizio di soggetti esterni alla famiglia e quindi rafforza l'immagine di sé.
- La pubertà, con il crescente interesse nei confronti dei genitali.
- L'adolescenza, che comporta una forte opposizione al mondo degli adulti, oltre all'insorgere di varie contraddizioni interne e all'insoddisfazione dei valori tradizionali.
- La formazione dell'identità maturando l'indipendenza di pensiero con l'acquisizione, in una prima fase, di valori conformisti nei confronti del gruppo di appartenenza, ma trasgressivi nei riguardi dei valori sociali e, in una successiva, di accettazione delle figure simbolo della società (insegnante, genitore, ecc.).
- La vita adulta, in cui il soggetto cerca di realizzare il suo progetto di vita (lavoro, famiglia ecc.), definendo il più possibile la sua identità, distaccandosi dal nucleo familiare originario e rendendosi il più possibile socialmente indipendente.
- L'anzianità, che comporta importanti cambiamenti nelle attitudini, nello stile di vita e nell'evoluzione psicofisica.
Alcuni passaggi nello sviluppo della personalità
Durante i primi anni di vita il bambino si identifica con i suoi simili (Sé Presimbolico). Comincia a comprendere l'alterità, ad esempio rispetto alla madre quando non riceve immediatamente il seno alla sua richiesta di essere nutrito. La coscienza di sé cresce al crescere del confronto con l'alterità (gli "altri" significativi), oltre a rappresentare il proprio corpo, includendo le potenzialità d'azione nei confronti del mondo. Il Sé spirituale prescinde invece dal corpo, essendo formato da tutto ciò che va oltre esso, ad esempio l'appartenenza ad un gruppo.
A 2 anni il bambino comincia a parlare di sé ("io","me","mio"), a 4-5 al centro delle sue riflessioni vi sono i concetti di cattiveria/bontà, riconducibili al concetto biologico di avvicinamento/allontanamento da un pericolo.
Questi concetti permettono di sviluppare l'autostima. Visioni particolarmente negative di sé stessi possono condurre ad una depressione già a 3-5 anni.
A 3 anni il bambino conosce il nome di alcune emozioni, a 4 riesce ad associarle alle situazioni.
Si sviluppano due tipologie di emozioni: le emozioni esposte (imbarazzo, invidia, gelosia, empatia) e le emozioni auto-coscienti (vergogna, senso di colpa) che hanno una funzione maggiormente regolatrice del comportamento. La vergogna è una sensazione pervasiva dell'intero essere che spinge a nascondere un proprio errore, mentre il senso di colpa può avere funzioni positive o negative:
- il senso di colpa predisposizionale: si presenta solo in alcune situazioni, in presenza di un errore riparabile e si correla positivamente con l'empatia, la spinta al volontariato, l'antirazzismo, ecc. Può essere incentivato da uno stile educativo basato sull'attenzione verso le emozioni altrui e le proprie responsabilità;
- il senso di colpa cronico: è uno stato mentale stabile dovuto ad errori ritenuti irreparabili (ad es. la morte di una persona cara) o scaturito da uno stile educativo che tende sistematicamente a far sentire in colpa il soggetto. Il senso di colpa cronico si correla positivamente con aggressività e depressione.
Lo sviluppo del senso morale e dell'empatia può altresì essere facilitato da caratteristiche biologiche e dalle influenze del contesto familiare.
In parallelo la deresponsabilizzazione ha diversi modi di agire:
- svalutazione della gravità della colpa;
- confronto con colpe peggiori;
- uso di eufemismi;
- diffusione della responsabilità ("Stavo solo eseguendo gli ordini");
- suddivisione del lavoro in parti in modo da ridurre responsabilità individuale;
- disumanizzazione della vittima;
- trasferimento della colpa sulla vittima;
A 2 anni i bambini cominciano a rispettare regole, comincia quindi a presentarsi il rifiuto semplice che avvia una dinamica di opposizione e negoziazione con il genitore. L'obbedienza al genitore è la preparazione ad un comportamento morale senza bisogno di supervisioni.
A 4-5 anni la personalità del bambino è prettamente egoistica. A 6-7 comincia a sviluppare un senso morale unidirezionale e rigido ad esempio incentrato sull'egualitarismo. A 9 anni le sue posizioni divengono meno rigide e seguono principi di equità.
Psicologia delle personalità
Assunti base
Un elemento che caratterizza in maniera trasversale tutti i modelli di studio della personalità (e che ne rappresenta un elemento cardine nei suoi aspetti più recenti) è la tensione verso l'interazione tra fattori costituzionali innati, fattori educativi ed ambientali. La tradizione di studi psicologici relativi alla personalità è una delle più rilevanti della psicologia contemporanea, un campo in cui si susseguono studi empirici, teorici e storici, tesi a comprendere la natura dell'identità personale nel contesto biologico e sociale di sviluppo. [6] [7] [8] [9] [10] Una significativa parte della psicologia delle differenze individuali, analizza e valuta la personalità attraverso test volti ad individuarne i tratti (vedi test di personalità).
È possibile definire i tratti di personalità come configurazioni dell'esistenza, ma in realtà non esiste un'unica teoria dei tratti. Differenti sostenitori dell'approccio basato sui tratti, adottano strategie concettuali differenti nel definire la relazione tra persona ed ambiente. Gli assunti di base degli orientamenti teorici, che incentrano lo studio della personalità sui tratti personali, sono descritti con molta chiarezza da Lewis Goldberg[11], uno dei principali studiosi delle teorie dei tratti:
- Le persone mostrano configurazioni di esperienza e di azione consistenti e stabili che le distinguono l'una dall'altra. Si ipotizza in questo senso l'esistenza di costrutti psicologici corrispondenti a tendenze comportamentali abituali. Tali costrutti possono essere definiti come variabili di tratto, o variabili disposizionali.
- Le variabili di tratto sono decontestualizzate, sono cioè definite come tendenze globali atte a mostrare un tipo di comportamento piuttosto che un altro. I tratti, quindi, si riferiscono direttamente ad elementi comportamentali mostrati dalle persone in diverse situazioni. In questa caratteristica differiscono significativamente dalla motivazione, per definizione legata ad una meta. È chiaro che tratti differenti abbiano una diversa rilevanza nei vari contesti. Tuttavia l'approccio basato sui tratti sceglie di studiare la personalità attraverso unità di analisi di tipo dominio-generali.
- Diversi nuclei teorici evidenziano approcci operativi riconducibili a due linee guida: approcci di tipo idiografico ed approcci di tipo nomotetico. Le strategie idiografiche postulano che ogni persona possa possedere un insieme unico di tratti, organizzati in maniera singolare e specifica. Diversamente gli approcci nomotetici ricercano invece una tassonomia universale di tratti.
Entro i modelli di tipo nomotetico (per esempio il 16PF Questionnaire di Raymond Cattell, oppure la teoria dei Big Five di McCrae e Costa) la struttura della personalità risulta essere costituita da tendenze comportamentali organizzate gerarchicamente con tratti ampi e sovraordinati. Questi costrutti sovraordinati organizzano le tendenze che si collocano ad un livello più basso, le quali, a loro volta, controllano le abitudini comportamentali che sono ad un livello ancora più basso. In questa struttura a cascata i costrutti che si collocano a livello elevato ed intermedio, sono tendenze abituali e stabili orientate alla messa in atto di una specifica categoria di risposte. Il livello più elevato, stabile nei vari domini di comportamento, viene interpretato come il nucleo portante della personalità, e si identifica con le variabili disposizionali.
Personalità e teorie psicodinamiche
Uno degli elementi alla base dell'approccio psicodinamico allo studio della personalità fu la scoperta dell'inconscio. Alla base di questo concetto si struttura l'approccio psicodinamico di Sigmund Freud, con il suo elevatissimo valore storico nella definizione della psicologia come disciplina.
Il primo modello costruito da Freud, il modello topico, distingue un piano conscio dell'individuo, di superficie, caratterizzato da tutta la sua sfera di consapevolezza; un piano preconscio, maggiormente nascosto, ma facilmente accessibile dall'individuo stesso mediante la verbalizzazione o tecniche più specifiche; un piano inconscio, centrale nei processi di personalità, assolutamente inaccessibile all'individuo senza un'adeguata relazione d'aiuto. Concetto fondamentale per lo studio della personalità, secondo il modello freudiano, è la pulsione, definita come spinta endogena verso l'esterno e caratterizzata da un'origine, una meta, e un oggetto.
Una seconda teoria freudiana si sposta dallo studio della struttura fisica della personalità allo studio dei processi psichici. Freud distingue allora tre istanze psichiche, che mediando la pulsione attraverso i meccanismi di difesa propri dell'Io, costruiscono la personalità individuale:
- L'id (o Es), l'istanza più primitiva, quella rappresentata dai fondamenti biologici e motivazionali elementari della personalità. Queste energie fanno riferimento, per la loro scarica nella condotta, esclusivamente al principio del piacere. Hanno infatti come meta la totale e completa soddisfazione pulsionale e l'evitamento del dolore.
- L'ego (o Io), l'istanza razionale e realistica nella quale il soddisfacimento degli impulsi scaturiti dall'Es trova il confronto e la mediazione. L'ego funziona infatti secondo il principio della realtà. Attraverso i meccanismi di difesa che l'individuo sviluppa, le pulsioni divengono socialmente accettabili, confrontandosi con un contesto sociale e personale che ne media la scarica in condotte considerate positive.
- Il super ego (o Super io), l'ultima istanza di sviluppo in ordine di tempo, segue le leggi della moralità e dell'etica. Si compone del concetto di bene e male (come caratteristica astratta rispetto alle conseguenze materiali dirette, di vantaggio o svantaggio immediati, di un'azione), e dell'ideale dell'io, un modello idealizzato e un'aspirazione sul come si dovrebbe essere.
Per esemplificare l'evoluzione della personalità, Freud ha focalizzato l'attenzione su una serie di bisogni, ognuno dei quali è associato ad una parte del corpo e caratterizza una delle principali fasi di sviluppo dell'essere umano, che sono:
- La fase orale, riguarda i primi 18 mesi di vita nei quali il bambino si procura da solo un intenso piacere nel succhiare. Non essendo ancora venuto a contatto con gli obblighi, i divieti, le disapprovazioni del mondo esterno, il bambino inizia ad esplorare il proprio corpo alla ricerca di nuove fonti di piacere.
- La fase anale, che interessa il bambino fino al terzo anno di età, è incentrata sul piacere indotto subito dopo la fine della defecazione. L'infante impara a riconoscere il momento ed il luogo adatti alla evacuazione, oltre a trattenere le feci seguendo le direttive del mondo esterno. Attua, per la prima volta nell'arco della sua esistenza, un compromesso tra piacere, obblighi e dignità sociali.
- La fase fallica, dai 3 ai 6 anni, nella quale il bambino scopre i genitali e manifesta un orientamento bisessuale. Superando la fase edipica, l'angoscia di castrazione nei maschi, l'invidia del pene nelle femmine, il bambino, identificandosi con il genitore dello stesso sesso, sviluppa la coscienza morale, inserendo nella propria personalità le regole e le norme trasmesse dal genitore.
Freud non è stato l'unico ricercatore ad indagare le fasi dello sviluppo della personalità. Erik Erikson aggiunse la dimensione psicosociale a quella psicosessuale freudiana, oltre a ritenere che l'evoluzione non si esaurisce con l'adolescenza ma prosegue per tutta la vita.
Secondo Carl Gustav Jung le caratteristiche personali sono riconducibili a delle forme innate, gli archetipi, che fanno riferimento all'inconscio collettivo.
Le teorie incentrate sui tratti
Tra i primi autori che studiarono la personalità umana in termini di tratto, emerge Gordon Allport che negli anni trenta identificò una gerarchia di tratti, a partire dai più intrinseci nell'individuo come i tratti cardinali, con maggiore capacità di influenza, fino ai tratti centrali e a quelli secondari. Il punto di partenza di questo studio è rappresentato dall'approfondimento lessicografico del linguaggio naturale, dove Allport identificò una banca dati di descrittori verbali differenziabili dal punto di vista logico. Allport sviluppò in questo modo una metodologia idiografica basata sul calcolo delle frequenze delle parole utilizzate per descrivere la propria personalità nei resoconti.
Un altro autore fondamentale nello studio dei tratti di personalità è Raymond Cattell il quale sviluppò un approccio di tipo nomotetico per lo studio della personalità. Attraverso la tecnica statistica dell'analisi fattoriale, identificò 16 tratti di personalità bipolari, attraverso cui confrontare, mediante un questionario standardizzato, denominato 16PF (vedi psicometria e test di personalità), le risposte date dal soggetto valutato, per poi categorizzarlo sul modello base che ha dato origine al questionario stesso.
Anche Hans Eysenck portò avanti un approccio fattoriale allo studio della personalità. Rifacendosi al costrutto psicologico dei tipi "introverso - estroverso", proposto dalla teoria Junghiana, ne trasse un questionario di valutazione, l'Eysenck Personality Questionnaire (EPQ).
Personalità e teoria sociale cognitiva
L'approccio comportamentista associa le differenze individuali agli apprendimenti condizionati e rinforzati dal soggetto durante il suo percorso di vita. Come nell'apprendimento, anche nello studio della personalità, l'approccio comportamentista considera l'importanza dello stimolo nella strutturazione della risposta personale, sottovalutando l'equazione personale che l'individuo associa a questo stimolo.
A partire dagli studi sviluppati dalla teoria sociale cognitiva, Albert Bandura sviluppa questi nessi associativi, di origine comportamentista, virando da un approccio meccanicistico ad uno probabilistico. Quest'autore infatti, nella valutazione della condotta, identifica una serie di fattori personali e ambientali, in un meccanismo di interazione che influenza la condotta, definito "reciproco determinismo triadico".
Nell'approccio di Bandura allo studio della personalità emergono, tra i meccanismi di autoregolazione della condotta, le convinzioni di efficacia quale costrutto basato sulla sistematica e sistematizzata interazione tra elementi personali e contestuali, nonché predittori chiave della condotta e delle differenze individuali che questa teoria valorizza.
La teoria dei big five
Lo stesso argomento in dettaglio: Big Five (psicologia). |
McCrae[12] e Costa[13] identificano 5 tratti di personalità sulla base della tradizione fattoriale nello studio della personalità e dell'ipotesi della sedimentazione linguistica di Cattell che, sulla base dei pionieristici studi di Allport, identificava nella lingua parlata un serbatoio di descrittori della personalità:
- L'estroversione, intesa come grado di attivazione, fiducia ed entusiasmo nelle condotte che si adottano e nella loro scelta.
- La gradevolezza, intesa come quantità e qualità delle relazioni interpersonali positive che la persona intraprende, orientate al prendersi cura ed accogliere l'altro.
- La coscienziosità, intesa come precisione, affidabilità, accuratezza metodologica che l'individuo è orientato ad offrire attraverso la sua condotta, nonché la volontà di avere successo e la sua perseveranza.
- Il nevroticismo, intesa come grado di resistenza a stress di tipo emotivo (resilienza), quali ad esempio l'ansietà, l'instabilità, l'irritabilità.
- L'apertura all'esperienza, intesa come disposizione a ricercare stimoli culturali e di pensiero esterni al proprio contesto ordinario, nonché la ricerca di un contatto con un orientamento valoriale diverso da quello di riferimento.
La teoria del TCI (Cloninger)
Il TCI (Temperament Character Inventory) è una teoria psicodinamica che definisce la personalità in base al funzionamento di quattro importanti neurotrasmettitori, e relativi recettori, che determinano i comportamenti dominanti e le risposte all'ambiente. Vi sono in totale 7 dimensioni:
- Novelty Seeking (NS): la ricerca di novità determina l'approccio alle nuove esperienze e ai nuovi incontri e ha una correlazione negativa con la Dopamina che determina il grado di soddisfazione della persona. Se la persona non è soddisfatta cercherà novità.
- Harm Avoidance (HA): l'evitamento del pericolo è in contrapposizione alla NS ed è determinato dalla Serotonina che ha funzione di regolazione. È maggiormente presente nelle persone di sesso femminile.
- Reward Dependence (RD): la necessità di una ricompensa si correla con la Noradrenalina che determina le risposte di attacco e fuga nel corpo umano.
- Persistence (P): fino a poco tempo fa non si pensava che la persistenza fosse una caratteristica indipendente della personalità.
- Self-Directedness: la capacità di essere indipendenti si correla con uno scarso attaccamento agli altri.
- Cooperativeness: presente in maniera maggiore nelle donne, il senso di altruismo e di cooperazione è alla base dell'empatia.
- Self-Trascendence: tipico di tutte le persone che si sentono in comunione con la natura e con gli altri, si è rivelato essere correlato anche con le esperienze spirituali e di "uscita" dal corpo (estasi), manifestazioni dovute talvolta a difettazione temporanea delle aree prefrontali.
Note
- ^ "Psicologia" di Peter Hofstatter, ediz. Feltrinelli, 1964, Milano (alla pag. 175,181 - voce "Personalità")
- ^ Foschi R., Lombardo G.P. (2006), Lewinian contribution to the study of personality as the alternative to the mainstream of personality psychology in the 20th century. In: Trempala, J., Pepitone, A. Raven, B. Lewinian Psychology. (vol. 1, pp. 86–98). Bydgoszcz: Kazimierz Wielki University Press. ISBN 83-7096-592-Xe
- ^ "Psicologia" di Peter Hofstatter, ediz. Feltrinelli, 1964, Milano (alla pag.175,181 - voce "Personalità")
- ^ Eysenck H. (1953), The structure of Human Personality, Methuen, London.
- ^ "Psicologia dello sviluppo ed educazione" di Orsola Coppola, ediz. Esselibri, Napoli, 1999 (alla pag. 38,44 - voce "Lo sviluppo della personalità")
- ^ Lombardo G.P, Foschi R. (2003), "La costruzione scientifica della personalità. Itinerari storici della psicologia", Bollati Boringhieri, Torino.
- ^ "Handbook of Personality, Third Edition: Theory and Research" by Oliver P. John, Richard W. Robins, and Lawrence A. Pervin, The Guilford Press, New York, 2008
- ^ Foschi R. (2003). "L'indagine sulla Personalità alle origini della psicologia scientifica francese (1870-1885)". Physis, Rivista internazionale di storia della scienza, vol. 40 (1-2); p. 63-105, ISSN: 0031-9414
- ^ Lombardo, G.P., Foschi R. (2002). The european origins of personality psychology. European psychologist, 7, 134-145, doi:10.1027//1016-9040.7.2.134
- ^ Lombardo G.P, Foschi R. (2003). The Concept of Personality between 19th Century France and 20th Century American Psychology. History of Psychology, vol. 6; 133-142, ISSN: 1093-4510, doi: 10.1037/1093-4510.6.2.123
- ^ IPIP - International Personality Item Pool. A Scientific Collaboratory for the Development of Advanced Measures of Personality and Other Individual Differences.
- ^ McCrae R. (1991), The Five-Factor Model and its applications in clinical settings. Journal of Personality Assessment, Vol. 57(3), 399-414.
- ^ Costa P.T. (1991), A clinical use of Five-Facot Model: An introduction. Journal of Personality Assessment, Vol. 57(3), 393-398.
Voci correlate
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