giovedì 7 luglio 2016

Il Trono del Toro. Capitolo 6. Lo scandalo di Pasifae



La regina Pasifae si stava ancora truccando, a metà mattina, con l’aiuto delle sue numerose ancelle, quando il re Minosse entrò come una furia nel suo appartamento.
«Lasciatemi solo con mia moglie!» ordinò il sovrano.
Pasifae lesse negli occhi del marito la consapevolezza del suo segreto, mentre le ancelle atterrite sgattaiolavano fuori dalla residenza della regina.
Minosse la afferrò per i capelli biondi e riccioluti, e non le diede nemmeno il tempo di protestare, ma la colpì violentemente con un manrovescio sul bel viso delicato.
La regina si appoggiò al tavolo, per non perdere l’equilibrio. Poi, senza fiatare, toccò il ventre per verificare che non ci fossero stati danni per il feto.
Gli occhi azzurri scintillarono di odio verso il marito.
Il re tentò di colpirla di nuovo, ma lei lo anticipò sferrandogli un calcio negli stinchi, che lo fece barcollare e crollare a terra.
Minosse ansimava, rosso in volto, invecchiato di colpo, sfinito.

Nessuno dei due aveva il coraggio di parlare per primo.
Alla fine il Re gridò: 
«Ti avevo posto un unico divieto! Uno solo! Avevi già tutto! Amanti a volontà, vestiti, gioielli, comodità, lusso. Avevi anche tre figli nostri, per appagare il tuo istinto materno. In quindici anni hai avuto tutto. Ora io ti faccio un’unica domanda: perché? Perché hai infranto quell’unico divieto? Perché hai voluto pugnalarmi alle spalle in questo modo? Perché?»

Pasifae si ricompose, ma parlò guardando per terra, con voce roca e bassa: 
«Mi sono innamorata. Ho solo trent’anni. Quando ho saputo che portavo in grembo il bambino dell’uomo che amavo, non ho voluto bere la pozione dell’aborto. Questo bambino è il figlio dell’amore, Minosse, mentre i nostri erano i figli della ragion di Stato»
Minosse la fissò con occhi pieni di disgusto: 
«L’amore! Il figlio dell’amore! Che bella definizione per chiamare il figlio di Taron, quel rammollito! Cosa ci avrai trovato in quella specie di femminuccia lo sanno solo gli dei! Taron… l’amore…
Che ne sai tu dell’amore? Hai amato sempre e solo te stessa, e adesso mi vieni a dire che hai scoperto l’amore… e con chi? Con Taron! Dimmi: perché proprio lui?»
Pasifae finalmente lo guardò negli occhi: 
«Tu mi chiedi di spiegare la cosa più misteriosa dell’universo. Io non so il perché. 
E’ successo, e prima mai avevo provato un simile sentimento. Forse finirà presto, ma io ho voluto che almeno una mia gravidanza nascesse da un sentimento vero»


«Un sentimento falso! Perché tu non sai amare!  Io invece, quando era viva la mia prima moglie, la mia adorata Mìriel… ah, allora sapevo bene perché l’amavo. Mìriel era dolce, gentile, di una bellezza fragile e malinconica…» si commosse.Ingoiò il pianto in silenzio, poi riprese:
 «Mìriel amava i suoi figli, era un angelo con loro e con me, sapeva sempre dire le parole giuste, aveva garbo…» di nuovo la commozione lo fermò.
Pasifae assunse un tono di sfida:
«Credi che non lo sapessi? Fin dall’inizio mi hai fatto pesare la mia inadeguatezza, di fronte al fantasma di Mìriel. Se con lei hai conosciuto l’amore vero, allora perché lo vuoi negare a me! »

Minosse la guardò con disprezzo:
«Tu hai gettato il disonore in questa casa! Hai fatto leva sulla mia pietà per ottenere tutto, ed io, per pietà, ti ho concesso tutto. Ma questa volta non otterrai pietà»
«Che significa
«Non fare finta di non capirlo. Tu hai violato la mia legge, e pagherai per questo. Ho già stabilito la tua punizione. Assisterai alla morte di Taron, che sarà giustiziato in sede privata mediante fustigazione. Tu potrai partorire, ma dopo ti sarà negato ogni privilegio di cui prima godevi e vivrai reclusa nei tuoi appartamenti»



Pasifae lesse nello sguardo del marito una determinazione inflessibile: lo conosceva troppo bene per sperare di blandirlo. Sarebbe stato inutile persino ricordargli che era la madre di tre dei suoi figli. La rabbia le traspariva dagli occhi glaciali.
«Chi si prenderà cura di mio figlio?»

«Disgraziata creatura!» disse il re con un misto di rabbia e tristezza «solo ora, troppo tardi, ritrovi la ragione. Tuo figlio sarà cresciuto da una balia, nel segreto degli appartamenti più interni, quelli del Labrys, e non gli sarà mai concesso di vedere il mondo»

Pasifae sibilò: 
«Io ti maledico! Tu e tutta la tua stirpe fino alla sua estinzione, compresi i figli che hai avuto da me! Vi maledico tutti! E ti auguro che il segreto del figlio di Taron venga risaputo, e che la gente ti disprezzi più di quanto tu ora disprezzi me. Morirai solo come un cane!»

«Taci, vipera!» urlò Minosse prendendola per il collo: «Ti ucciderei io ora con queste mani, ma sarebbe una pena troppo lieve per te, strega della Colchide! Più strega e più puttana di tua sorella Circe. Ma la mia stirpe sopravvivrà al tuo maleficio!»
Fece un segno di scongiuro, e se ne andò, lasciando Pasifae sola con la sua rabbia.
Quando finalmente alle ancelle fu permesso di rientrare, la regina fece subito chiamare sua sorella.

Circe era più giovane di lei di alcuni anni, ed era ancora più bella, ma soprattutto era veramente esperta nei malefizi e nei veleni.
«Minosse sa tutto» disse Pasifae alla sorella.
«Allora è tempo di mettere in atto la seconda parte del nostro piano» dichiarò Circe con soddisfazione.


Pasifae annuì, con un sorriso minaccioso: 
«Se agiremo in fretta, nessuno oserà schierarsi contro di noi»
Circe sorrise:
«Io mi occuperò della parte… come dire?... venefica… ma sei tu la stratega della politica» 
Gli occhi di Pasifae fissarono la sorella con intensità. Le pupille erano dilatate, nelle iridi chiare:
«Sono anni che preparo questa battaglia. Taron mi aiuterà, e comunque posso contare su alleati certi. Da oggi incomincia il mio riscatto! Li farò cadere uno dopo l’altro, senza alcuna pietà. Che il nostro dio del Sole possa abbattere gli Antichi Dei di Creta!»



Il Trono del Toro. Capitolo 5. Minosse e Pasifae





Seduto sulla candida e levigata pietra in cui era stato scolpito nella notte dei tempi il Trono del Toro, nella Sala delle Udienze, il re Minosse XIV appariva ancora possente e temibile.
Il Trono era addossato ad una parete affrescata prevalentemente di colore porpora, e da entrambi i lati era circondato da panche, per gli altri membri della famiglia reale e per i massimi dignitari di corte.
Era un seggio piccolo, soprattutto se si pensava al potere di colui che vi si poteva accomodare sopra, ma l’antichità e il mito che circondavano la sua costruzione, ai tempi del primo Minosse, lo rendevano simbolicamente l’Ombelico del Mondo.
Tanti secoli erano passati, ma il Trono del Toro era sopravvissuto ai terremoti e alle crisi dinastiche, ed era sempre là, a ricordare chi, nel Mediterraneo, detenesse il potere egemone.
E comunque, il Minosse XIV, il cui nome da principe era stato Astèrus, conferiva al Trono una ulteriore aura di sacralità e regalità.
Il Re era drappeggiato da tuniche e mantelli della miglior fattura. Al petto teneva ancora, per antica prudenza, la corazza dorata delle battaglie e come copricapo, per tradizione, l’elmo di bronzo con le corna di toro.
Minosse il Toro, che gli Achei chiamavano Mìnos Tàuros, era un uomo di settantatre anni, con una folta barba grigia che gli incorniciava il volto severo.
Quel pomeriggio aveva amministrato la giustizia di persona, come era solito fare da quarant’anni: la sua fama di giudice imparziale e scrupoloso era nota in tutta l’isola e nell’Impero.
I postulanti venivano ricevuti separatamente, uno per uno, o a coppie nel caso di una lite, ed esponevano al Re il loro problema, e Minosse, dopo aver consultato i dignitari di corte, dettava la sua sentenza.
Non amava gli affollamenti, per cui aveva voluto che la sala del Trono non fosse troppo grande, e che comunque la zona regia era decisamente sopraelevata rispetto al resto della stanza, suddivisa da colonnati e scale.
Ultimamente le udienze concesse dal Re erano più brevi. La stanchezza si faceva sentire, ogni giorno più pesante. La vecchiaia, alla fine, aveva infiacchito anche lui, il Toro, il grande guerriero, il conquistatore dei mondi, colui che aveva portato l’Impero marittimo di Creta all’apogeo.
Fece cenno ai presenti di andarsene, esclusi i suoi assistenti personali che lo aiutarono a scendere dal trono e a distendersi su una portantina, poi lo condussero ai suoi appartamenti privati.
Dopo un bagno caldo ristoratore, il sovrano fu aiutato dai servi a cambiarsi d’abito, e poi si sedette su una comoda poltrona e fece chiamare il Primo Consigliere, l’egiziano Harameb, un ex schiavo divenuto scriba, che aveva fatto carriera nell’amministrazione del regno.
Quando l’anziano Consigliere arrivò, Minosse gli chiese: 
«E’ tornato mio figlio?»
«Sì, e si sono sentite le grida di rimprovero della principessa Indis fino a un miglio di distanza»
Minosse rise: 
«Qui a Creta comandano le donne! In nessun altro regno una moglie potrebbe fare simili scenate al marito. Ma da noi la donna è sacra, perché porta in sé la benedizione della Dea Madre …»
«Mio signore, proprio riguardo alla questione delle donne, ma c’è un’informazione  delicata che voi dovreste conoscere subito. Riguarda la regina…»
Minosse cambiò espressione, aggrottando le sopracciglia e facendo balenare rabbia dagli occhi neri.
«Lo so, lo so, lo so!» tuonò la sua voce possente « dovrei farla controllare, tenerla rinchiusa… è una storia vecchia. Solo gli Dei sanno quante preoccupazioni mi ha dato quella donna! Ormai sono anni che faccio finta di non sentire le voci dei suoi tradimenti! Glieli ho concessi solo perché quando l’ho prelevata dalla sua terra, la lontana Colchide, era solo una ragazzina impaurita, poteva essere mia figlia, forse anche mia nipote, per non parlare di Circe, che era solo una bambina. Dovevo concludere un trattato importante con il re Eete, loro fratello, e  le ho portate qui come ostaggi. Pasifae e sua sorella non conoscevano nessuno, nemmeno la nostra lingua, le nostre usanze. Io ero vedovo da tempo, e quel matrimonio mi serviva per stringere un’alleanza coi popoli dell’est.
All’inizio Pasifae fu una moglie esemplare: mi diede subito un figlio maschio e due bellissime figlie, ma ahimé, presto mi accorsi che era infelice e che sarebbe morta di tristezza se l’avessi tenuta chiusa nei suoi appartamenti. Per questo la lasciai libera, e le permisi persino di avere degli uomini, a patto che fosse massimamente discreta e che bevesse ogni giorno la pozione per evitare le gravidanze… e fino ad oggi devo dire che ha rispettato il mio comandamento…»
«Appunto…» fece Harameb.
«Appunto cosa?» il volto di Minosse si incupì.
«La regina è… che gli Antichi Dei mi proteggano… non so come dirvelo mio signore…»
«Dirmi cosa?»
Harameb fece cenno ai servi di andarsene e di chiudere bene le porte, poi sussurrò: 
«La regina è incinta»
Minosse si alzò di scatto, ritrovando le forze: 
«Ma che dici?»
Harameb non sapeva dove guardare e si limitò ad annuire.
Il re, furibondo, lo prese per il collo della tunica: 
«Com’è possibile? Chi te l’ha detto?»
«Me l’ha confessato una sua giovanissima ancella stamattina. Era disperata: temeva la punizione di Vostra Maestà. Ma voi non sapete ancora il peggio…»
Minosse lasciò la presa, sentendo di nuovo la stanchezza piombare sulle sue vecchie spalle: «Parla dunque…»
«E’ di quattro mesi. Non vuole abortire, dice che piuttosto si butta dalla finestra»
Il re scosse il capo: 
«La butto io dalla finestra, se questa storia è vera! Non condividiamo il letto da dieci anni! In quindici anni di matrimonio non ha mai mostrato la minima vocazione materna, e adesso si mette a fare questi discorsi?»
Harameb sospirò con l'espressione più costernata che si fosse mai vista:
«E’ per il padre. Perdonatemi sire, ma l’ancella mi ha riferito che Pasifae lo ama»
Minosse rise: 
«Lo ama?! Proprio lei che non ha mai amato nessuno tranne che se stessa…  Per anni ha avuto solo amanti casuali… No, non ci credo: chi sarebbe poi questo padre
Harameb si guardò i piedi, imbarazzato:
«Un ex favorito del principe Catreus, lo scriba Taron di Festo»
Minosse scattò in piedi con un'agilità che non pensava più di avere:
«Taron! Quel bellimbusto amico di mio figlio! E ora anche di mia moglie, a quanto pare!»

«Pasifae se n’è infatuata, e ha voluto che nascesse un figlio che unisse le doti fisiche  e mentali sia di lei che di lui»
Il re era furibondo: 
«Non so cosa le è preso! Ha già tre figli grandi! Ma io l’avevo avvertita. Niente scandali! E soprattutto niente figli! Tutti al Palazzo sanno che io e Pasifae non condividiamo più il letto da anni. Oh, ma questa volta la pagherà cara! Risolverò questa faccenda personalmente. Tu fa in modo che nessuno sappia la verità, e dì alle ancelle di mia moglie che se si lasciano sfuggire anche solo una parola gli faccio strappare la lingua!»

«Certo maestà. Con il vostro permesso…» Harameb si inchinò per prendere congedo.
«No, resta… dovrò pur sfogarmi con qualcuno di fidato!»
«Sì, sire…» il volto di Harameb tradiva il desiderio di trovarsi in qualsiasi altro luogo del mondo, ma non lì, non in quel momento..
«Lo so cosa pensi: che ho sbagliato tutto con la mia famiglia!»
«Maestà, io non…»
«Ma sì, lo pensano tutti! E hanno ragione! Pasifae è una puttana, Catreus un rammollito, Ashtor un bifolco, Deucaliònes un idiota, Glauco un irresponsabile, Arianna e Fedra due civette viziate… ho stima solo di Indis e dei suoi figli!»

«Parli così perché sei adirato…»
«Ho sopportato di tutto, per anni! Ma adesso basta, devo riprendere il controllo della mia famiglia» sospirò: «Ah, quanto mi manca la mia povera Mìriel. Lei sì che era una degna moglie e con lei sono stato felice, nei miei anni migliori. E dire che nessuno la ricorda più, per tutti sembra che la regina sia sempre stata Pasifae. Che ingiustizia! Mìriel era una buona regina e un’ottima madre. Il nostro primogenito, Adregin, era un grande guerriero, degno di succedermi sul trono del Toro. E quei maledetti Achei me lo hanno ucciso! Da quando sono mancati Mìriel e Adregin, è come se non mi fosse importato più nulla degli altri. Per questo ho lasciato che la famiglia andasse allo sbando»


Harameb sapeva fin troppo bene che era vero:
«Sire, il principe Catreus sarà un degno erede»
«Puah! Sarebbe capace di mandare a picco l’Impero Minoico nel giro di una settimana! Io mi sono illuso che col tempo sarebbe maturato. Credevo che le lezioni di politica dei miei collaboratori gli fossero servite a qualcosa. Macché. Lui pensa solo a divertirsi! Per lui va tutto bene! Non ci sono mai problemi!»
Anche questo era vero, ma Harameb non voleva inimicarsi il sole nascente:
«Sire, ora lo caricate anche delle colpe di Pasifae»
«Pasifae… si è portata a letto pure lui… è inutile che lo neghi, lo sanno tutti… e io zitto, perché “erano solo ragazzi”…»
Harameb sapeva di trovarsi nel bel mezzo di una delle rare, ma terribilmente famose, esplosioni d’ira del re Minosse.
L’esperienza gli aveva insegnato che in quei casi il re andava lasciato sfogare, senza provocarlo, perché era come un toro nell’arena.
Per più di un’ora tuonò contro tutto e contro tutti, finché la stanchezza ebbe la meglio e cadde sfinito sulla portantina.
A quel punto Harameb andò ad aprire le porte e vi trovò i servi che origliavano.
Li minacciò di farli impalare se avessero rivelato quanto era accaduto.
Poi si recò dalla principessa Indis, in una delle ali più disabitate del Palazzo, dove spesso avvenivano i loro incontri di natura esclusivamente politica.
«Allora, come l’ha presa? » chiese Indis.
«Male, malissimo… Pasifae sarà punita in modo esemplar
Nel sentire quelle parole Indis sorrise: «Finalmente! Sono quindici anni che cerco in tutti i modi di farla cadere in disgrazia, ma lei è sempre stata troppo furba. Ora però ha commesso un grave errore! Innamorarsi, che assurdità!»
«Mia principessa, io non credo che Pasifae sia innamorata. Lei voleva un figlio suo, senza il sangue dei Minosse. Un figlio da plasmare, e da contrapporre agli altri suoi figli, avuti dall’odiato marito. Questa almeno è la mia impressione»
Indis scrollò le spalle: 
«Può essere! Potrebbero essere vere entrambe le cose. Forse ha deciso di fare quel figlio con l’uomo che più ha attirato la sua passione. Pasifae è capace di manipolare anche l’amore, per i suoi fini. Ma stavolta ha osato troppo»
«Eh, sì, mia principessa. Domani potremo finalmente brindare alla caduta della regina straniera!»
Gli occhi di Indis si illuminarono di gioia e di malvagità.


Tutto il tempo che esiste (poesia)



Soffèrmati sull'arida sponda, volgi
lo sguardo all'antico cammino,
mi vedrai peregrino errante,
lunga è la via, la strada è molta.
Ma non tutto ciò che è oro luccica,
né gli erranti sono perduti, io persino
perso nei tuoi occhi, come la volta
del cielo scintillanti, nella musica
che mi parla di te, di te distante,
e pur prima ovunque in me nella memoria.
Tu non ricordi, ma fosti amata molto:
mai ti chiesi di seguirmi nel cammino,
ma guardami ancora un solo istante
e sarà per me tutto il tempo che esiste

(Riccardo Querciagrossa)

Fiori

























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