venerdì 6 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 93. Après nous le déluge


Forse, in circostanze diverse e meno complesse, la novantottenne Contessa Madre Emilia Orsini, nata Paolucci de' Calboli, avrebbe detto <<Laissez faire, laissez passer, le monde va de lui meme>>, "laciate fare, lasciate passare, il mondo va avanti da sé".
Ma quella volta, quando sua figlia Diana e suo genero Ettore le riferirono i rischi dei processi che stavano per cominciare a carico dei dirigenti del Feudo Orsini, la veneranda matriarca si sentiva ormai come una reliquia della Belle Epoque interminabilmente sopravvissuta a se stessa ed era ben consapevole di avere ormai un piede nella fossa, pertanto il suo distacco dalla realtà contingente e dai beni materiali aveva modificato il suo punto di vista.
La sua risposta, per quanto ancora espressa in francese, fu diversa e più apocalittica.
Rispolverò infatti la frase che Madame de Pompadour disse a Luigi XV dopo la terribile disfatta dell'esercito francese nella battaglia di Rossbach, durante la guerra dei Sette Anni:
<<Il ne faut point s'affliger; vous tomberiez malade. Après nous, le déluge!>>



"Non è il caso di affliggersi; vi ammalereste. Dopo di noi, il diluvio!"
Annuì per ribadire il concetto :
<<Dopo di noi il diluvio!>> ripeté in italiano, a beneficio del genero, e spiegò <<Ora ci criticano, ma un giorno ci rimpiangeranno, perché siamo stati noi a tenere in piedi la baracca per più di mezzo secolo, e quando non ci saremo più, andrà tutto a catafascio, e tanti perderanno il lavoro, i risparmi e il rispetto che noi abbiamo sempre manifestato nei loro confronti>>
Quelle considerazioni non risollevarono però il morale di Ettore Ricci, che già di per sé era consapevole che senza di lui il Feudo Orsini si sarebbe disgregato nel giro di una generazione.
Certo sua suocera non avrebbe visto nulla, di quel diluvio, dal momento che i suoi giorni erano contati.




A Villa Orsini, il ruolo della novantottenne Contessa Madre Emilia, era sempre stato quello di rasserenare gli animi, trasmettere calore umano, rassicurare chiunque entrasse nel suo Salotto Liberty, dove lei garantiva la presenza di pasticcini, biscotti, tè, ma anche buon vino pregiato, il tutto accompagnato da battute brillanti, aneddoti spassosi e validi consigli (non potendo più dare cattivi esempi, a causa dell'età e del divieto dei medici sulle quantità di alcool assunte nei bei vecchi tempi).
Quando infine si ammalò, tutti i suoi numerosi interlocutori si trovarono perduti e spaesati.
Il Salotto perdeva la sua coesione, poiché Emilia si era sempre prodigata affinché le sue due figlie supersisti, ossia la Contessa Diana Orsini Balducci di Casemurate e la vedova Ginevra De Gubernatis, continuassero a intrattenere rapporti cordiali, nonostante Ginevra parteggiasse per suo genero, Massimo Braghiri, e per la sua terribile madre, la Governante Ida Braghiri, che era riuscita fino ad allora a dettar legge a Villa Orsini.
La dipartita dell'antica matriarca, nel febbraio del 1988, segnò la fine della tregua armata tra il clan Ricci-Orsini-Monterovere e quello De Gubernatis-Braghiri.
Diana e Ginevra furono le uniche a mantenere una certa compostezza.
Meno diplomatiche furono le loro rispettive figlie.
Silvia Monterovere disse ad Elisabetta Braghiri una frase poi divenuta memorabile; 
<<Senti, facciamo un patto: tu smetti di dire falsità su di me e io smetto di dire la verità su di te>>
I discendenti della defunta, a riprova che, come dice il proverbio, "il denaro non dorme mai", erano già pronti all'ennesima battaglia per l'ennesimo testamento.
Ma c'erano dissapori anche nella generazione più giovane.
Sia Roberto Monterovere che Vittorio Braghiri erano pronipoti della Contessa Madre, ma mentre il primo provava un dolore immenso, perché con la bisnonna se ne andava una parte della sua infanzia, il secondo sembrava del tutto estraneo al lutto.
Pareva persino affascinato e quasi divertito dal manifesto funebre affisso su tutte le strade di Casemurate e Pievequinta, dove il nome della defunta si estendeva per quasi tutto lo spazio.
"E' mancata all'affetto dei suoi cari la contessa Emilia Paolucci de' Calboli vedova Orsini Balducci di Casemurate, di anni 98. Ne danno il triste annuncio le figlie, il genero, le nipoti, i pronipoti e i parenti tutti".
La Chiesa di Casemurate era gremita 
Il nuovo parroco, succeduto a don Pino Ricci, pronunciò un'accorata omelia, concludendo con due citazioni evangeliche:
<<Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. 
Da quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia>> e a quel punto rivolse lo sguardo direttamente ad Ettore Ricci:
<<Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti condurrà dove tu non vorrai>>
Ettore non batté ciglio, ma un brivido di paura lo percorse, e ripensò ai bei tempi, quando il clan Ricci-Orsini controllava anche la nomina del parroco e poteva contare persino sulla benevolenza del vescovo.
Terminata la funzione, il corteo funebre si diresse verso il cimitero di Casemurate.
Diana Orsini e il marito Ettore Ricci camminavano per primi dietro il feretro, tenendosi a braccetto, come se fossero stati per cinquant'anni la coppia più bella del mondo, ma a volte le avversità hanno l'effetto di ricompattare coloro che prima erano in disaccordo, poiché i saggi sanno che, tra compagni di sventura, l'unica speranza è unire le forze, per non fare la fine dei manzoniani "capponi di Renzo"
Infine si giunse al camposanto, dove, alla destra dell'ingresso, incombeva la cappella funebre dei Ricci-Orsini, mentre alla sinistra c'era la tomba comune dei Ricci "di seconda classe": i genitori di Ettore, i suoi fratelli maggiori, i cognati e i cugini, tra cui don Pino.
<<Ecco, lì è dove finiremo tutti>> commentò Ginevra Orsini, vedova De Gubernatis, indicando la cappella dei Ricci-Orsini, come se quel luogo di sepoltura fosse un hotel a cinque stelle.
<<Tranne i tuoi discendenti, cara suocera>> specificò Massimo Braghiri <<ma noi ci costruiremo un mausoleo più grande in città, dove tutti potranno vederci, non solo questi bravi villici casemuratensi>>


Ma i Braghiri non erano gli unici a sentirsi in ombra.
Le sorelle di Ettore Ricci e i loro parenti e affini vari avevano preteso un posto in prima fila.
In primo piano c'erano Caterina, vedova del senatore Baroni e Carolina, vedova del conte Gagni di Montescudo. Le altre sorelle, ossia la vergine Adriana e la battagliera Maria Teresa Tartaglia si erano dovute accontentare della seconda fila, il che era inaudito, considerando la parentela dei Tartaglia con i Visconti di Bertinoro.
E infatti, con una certa virulenza, la signora Maria Antonietta Visconti, nata Tartaglia, si fece avanti, con tanto di marito, figlia, sorella e nipote.
E fu in quell'occasione che accadde un evento gravido di conseguenze nefaste, ossia la saldatura di un'alleanza tra due famiglie che nutrivano rivalità verso i Monterovere.
Quando Aurora Visconti fece le condoglianze a Roberto, subito Vittorio Braghiri rimase colpito dalla bellezza della fanciulla dai capelli d'oro e anche dall'ingombrante e massiccia presenza dell'onnipresente cugino, Felice Porcu.
Fu in quel momento che il seme del male, piantato da tempo, incominciò a germogliare nel cuore di Vittorio Braghiri.
Quella rivalità che fino ad allora Vittorio era riuscito a tenere a freno, improvvisamente divenne manifesta.
Alexandre Dumas avrebbe detto: "Cherchez la femme!", anche se al giorno d'oggi quell'antico motto di spirito sarebbe tacciato di sessismo politicamente scorretto.
In ogni caso, si profilava all'orizzonte un ennesimo motivo di scontro tra due famiglie che erano ormai ai ferri corti.
Non era ancora il diluvio preconizzato dalla compianta bisnonna Emilia, ma di certo grandi nuvole cariche di pioggia incominciavano ad addensarsi in un cielo color cenere.
E nella loro stamberga nei pressi della confluenza tra il Bevano e la Torricchia, le tre streghe Iole, Irma ed Ermide tessevano la tela che Eclion ed Elvira avevano disegnato.
Tutto era in movimento, eppure Roberto Monterovere sentiva soltanto il dolore per la perdita della bisnonna e del mondo che lei rappresentava.
Gli tornarono in mente, chissà perché, alcuni versi di Montale che aveva studiato pochi giorni prima.

<<                         ... un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. 
Ed io non so più chi va e chi resta>>



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