sabato 21 marzo 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 55. Partners in crime

Nessuno aveva mai capito perché Silvia Ricci-Orsini, nonostante fosse corteggiata, fin dai tempi del liceo, da tanti validi pretendenti, li avesse respinti uno dietro l'altro fino all'età di trent'anni.
A dire il vero, non lo capiva esattamente nemmeno lei.
La sua personalità era infatti piuttosto complessa e lacerata da numerosi conflitti interiori.
In lei la componente genetica paterna dei Ricci e quella materna degli Orsini si erano trovate in perfetta parità, e dunque nessuna delle due riusciva a prendere stabilmente il sopravvento sull'altra.
E questo aveva riprodotto, dentro di lei, qualcosa che accadeva da sempre fuori di lei e intorno a lei, ossia le interminabili liti tra suo padre e sua madre.
Ettore Ricci e Diana Orsini continuavano a farsi la guerra all'interno della psiche della loro figlia di mezzo, che comprendeva le ragioni di entrambi e  non riusciva a scegliere da che parte stare e di conseguenza che tipo di persona essere.
Del padre ammirava la forza, la determinazione, il coraggio e la laboriosità, ma si vergognava dei suoi modi rozzi, della sua insaziabile sete di denaro e di potere, dei suoi metodi poco ortodossi e dei collaboratori di cui si era circondato, e che sua madre divideva in due categorie: i "pendagli da forca" e quelli che non valevano la corda per impiccarli.
Della madre ammirava la gentilezza, il garbo, la raffinatezza e la cultura, ma non poteva fare a meno di notarne la sensibilità eccessiva, l'ironia corrosiva, il pessimismo radicale e assoluto (per quanto fondato su esperienze terribili e ragionamenti inconfutabili), tutti elementi che la portavano a indulgere all'accidia, in una sorta di quasi masochistica voluptas dolendi.
E ciò che preoccupava Silvia più di ogni altra cosa, era il riscontrare in se stessa gli stessi pregi, ma purtroppo anche, seppure in maniera attenuata e nascosta, una parte degli stessi difetti.
Ogni volta che individuava in sé un sentimento o un atteggiamento che le ricordava tali difetti, cercava subito di porvi rimedio, e ci riusciva, ma a caro prezzo, poiché la repressione degli istinti tende a ripresentarsi sotto forma di nevrosi.
E a voler essere sinceri, i primi sintomi di certe forme di ansia, di fobia, di pensieri ossessivi, o di emozioni troppo intense, avevano già fatto la comparsa nella sua mente a partire dall'adolescenza, sebbene nascosti dietro una facciata assolutamente irreprensibile.
Si era dunque convinta, e non senza validi argomenti, di non essere adatta al matrimonio o alla maternità, e per questo aveva rifuggito ogni relazione sentimentale, e fatto tacere ogni forma di sentimento o di desiderio.
Aveva adottato come suo motto due versi di una canzone francese dei tempi di Maria Antonietta, che spesso aveva sentito canticchiare da sua nonna, la Contessa Vedova Emilia, quando il delirio etilico allentava i già piuttosto deboli freni inibitori:
"Plaisir d'amour ne dure qu'un moment / Chagrin d'amour dure toute la vie"
Quel motto, a dire il vero, era stato trasmesso di generazione in generazione, probabilmente fin dai tempi dell'Ancien Regime, e fatto proprio da ogni Contessa Orsini di Casemurate, quasi che l'infelicità matrimoniale fosse una maledizione di famiglia.
E se anche, per puro caso, qualche matrimonio fosse stato meno fallimentare degli altri, era comunque stato funestato (poiché non è dato all'uomo di godere di gioie incontaminate), da una prole quasi del tutto fallimentare.
E dunque niente relazioni, niente amori, niente sesso, niente matrimonio, niente figli, niente di niente di niente...
Queste almeno erano le intenzioni di Silvia Ricci-Orsini nell'anno 1971.
Ma come si è detto nel capitolo precedente, la volontà umana incontra i suoi limiti di fronte ai principi fondamentali dell'universo, che restano pur sempre l'Errore e il Caso.
Tali forze erano state evocate dal collega e organizzatore di eventi ricreativi, prof. Piero Giovannelli, e avevano trovato la loro caotica incarnazione in Francesco Monterovere, un uomo che era un enigma persino per se stesso, e che fino a quel momento aveva attraversato la propria vita come un sonnambulo, dimenticando tutto e rimuovendo ogni ricordo sgradevole, e cioè dunque la quasi totalità.
Anche in lui, sebbene non ne fosse consapevole, si consumava il conflitto tra le tare ereditarie dei Monterovere, in particolare il carattere iracondo, ansioso, ombroso ed ossessivo e quelle materne dei Lanni, di indole introversa, malinconica e afflitta da fobie di ogni genere.
Il trentatreenne professor Monterovere era entrato da poco, per cooptazione, nel Club esclusivissimo del Giovannelli, di cui Silvia era tra le fondatrici, e dunque era stato nel contesto delle numerose cene e gite di quell'illustre comitiva che i due, ossia Silvia e Francesco, avevano avuto occasione di scambiare le loro prime parole e di conoscersi meglio.
Sappiamo che Francesco era già infatuato di lei, ma questo non giocò affatto a suo favore, perché i suoi tentativi di seduzione erano talmente goffi e maldestri da risultare comici nella migliore delle ipotesi, e profondamente imbarazzanti in tutte le altre.
E allora quale fu la scintilla che fece nascere tra quelle due persone così diverse e distanti il desiderio di unire le proprie sorti, dimenticando tutti i buoni propositi del passato?
Non è facile trovare una risposta, ma dopo lunghe ricerche crediamo infine di averla individuata.
Ci vuole molta forza per riuscire a percorrere l'intero cammino della vita da soli, senza l'appoggio di qualcuno che dice di amarci, e che sembra avere compreso il nostro animo meglio di tutti gli altri.
Ma a volte succede che questo "qualcuno" non ci ama come vorremmo e non ha realmente capito chi siamo, e di questo ci accorgiamo solo in un secondo momento, quando la lucidità torna a prendere il controllo sulle emozioni e sulle passioni. E accade che, per dirla con Lucrezio, dimidio de fonte leporum surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat. E allora ci svegliamo un giorno di fianco a una persona sconosciuta e veniamo colti dallo sgomento e dalla tentazione di fuggire.
Pochi, però, hanno sufficiente lucidità per capirlo e determinazione per farlo.
Ciò che intendiamo dire è che le coppie che restano unite non sono necessariamente entusiaste di questa unione, ma semplicemente ci si ritrovano a tal punto invischiate che non riescono a trovare la forza per uscirne, anche perché il ritornare da soli richiede un coraggio immenso.
E' forse questa paura della solitudine che tiene insieme le coppie e le spinge a cementare la loro unione col matrimonio e la procreazione?
Dispiace dirlo, ma forse è proprio così: ciò che garantisce la sopravvivenza del genere umano non è l'amore, ma è la paura della solitudine.
Mentre scriviamo queste cose, ci torna alla mente una canzone dal titolo significativo: "Home", perché è quello, e non l'amore, ciò che una coppia crea: una casa, un nido dove riscaldarsi a vicenda e fecondarsi e deporre le uova, e covarle finché non si schiudono e i piccoli non hanno imparato a volare, ammesso che ci riescano.

"Heaven knows- what keeps mankind alive
Ev'ry hand- goes searching for its partner
In crime- under chairs and behind tables"

Ogni mano cerca la sua complice in un crimine. Per un pessimista radicale il semplice mettere al mondo qualcuno è un sopruso. Non stiamo dicendo nulla di nuovo : già Sofocle, duemila e quattrocento anni fa, nella sua ultima tragedia, l'Edipo a Colono, espresse, novantenne, il suo pensiero: «Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti. Quando passa la giovinezza con le sue lievi follie, quale pena mai manca? Invidie, lotte, battaglie, contese, sangue, e infine, spregiata e odiosa a tutti, la vecchiaia» (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-1237). In molti, e tra i più saggi, nei secoli seguenti si sono espressi in tal senso: non nascere può essere il più grande dei doni.
Chi si scrive si trova alquanto d'accordo su questo punto, ma ammette che tale asserzione non può essere sufficiente nell'esaminare ciò che rese realmente Silvia e Francesco "partners in crime".
La ragione essenziale è un'altra, di cui nessuno dei due all'epoca era pienamente consapevole, e cioè che l'unione di due corredi genetici portatori di predisposizioni patologiche (nel loro caso prevalentemente di tipo psichico), rende estremamente probabile che una predisposizione patologica ancor più grave si manifesti nella prole.
Eppure in fin dei conti furono proprio quelle tare genetiche che finirono col buttarli l'una nelle braccia dell'altro.
Silvia infatti, che era così abituata e determinata nel respingere la corte degli uomini forti, che le ricordavano troppo suo padre, e dunque le facevano paura, finì con l'abbassare la guardia di fronte a quello che riteneva dopo tutto un personaggio innocuo, un animo gentile e una valida spalla su cui piangere.


giovedì 12 marzo 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 54. L'errore e il caso

In un ipotetico mondo perfetto e razionale, governato da un ordine geometrico euclideo, Silvia Ricci-Orsini e Francesco Monterovere sarebbero stati come due rette parallele destinate a non incontrarsi mai, se non, astrattamente, all'infinito.
Ma il cosmo, a dispetto del suo stesso nome, è talmente complesso e caotico da sfuggire ad ogni modello matematico per mezzo del quale gli scienziati vorrebbero ingabbiarlo, e per quanto ci si sforzi di trovare una formula che riesca a ricondurre le leggi fisiche ad un unico grande disegno, prima o poi si giunge, più o meno apertamente, alla rivelazione secondo cui i principi fondamentali dell'universo restano pur sempre l'errore e il caso.
E' soltanto alla luce di questa considerazione che si può tentare di capire come sia stato possibile che due personalità così distanti da sembrare incompatibili abbiano deciso di unire i loro destini per il resto della vita "nel sacro vincolo del matrimonio", e siano riusciti, nonostante ogni genere di avversità e di probabilità, a mantener fede a questo giuramento per mezzo secolo, fino all'ultimo respiro.
I loro stessi familiari, e più di tutti gli altri il loro figlio ed erede, Roberto Monterovere, avrebbero trascorso la vita intera domandandosi che cosa mai li avesse spinti, in un lontano giorno degli Anni Settanta, a finire l'una delle braccia dell'altro per poi proseguire questa unione contro ogni pronostico, attribuendo all'arbitrarietà del fatto compiuto e poi all'abitudine, il colore rosa pallido di un sentimento indefinibile e quello rosso sangue che lega per sempre i complici in un crimine. 
Della natura di questo crimine, se di crimine si può parlare, tratteremo nel prossimo capitolo.
Prima di tutto, infatti, è necessario cercare di ricostruire la sottile dinamica degli eventi che precedettero e favorirono il loro primo incontro e quali meccanismi si misero in moto, all'inizio in maniera quasi impercettibile, poi gradualmente in maniera via via più marcata, verso una direzione che rimase comunque incerta fino all'ultimo e quasi sconosciuta negli esiti non solo ai testimoni, ma persino ai protagonisti.
Non c'è da prestar fede ai racconti celebrativi confezionati col senno di poi, mezzo secolo dopo: si tratta solo di ricostruzioni ex post , che poggiano la loro precaria sicurezza sul fatto che il tempo funge da collante per tutto ciò che si sedimenta, comprese le coppie, e conferisce un'aura di venerabilità a tutto ciò che è longevo.
Le abitudini diventano tradizioni, gli errori si trasformano, nel ricordo, in scelte ponderate e il caso assume le sembianze inconfutabili della necessità.
Gli inizi furono invece alquanto incerti e fumosi, frutto di equivoci e malintesi, tali per cui entrambi svilupparono inizialmente l'uno riguardo all'altra, prima ancora che avessero avuto occasione di parlarsi, un'idea non del tutto corrispondente alla realtà.
Del resto bisogna tener presente che ognuno dei due, quando immaginava chi sarebbe potuto essere un eventuale futuro coniuge, partiva dal presupposto che non si sarebbero dovute in alcun modo riprodurre le dinamiche del rapporto coniugale dei propri genitori, che veniva preso come modello negativo da evitare come la peste.
Non essendo colleghi di sezione, Silvia e Francesco si erano soltanto visti di straforo, senza mai aver avuto l'occasione di parlare o di essere presentati.
Del resto, nessuno dei due era particolarmente portato a socializzare: avevano alcuni amici, ma non tanti, e questo perché una delle poche cose che condividevano era la convinzione che le persone oneste e sincere non hanno tanti amici.
Non si erano nemmeno, per così dire, "notati", e questo perché Francesco, per natura, aveva sempre la testa tra le nuvole, ed era quasi completamente privo di memoria visiva, mentre Silvia, che al contrario aveva lo spirito di osservazione di un detective, non era rimasta particolarmente colpita da quel personaggio allampanato e trasandato.
A svolgere il ruolo di Cupido, seppur in maniera non intenzionale, fu il professor Giovannelli, amico di entrambi, e animatore di un gruppo di colleghi che organizzava gite, pranzi, cene ed altri eventi ricreativi.
Da quel gruppo, va subito precisato, era escluso Massimo Braghiri, non solo per la sua presunzione e il suo livore verso chiunque potesse metterlo in ombra, ma anche per la ben nota legge secondo cui non ci possono essere due galli nel pollaio.
E infatti non era un caso se la cerchia, per lo più femminile, animata da Piero Giovannelli, era chiamata da tutti "il club di Piero".
A questa elite erano ammesse solo persone selezionate con cura.
I requisiti essenziali consistevano principalmente nell'essere persone "di cultura e di spirito", con raffinato senso dell'umorismo, ma senza la pretesa di stare al centro dell'attenzione, ruolo che spettava indiscutibilmente, quasi per diritto divino, al professor Giovannelli.
Silvia era stata tra le prime ad essere cooptata tra i "soci fondatori" di quel gruppo, mentre per molto tempo Francesco Monterovere non aveva ricevuto alcun invito.
E tuttavia fu proprio il suo modo di fare distratto e maldestro che attirò la curiosità di Piero Giovannelli, che lo trovava particolarmente buffo e nel contempo innocuo, due elementi che ispiravano una certa simpatia.
Fu così che un giorno, mentre si trovavano alla macchinetta del caffé, Giovannelli attaccò bottone con Francesco, e scoprì, con una certa meraviglia, che il collega Monterovere aveva tutti i requisiti per entrare nel suo club.
Prima di presentarlo ufficialmente agli altri membri, però, gliene volle dare, in anticipo, una descrizione informale.
Quando fu il momento di parlare di Silvia Ricci-Orsini, il prof. Giovanelli sondò il terreno:
<<Tu non hai mai sentito parlare di lei o della sua famiglia?>>
Francesco, come al solito, cadde dalle nuvole:
<<No... io vengo da Faenza>>
Lo disse come se Faenza distasse da Forlì quanto il Polo Nord dall'Equatore.
Piero Giovannelli sorrise con l'indulgente bonomia che si riserverebbe a un bambino o a un simpatico animaletto da compagnia:
<<Il clan Ricci-Orsini è un insieme di famiglie che controllano praticamente tutto dalle nostre parti, e al vertice di questa potenza ci sono proprio i genitori di Silvia, e cioè Ettore Ricci, un uomo d'affari spregiudicato e la nobildonna Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, che ai suoi tempi è stata una bellezza leggendaria, e ancora oggi è una specie di icona, un mito vivente>>
Chiunque altro sarebbe rimasto colpito da quel tipo di discorso, ma la reazione di Francesco Monterovere fu del tutto diversa:
<<Casemurate... ho già sentito quel nome... cosa c'è una specie di casello autostradale da quelle parti?>>
Giovannelli, che non aveva nemmeno la patente, trovò quella risposta particolarmente buffa:
<<Ah, ah, che soggetto che sei... comunque penso di sì, dev'esserci la stazione del Bevano, che è il torrente che passa di fianco a Villa Orsini>>
A quel punto Francesco ebbe una specie di illuminazione:
<<Bevano, sì... ne ho sentito parlare da mio padre, che lavora in un'azienda escavatrice e idraulica. Hanno vinto un appalto per far passare un canale di irrigazione da quelle parti>>
Gli occhi di Piero Giovannelli si illuminarono, nell'intravedere, in questa informazione, un preavviso di eventi interessanti:
<<Un canale nel bel mezzo del Feudo Orsini? Non credo proprio che Ettore Ricci lo permetterà!>>
Francesco non capiva:
<<E perché non dovrebbe? Conviene anche a lui. E' poi è un'opera pubblica, la pagheranno gli enti locali, penso. E per la terra requisita credo che ci sarà un qualche indennizzo...>>
Giovanelli rise:
<<Terra requisita? Ah ah ah! Ettore scatenerà l'inferno>>
Francesco era sempre più confuso:
<<Non capisco...>>
<<Tu non hai la minima idea...>>
<<Di cosa?>>
<<Di tutto>>
E a quel punto suonò la fine della ricreazione, lasciando Francesco Monterovere con un palmo di naso.
Per la prima volta, quel giorno, alla fine delle lezioni, osservò Silvia con attenzione.
Ciò che prima gli era parso come il frutto di un'eccessiva cura di sé, di ore trascorse dal parrucchiere e dall'estetista, o dal sarto e dal calzolaio, per rendersi più bella e più alta, gli si rivelò essere in realtà una naturale e spontanea tendenza al buon gusto, appresa tra le mura domestiche, assunta e assimilata insieme al latte materno.
Ed era naturale che fosse così, ora lo sapeva per certo, se sua madre era davvero, come il Giovannelli asseriva, "una bellezza leggendaria, una specie di icona, un mito vivente", nonché la "diciottesima Contessa Orsini di Casemurate".
Come per incanto, tutte le diciotto generazioni di nobildonne che avevano preceduto Silvia, apparvero improvvisamente disegnate nei suoi tratti, che Francesco trovò simili a quelli dell'attrice francese Anouk Aimée, per la quale aveva provato qualcosa di simile ad un innamoramento, quando l'aveva vista recitare ne La dolce vita e in Fellini 8 e 1/2.
Quella somiglianza, che gli era parsa tale soltanto dopo le informazioni ricevute dal Giovannelli, fu decisiva nel trasformare, agli occhi di Francesco, la collega Silvia Ricci-Orsini in una sorta di creatura mitologica, sicuramente dotata delle massime doti del corpo e dello spirito, che fino a quel giorno gli erano rimaste celate, come il Noumeno kantiano dietro a quello che Schopenauer, memore della sapienza induista, chiamava "Il velo di Maya".
Quando tornò a casa, Francesco chiese a suo padre se conosceva qualcosa riguardo a Ettore Ricci e Diana Orsini.
Romano Monterovere sgranò i suoi famosi occhi di ghiaccio e guardò il figlio con una nuova considerazione:
<<Vedo che finalmente hai deciso di interessarti agli affari di famiglia! Ettore Ricci possiede o controlla per mezzo di alleanze strategiche, quasi tutte le terre che vanno da Forlì a Ravenna. Suo padre era un contadino, ma aveva il bernoccolo degli affari, ed è riuscito a farlo sposare con...>>
<<Con la mitica Diana Orsini di Casemurate, una leggenda vivente>> concluse Francesco.
Romano lo fissò:
<<Come fai a saperlo, tu che hai sempre la testa per aria e non ti sei mai degnato di chiedermi chi è che ci sta creando tanti problemi per il tracciato del Canale Emiliano Romagnolo?>>
Francesco, contento di essere riuscito, forse per la prima volta in vita sua, ad impressionare il padre, dichiarò:
<<Silvia Ricci-Orsini, la figlia di Ettore e Diana, è mia collega, a scuola>>
Romano era scettico;
<<Con tutti i soldi che hanno i suoi, non capisco perché debba abbassarsi a insegnare in un istituto tecnico>>
Francesco sorrise:
<<Forse perché non vuole dipendere dai soldi del padre, e in questo avrebbe tutta la mia comprensione. E comunque l'insegnamento è una nobile arte>>
Romano scosse il capo in segno di generica e universale disapprovazione:
<<Dev'essere una testa calda come te. O come sua madre... perché circolano molte voci su tutti gli scandali che hanno avuto come protagonista donna Diana e la sua cerchia più intima: fratelli, sorelle, amanti, tutti coinvolti in vicende oscure, compresi tradimenti, incidenti mortali e presunti suicidi>>
E qui si mise a raccontare ciò che noi già conosciamo più approfonditamente e in maniera più corretta.
La versione data da Romano a suo figlio, riguardo a tutte le leggende che si narravano con grande immaginazione riguardo alla contessa Diana e al clan Ricci-Orsini, manco fosse la Famiglia Reale Inglese, non fece altro che proiettare intorno all'immagine di Silvia un'aura di luce semi-divina, che abbagliò Francesco in modo irreparabile, folgorandolo come Paolo sulla via di Damasco.




domenica 1 marzo 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 53. Niente è come sembra

<<Sai, mi sono chiesta spesso qual è il reale motivo che ci spinge a fare dei figli>> disse Diana alla sua secondogenita, Silvia <<e la conclusione a cui sono arrivata è che, a un certo punto delle nostre vite, ci rendiamo conto che le cose sono andate a rotoli in modo irreparabile, e così decidiamo di ricominciare da capo, di ripartire da zero: un nuovo inizio. E facciamo dei figli, piccole copie carbone alle quali dire: "Tu farai quello che io non ho potuto fare, tu avrai successo là dove io ho fallito", perché vogliamo qualcuno che faccia la cosa giusta, questa volta.
Poi i figli crescono, e cresce anche la nostra apprensione, la nostra paura che possano soffrire, che vadano incontro ai pericoli, e vorremmo trattenerli, anche se non ne abbiamo il diritto, perché la loro vita appartiene solo a loro, e noi abbiamo già commesso un grande atto di prevaricazione nel decidere di metterli al mondo senza il loro consenso>>
Quel discorso era coerente col suo comportamento, perché Diana Orsini non era mai stata una madre invadente, anzi, al contrario aveva sempre mantenuto un comportamento alquanto permissivo, limitandosi a qualche consiglio mirato o a pochi e cauti avvertimenti. 
Quel giorno però c'era qualcosa che la preoccupava più del solito.
Approfittando dell'assenza del marito, in viaggio d'affari con i fratelli, le sorelle e i soci, e della governante, in visita al figlio prediletto a Forlì, Diana aveva chiamato sua figlia Silvia nel Salotto Liberty per esprimere il suo pensiero su alcune questioni che le stavano molto a cuore.
Era presente anche la madre di Diana, la vecchia contessa vedova Emilia.
Le altre due figlie, Margherita e Isabella, parevano aver formato famiglie felici, ma Diana pensava a ciò che Tolstoj aveva scritto in Anna Karenina:
 "Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo".
E la famiglia di Diana era stata un cumulo di scandali, lutti e infelicità.
<<Ci sono tante persone sciocche che si vantano della loro felicità coniugale e familiare, come se fosse un dato di fatto acquisito una volta per tutte. Ma non è mica finita! I conti si fanno alla fine...>>
Silvia aveva annuito:
<<Basta guardare cos'è successo ai De Gubernatis. Zia Ginevra sembrava così sicura della fedeltà di suo marito, l'irreprensibile giudice istruttore, e poi viene a scoprire che ha avuto un figlio dalla segretaria>>
Era lo scandalo del momento, che era quasi costato la carriera al giudice Guglielmo De Gubernatis, marito di Ginevra Orsini.
Le parole di Silvia aleggiarono come corvi negli arredi floreali del Salotto Liberty di Villa Orsini.
Diana era consapevole che una eventuale caduta in disgrazia del giudice avrebbe reso più vulnerabile tutto il clan Ricci-Orsini. Per questo la sua collera era così grande.
<<Se quel disgraziato di De Gubernatis non conoscesse tutte le magagne di Ettore>> riprese Diana riferendosi rispettivamente al cognato e al marito <<non avrei mai approvato la scelta di quella sciocca di Ginevra di riprenderselo in casa come se niente fosse>>
Questo aspro commento risvegliò la vecchia contessa vedova Emilia dal suo torpore etilico:
<<Oh, avanti, Diana, non devi essere così dura con tua sorella. E poi, in questo modo, non fai altro che spaventare la nostra cara Silvia, che ancora non ha incontrato la sua anima gemella>>
Diana scosse il capo:
<<Non l'ha incontrata perché non esiste! Credere nell'anima gemella è come credere a Babbo Natale>>
Silvia sorrise: era abituata ai battibecchi tra sua madre e sua nonna riguardo al matrimonio.
<<Per me la libertà viene prima di ogni altra cosa. E poi ormai siamo negli Anni Settanta, non è necessario sposarsi per fare l'amore>>
A queste parole sia Diana che Emilia la guardarono con sospetto.
Un conto era parlare di certe cose in astratto, e un conto era insinuare un dubbio sulla questione della verginità.
La prima a parlare fu la contessa vedova Emilia:
<<Mia cara nipote, tu frequenti delle brutte compagnie. E non mi riferisco solo a quelle amiche "femministe" o come si fanno chiamare...>>
Subito però intervenne Diana, in qualità di Contessa in carica e capo formale del clan Ricci-Orsini:
<<Io ti capisco, Silvia e so benissimo che i tempi sono cambiati, ma purtroppo noi viviamo in una piccola Contea di campagna, in provincia di una piccola città che è un misto tra un covo di vipere e un nido di vespe. Per cui occorre prudenza. 
Tuo padre non vuole credermi, ma io so per certo che la famiglia Braghiri è disposta a tutto pur di rovinarci>>
Silvia conosceva le ipotesi di sua madre riguardo al ruolo di Michele Braghiri nella morte di zia Isabella, di zio Arturo e del nobile Federico Traversari, l'amante di Diana.
E suo figlio Massimo era quasi peggio del padre.
<<Non so più come comportarmi con Massimo. Gli ho fatto capire in tutti i modi che non sono interessata a lui, ma è come se parlassi a un muro. E' ossessionato da me...>>
La contessa vedova Emilia, che era alla seconda bottiglia di Cabernet-Sauvignon, sbottò:
<<Non da te, ma dal tuo cognome! Lui gira per casa e vede i ritratti di tutti i Conti Orsini di Casemurate, di tutti i Papi e i Principi che appartengono al nostro casato e naturalmente...>>
Di nuovo Diana intervenne per fermare il delirio etilico dell'anziana madre:
<<Non esageriamo, in fondo Silvia è una Orsini solo per metà. Per l'altra metà è una Ricci, e i Ricci, nonostante i loro soldi, non sono principi di nessun luogo>>
Silvia rise e sollevò la sua tazza di tè:
<<E allora brindiamo a Silvia Ricci-Orsini, Principessa di Nessun Luogo>>
Sua nonna Emilia si unì al brindisi, scolandosi altro vino.
Diana avrebbe voluto sorridere, ma la sua mente era tormentata dai fantasmi del passato e dalle paure del futuro.
<<Perdonatemi se non condivido la vostra spensieratezza, ma ci sono cose che non posso dimenticare, neanche se bevessi come mia madre o se fossi giovane e libera come mia figlia.
Nei lunghi e sconfinati inverni che ho trascorso chiusa nella mia camera da letto, sono arrivata alla conclusione che sarebbe stato meglio non nascere, e in ogni caso non sposarsi e non fare figli, ma dal momento che il passato non si può cambiare, ho cercato di concentrarmi sul futuro, affinché non si ripetano certi eventi oscuri su cui per paura io stessa ho evitato di far luce.
Forse ho danzato per troppo tempo con i miei fantasmi, lassù nella stanza dai muri di pietra, ma non posso fare a meno di temere che il passato ritorni e ci chieda il suo tributo>>
Silvia comprendeva la sofferenza di sua madre, le coercizioni a cui era stata sottoposta, gli anni della guerra, i lutti, i tradimenti, gli scandali.
<<Io sono consapevole che nel passato della nostra famiglia niente è come sembra.
C'ero anch'io quando trovarono il corpo di zia Isabella, e quando ci dissero dell'incidente di zio Arturo, e anche quando morì Federico Traversari.
Ero piccola, ma mi ricordo tutto, perché i bambini e gli adolescenti hanno buona memoria.
Però ho sempre cercato di non pensarci troppo, perché non volevo essere travolta da questo peso. So che la verità, se mai ce ne fosse una, è sepolta dietro ad infiniti veli, ma non mi sono posta domande su ciò che è veramente accaduto.
Le mie domande sono altre.
Fino a che punto i nostri ricordi ci definiscono?
Fino a che punto noi siamo il risultato delle circostanze della nostra nascita e della nostra crescita?
Forse un fiore è responsabile del proprio colore?>>
Gli occhi grandi e belli di Diana, che in un tempo lontano avevano fatto innamorate tanti giovani sgraditi a suo padre, sembravano guardare lontano, in un altro tempo, forse in un'altra dimensione.
<<Mi sono posta anch'io le stesse domande, e dal punto di vista teorico credo che il libero arbitrio non esista. Questo però non deve essere una scusa per rifuggire dalle proprie responsabilità.
Io mi sento responsabile per compromessi che ho accettato, per i ricatti a cui ho ceduto, per i silenzi e le omissioni con cui ho coperto la colpevolezza di altre persone.
Quando è morto mio padre e gli sono succeduta come guida di questa Contea, mi ero ripromessa di cambiare.
Avevo guardato i ritratti degli antenati e avevo pensato che sarei stata degna della loro eredità, perché: "I giganti sono come montagne: si parlano attraverso i secoli".
Ero convinta di poter essere persino meglio di loro.
Mi ero detta: "Questo è un regno di rettitudine, oppure non è niente".
E infatti non rimane più niente.
Etiam periere ruinae>>
Silvia si sentì gelare:
<<Non è tutto perduto, mamma. Ci sono io al tuo fianco, e io non mi arrendo, e non mi arrenderò mai>>
Diana sapeva che sua figlia avrebbe risposto in quel modo.
Era proprio quella determinazione ciò che la esponeva maggiormente al pericolo:
<<Ammiro il tuo coraggio, ma ti invito a non fidarti di nessuno, tranne me e le tue sorelle, perché, come hai ammesso tu stessa, da queste parti niente è come sembra.
Ricordatelo bene, Silvia.
Niente è come sembra!>>


venerdì 21 febbraio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 52. I colleghi dell'Istituto Tecnico

Grande fu lo sconcerto del clan Ricci-Orsini quando Silvia rifiutò fermamente qualunque forma di raccomandazione, sia in sede di concorso, superato peraltro brillantemente, sia in sede di assegnazione della cattedra di ruolo.
E così, mentre il Sommo Poeta donnaiolo Adriano Trombatore declamava le sue orazioni al Liceo Classico, Silvia accettò di buon grado la cattedra di italiano, storia e geografia all'Istituto Tecnico Industriale Statale.
Tale scelta si rivelò inaspettatamente felice, perché all'ITIS di Forlì conobbe, tra i suoi colleghi, sia il futuro marito, sia la maggior parte degli amici più cari e dei frequentatori del salotto a cui avrebbe dato vita in seguito, dopo il matrimonio.
Iniziamo dai colleghi di sezione, nel biennio.
C'erano, in primo luogo, Anna ed Elisabetta De Gubernatis (ancora precarie e pertanto non raccomandabili dalla Signorina De Toschi) : la prima, che come sappiamo aveva sposato il Sommo Poeta, insegnava lettere in altre classi della stessa sezione, mentre la seconda era docente di inglese e faceva una corte spietata a Massimo Braghiri, docente di matematica, il quale continuava a corteggiare Silvia, invano.
La collega di scienze naturali era la Professoressa Maria Pia Teodati De Bonchampuna ninfomane ipocondriaca fissata con l'igiene intima e lo studio dei germi al microscopio.
Il collega di disegno era l'architetto Amedeo Leandri noto per il suo carattere irascibile e per la tendenza a scagliare fuori dalla finestra fogli e quaderni degli studenti che non gli andavano a genio.
La collega di fisica era la Professoressa Dea Vermiglioni, il cui segno particolare era un enorme neo sferico e violaceo che le copriva quasi tutto il naso: tale oltraggio da parte della natura veniva compensato nella mente della  Vermiglioni con una compulsiva tendenza al pettegolezzo velenoso.
Il collega di ginnastica era il Professor Gilberto Minchioni, detto il Tenente Colombo, per la sua abitudine a portare in ogni stagione e con ogni tempo e temperatura, un impermeabile stropicciato color vomito.
La collega di diritto ed economia era la Professoressa Edda Rachele Gattifiglia di un ex-dirigente fascista di Predappio Alta, ed ella stessa fervente sostenitrice del Movimento Sociale.
Non poteva mancare il collega di religioneil rubicondo Don Adamo Colleoni, un prete dai forti istinti carnali, le cui barzellette oscene mettevano in imbarazzo l'intero istituto, per non parlare della Curia.
Non meno importanti erano i colleghi del triennio.
Italiano e storia negli ultimi tre anni erano affidati alla Professoressa Letizia Ramolini, quasi omonima della madre di Napoleone, ma, a differenza di quest'ultima, zitella impenitente dalla voce nasale e dal fisico somigliante a un armadio.
La cattedra di fisica nel triennio era tenuta dalla Professoressa Renata Maria Crocifissa Binetti Delle Vedovedi cui si vociferava che portasse una jella tremenda e implacabile.
Ma il più importante di tutti, destinato a diventare il miglior amico di Silvia, era il Professor Piero Giovannelli, brillante matematico, sostenitore del geocentrismo, grande conoscitore di cinema, fine umorista e narratore, ma soprattutto principale organizzatore delle iniziative mondane della città e delle gite all'estero.
La sua vèrve era in grado di conquistare tutti: basti dire che persino Ettore Ricci, padre di Silvia, lo vedeva di buon occhio, apprezzandone la tagliente ironia.
Per quanto Giovannelli e la Gatti fossero ufficiosamente fidanzati, non si sposarono mai, né mai convissero, forse per ragione delle opposte visioni politiche, che li portavano a liti furibonde, placate soltanto dalla devozione amorevole di lei e dal bisogno che lui aveva di una donna con la patente di guida che gli facesse da autista, essendo lui volutamente sprovvisto di automobile, ritenuta una spesa frivola e indegna di un vero sapiente.
Va altresì ricordato che tutti i suddetti docenti erano stati, a loro tempo, studenti pubblici o privati della Signorina De Toschi, compreso Piero Giovannelli, che nutriva nei confronti della Grande Mademoiselle un odio viscerale.
In conclusione, bisogna nominare anche i principali membri del personale amministrativo, tecnico e dirigente, ognuno dei quali era destinato a ricoprire in seguito un proprio ruolo nel salotto di Silvia Ricci-Orsini e della sua famiglia.
Ricorderemo quindi: il bidello Obino Colleoni (fratello di don Adamo, e narratore di barzellette altrettanto sconce), il tecnico di laboratorio Guido Selvaggi (che portava sempre la stessa maglia unta e bisunta e che svolgeva anche le attività parallele di falegname e amministratore di condominio), la segretaria Alice Fobrecht Van Der Bach, una bionda di origine olandese, il vicepreside Priamo Marchesi, dirigente democristiano, il Preside Prof. Everardo Rocca Rossiglioni, presidente del Rotary Clubla vicepreside Professoressa Rosa Pia Baccarelli, moglie di un importante notabile democristiano e direttore di banca, e la Provveditrice agli Studi, la temutissima Cordelia Sergenti Borgonzoni.
Ma la vera svolta ci fu quando Massimo Braghiri perse il posto a causa dello scarso punteggio, venendo definitivamente trasferito alle scuole medie, e la sua cattedra fu assegnata a una nostra vecchia conoscenza, ossia Francesco Monterovere, il futuro marito di Silvia.

domenica 16 febbraio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 51. Francesco Monterovere conosce l'Antagonista

Nel 1968, mentre il mondo studentesco era scosso dalla Contestazione, Francesco Monterovere aveva vinto il concorso nazionale per l'insegnamento ("sono arrivato sesto in tutta Italia" era solito ripetere, con una certa spavalderia) e di conseguenza aveva ottenuto la sua prima cattedra di ruolo, come si dice in gergo, all'Istituto Tecnico Industriale Statale di Forlì, lo stesso a cui era stato destinato Massimo Braghiri, che invece non aveva superato l'esame di stato, ma soltanto quello provinciale di abilitazione, cosa che gli precludeva una carriera nei Licei.
Da questo dettaglio di non poco conto sarebbe sorta una rivalità destinata a crescere negli anni, fino a diventare una vera e propria faida tra la famiglia Monterovere e la famiglia Braghiri.
Ma ancora i tempi della guerra aperta erano lontani.
L'incontro tra i due futuri rivali in tutto (amore, lavoro, prestigio e quant'altro), era già avvenuto all'università di Bologna, ma Francesco Monterovere non se lo ricordava nemmeno.
Come a volte succede agli uomini molto alti, Francesco aveva la testa tra le nuvole ed era talmente distratto e distante dal contesto che non aveva mai fatto caso a Massimo, basso di statura, olivastro di carnagione e livido d'invidia.
Fu solo quando diventarono colleghi che si ebbe una vera e propria presentazione, che costituì, anche se loro all'epoca non potevano saperlo, il primo punto di tangenza tra due universi totalmente diversi, e cioè quello "montano", "magico/boscoso", "celtico/druidico" e "longobardo" dei Monterovere, e quello "basso padano", "agrario", "gallo-italico", "aristocratico/papista" e "romano/bizantino" dei Ricci-Orsini e di tutte le famiglie che gravitavano intorno al loro centro, la Contea di Casemurate.
Fin dalla loro prima presentazione ufficiale, Francesco e Massimo svilupparono una profonda e reciproca antipatia.
La stretta di mano di Massimo fu stritolante e troppo prolungata.
A questa seguì una raffica di domande che conteneva già in sé altrettante risposte provocatorie:
<<Monterovere? Non sei di queste parti, vero? Vieni dai monti, giusto?>>
Seccato, Francesco borbottò una risposta vaga:
<<I miei nonni erano di Querciagrossa di Pavullo, nel modenese>>
Massimo sorrise:
<<Ah, ecco! Infatti il dialetto modenese ha una cadenza molto marcata, una specie di cantilena...>>
Francesco, sempre più irritato, intervenne:
<<Ma io sono nato e cresciuto a Faenza, per tua informazione!>>
Massimo sorrise con una certa condiscendenza:
<<Ah, qui da noi si dice "botta di faentino", quando uno dà di matto! Oppure "fare senza, come quelli di Faenza". Anche lì si mangiano le parole, hanno uno strano dialetto, con tutte le vocali sbagliate...>>
Francesco, di temperamento irascibile, stava già desiderando di prendere a pugni quel cafone:
<<Credevo che tu insegnassi matematica, non glottologia>>
Massimo si erse in tutto il suo metro e sessanta:
<<Insegno matematica, ma ho mille hobbies sia culturali che sportivi. Mi intendo di preistoria, storia locale, dialettologia, lingue straniere, storia dell'arte e collezionismo, inoltre sono appassionato di tennis, nuoto, barca a vela, motocicletta e automobilismo>>
Francesco parve divertito:
<<E cosa ti fa pensare che tutto questo mi interessi anche solo lontanamente?>>
Massimo divenne verde per la bile:
<<Ritengo che la socializzazione tra colleghi si basi su una presentazione che non sia superficiale. Per cui sarei curioso di sapere quali sono i tuoi hobbies culturali e sportivi>>
Di fronte a tanta bizzarra pedanteria, Francesco era tentato di mandare al diavolo l'interlocutore, e avrebbe fatto sicuramente meglio, ma alla fine prevalse quel senso innato di quieto vivere che aveva ereditato da sua madre:
<<Mah, a livello culturale mi piace la musica classica, in particolare l'opera lirica. Ho anche una seconda laurea in fisica, per cui mi interessa la scienza, la storia della scienza, la filosofia della scienza e la filosofia in senso lato, in particolare la logica e la metafisica. Mi piace molto il cinema, specie quello surrealista, Fellini in particolare. Vado a teatro, leggo romanzi gialli e di fantascienza, ma anche testi più impegnativi: Borges per esempio, e Proust, soprattutto, il mio autore preferito. Non sono sportivo, mi sembra tempo perso. Sono un intellettuale puro>>
E qui Massimo trovò subito il punto debole del suo futuro avversario:
<<Ah, male! Lo sport è essenziale per la salute fisica e psicologica. Io lo insegnerò ai miei figli, prima di tutto, al di sopra di tutto. Tu invece darai un pessimo esempio ai tuoi, che cresceranno in una specie di castello in aria, senza contatto con la realtà...>>
Francesco era sbalordito dalla faccia tosta di quel piccoletto:
<<Ci conosciamo da nemmeno cinque minuti e mi stai dando già lezioni su come si crescono i figli. Be', mi dispiace deluderti, ma per il momento questo discorso non mi interessa. Preferisco divertirmi un po', prima di mettere la testa a posto>>
Massimo scattò subito:
<<Male, malissimo! Fare i figli tardi è un errore colossale. Io per fortuna devo solo scegliere tra numerose spasimanti. Se ritarderò un minimo, sarà solo perché dovrò scegliere la più adatta per me>>
E qui Francesco ebbe gioco facile per trovare una risposta destinata a provocargli l'odio perenne di tutta la famiglia Braghiri:
<<Be', non dovrebbe essere così difficile, Massimo. Visto che pensi già a cosa sarà meglio per i tuoi figli, è necessario che tu, tra tutte le tue innumerevoli spasimanti, sceglierai per forza la più alta>>
La faccia di Massimo assunse un color verde oliva tendente al giallo zafferano:
<<Non necessariamente! Per esempio, la mia famiglia frequenta quella dei Conti Orsini di Casemurate, la famiglia più antica e più nobile di tutta la Romagna. Discendono da Bertoldo Orsini, che fu Conte di Romagna dal 1278, per volontà di suo zio, papa Niccolò III...>>
<<Ah, sì, quello che Dante mette all'Inferno per simonia...>>
<<Questo non c'entra nulla. Stavo dicendo che in pratica io sono intimo di Silvia Ricci-Orsini, l'erede dell'attuale Contessa Orsini di Casemurate>>
Francesco trovava sempre più ridicolo quel personaggetto supponente e millantatore:
<<A Roma direbbero: me cojoni!>>
<<Si vede che tu non conosci la storia, caro Francesco... e osi definirti un intellettuale!>>
<<Se sapessi tutto, allora forse insegnerei alla Sorbona di Parigi, discettando dei massimi sistemi, e non delle contesse di qualche sconosciuto paesino della bassa pianura romagnola abitato da pigmei con manie di grandezza>>
Quella parola, "pigmeo", politicamente scorretta già a quei tempi, fu un altro dei motivi dell'odio di Massimo Braghiri nei confronti di Francesco Monterovere.
Nessuno dei due però si era reso conto che, già in quella prima conversazione, era stato fatto il nome di Silvia Ricci-Orsini, la donna destinata ad essere contesa tra loro negli anni a venire.
Massimo, che voleva aver sempre l'ultima parola in ogni discussione, concluse sprezzante:
<<Dovrai imparare ad avere più rispetto nei confronti del clan Ricci-Orsini, perché i loro parenti controllano tutte le posizioni chiave del potere, qui a Forlì. Ti auguro di non incorrere mai nell'ira di Ettore Ricci, il marito della Contessa, perché tutti quelli che hanno osato sfidarlo hanno fatto una brutta fine>>
Francesco parve confuso:
<<Parli di questo Ettore come se fosse un boss mafioso. Comunque, non vedo perché dovrei averci a che fare. E poi cosa intendi per "brutta fine"? Lo hanno sfidato e hanno fallito?>>
Massimo lo fissò con sguardo da faina:
<<Lo hanno sfidato e sono morti>>

giovedì 13 febbraio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 50. Un gioco più grande di noi

Da molti anni ormai Ettore Ricci aveva preso possesso dello studio del suo defunto suocero, Achille Orsini, venticinquesimo Conte di Casemurate, facendone la propria "sala del trono".
Diana Orsini, moglie di Ettore e ventiseiesima Contessa di Casemurate, non aveva messo più piede in quella stanza da così tanti anni che, quando finalmente si decise a ritornarvi, si meravigliò di trovarla quasi immutata.
<<Ettore. credo che sia venuto il momento di tornare a parlarci>> esordì Diana, dopo essere entrata nel suo studio.
Lui inarcò le sopracciglia:
<<Ah sì? Non mi rivolgi la parola da quindici anni, e poi improvvisamente arrivi qui, come se niente fosse, e pretendi che io sia disposto a fare conversazione... >>
Lei si sedette sulla poltrona di fronte a lui, fissandolo con determinazione:
<<Si tratta di una questione importante, che non può essere rimandata. Ti chiedo solo di ascoltarmi>>
Ettore sospirò, piegando il giornale sulla pagina delle quotazioni azionarie:
<<Sentiamo!>>
Diana annuì lievemente, in segno di ringraziamento:
<<Io sono convinta che quello che è successo ad Anna non sia una mera casualità>>
Lui alzò gli occhi al cielo:
<<Non vorrai ricominciare con le tue teorie del complotto, spero?>>
Lei mantenne un tono serio:
<<Ettore, fino ad ora ho scelto di fingere di non vedere, di non capire, di non sapere, perché credevo  che fosse l'unico modo per evitare che la nostra famiglia si disgregasse.
Ma adesso non posso più far finta di niente>>
Ettore la fissò con aria esasperata:
<<Ma si può sapere di cosa stai parlando?>>
Gli occhi neri di Diana sostennero lo sguardo del marito:
<<Di Silvia. Era lei il bersaglio di Adriano. Anna è stato solo un ripiego>>
Ettore sorrise:
<<Nostra figlia sa difendersi benissimo da sola, e ce ne ha dato prova, per cui non vedo la ragione di preoccuparsi>>
Diana scosse il capo:
<<Ancora una volta ti ostini a non voler vedere quello che succede sotto il tuo naso>>
Lui sbuffò, sempre più spazientito:
<<Ah, ecco, alla fine si torna sempre a questo punto. Io non capisco nulla, invece tu sei il grande genio che risolve i misteri>>
Lei aveva previsto questa reazione e cercò di arrivare gradualmente al punto:
<<Non è questione di intelligenza, ma di volontà. Ogni volta che ho tentato di metterti in guardia da certe persone di cui ti fidi troppo, tu hai reagito dandomi della pazza, perché non avevo le prove. Ma stavolta è diverso. In tutto questo tempo ho osservato attentamente i fatti, e ho capito persino più di quanto fosse necessario capire. Sarebbe stato più facile vivere di ipotesi, ma per noi è il momento di scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile>>
Ettore si spazientì:
<<Basta parlare per enigmi, Diana! A quali fatti ti riferisci?>>
Lei percepì un fondo di curiosità, dietro all'atteggiamento scettico del coniuge:
<<Michele si era messo in testa l'idea che Silvia si sarebbe fidanzata con suo figlio, che lui considera letteralmente il "massimo">>
Ettore sorrise:
<<E' una sua debolezza, lo riconosco. Ma gli ho risposto per rime!>>
Diana si irritò per la mancanza di tatto del marito:
<<Sarebbe bastato fargli notare che Silvia non era interessata a Massimo. Tu invece hai trattato Michele come un servo e lo hai offeso. "Sei il mio miglior servitore, Michele, ma un uomo non può dare in sposa la propria erede al figlio di un servitore!". Lo hai umiliato...>>
Lui mantenne un'aria divertita:
<<Non dirmi che adesso Michele Braghiri ti sta simpatico!>>
Lei scosse il capo con decisione:
<<Tu sai come la penso sul suo conto. E' un uomo pericoloso, soprattutto quando si sente offeso. E stavolta hai offeso anche Massimo, che a mio parere è ancor più pericoloso di suo padre>>
Ettore scrollò le spalle:
<<Oh, avanti, Diana, non essere ridicola. Michele non ha nulla da guadagnarci a mettersi contro di me. E Massimo è solo un ragazzo!>>
Diana gli puntò un indice contro:
<<Un ragazzo? Ma se ha ventiquattro anni! E' laureato in matematica, sta preparando il concorso per l'insegnamento. Io non ho potuto studiare, ma, a differenza tua, non sottovaluto i laureati, specie quelli con 110 e lode>>
<<E come avrebbe fatto a causare lo scandalo di Anna e Adriano?>>
<<Ma è ovvio! Chi ci ha portato in casa il Sommo Poeta? La Signorina De Toschi... la stessa che ha un'adorazione particolare per Massimo e altrettanti motivi per provare invidia e rancore nei nostri confronti, e in particolare nei confronti di nostra figlia>>
Ettore non si scompose:
<<Le tue manie di persecuzione si sono aggravate. Tu hai bisogno di andare da un medico... uno bravo, come si suol dire>>
Lei sorrise:
<<E allora dimmi chi è stato a uccidere mia sorella e mio fratello, e a far fuori Federico. L'ispettore e il giudice hanno insabbiato tutto, per fare un favore a te. E in tutti questi anni non ti sei mai chiesto niente, non hai mai voluto fare chiarezza, non ti sei mai interessato di nulla, come se tutto questo non ti riguardasse>>
Ettore si incupì:
<<Ma cosa potevo fare? Sollevare un polverone che ci avrebbe screditato agli occhi di tutto il mondo? Se fosse stato reso pubblico che si era trattato di omicidio, tutti avrebbero puntato il dito contro di me, come tu stai facendo ora.
Certo, io ho tratto, seppur indirettamente, un vantaggio da quelle morti, ma non sono il mandante. Forse qualche mio collaboratore ha voluto agire da solo, nell'ombra. 
Dubito che sia Michele, è troppo pavido per questo tipo di cose.
Ma una cosa è certa: io sono innocente.
La mia unica colpa è di essermi illuso nei tuoi confronti. 
Credevo che noi due, insieme, avremmo potuto vincere>>
Colpita da quelle parole che mettevano in luce tutta l'amarezza per ciò che il loro matrimonio non era stato, Diana non ebbe il coraggio di ricordargli che la loro unione era avvenuta in circostanze infauste.
<<Possiamo ancora vincere, anzi dobbiamo vincere, per la nostra famiglia. Le nostre figlie, i nostri nipoti e tutti coloro che verranno. E' per questo che ti sto consigliando di prendere sul serio i miei avvertimenti. Sono in tanti che vorrebbero vedere la nostra famiglia nel fango, per poi impedirle di rialzarsi...>>
Ettore la fermò, sollevando una mano:
<<Non c'è mai stato un "noi". Quando tu parli della famiglia, pensi ancora agli Orsini di Casemurate. Io sono stato soltanto un principe consorte>>
Diana scosse il capo:
<<Ma cosa stai dicendo? E' tutto di tua proprietà. Sei il padrone indiscusso da trent'anni!>>
Lui divenne ancora più cupo:
<<Tutti mi guardano come un usurpatore, una calamità temporanea da sopportare prima che tutto torni di nuovo nelle mani dei gentiluomini. Per questo avrei voluto il figlio maschio. Lui almeno avrebbe continuato la mia stirpe e il mio cognome. E invece tutto sarà diviso tra le nostre figlie e andrà a ingrandire i feudi dei loro mariti. E di me non resterà traccia, mentre tutti ricorderanno per sempre il nome degli Orsini, che governarono queste terre dal 1278, quando i Papi della loro nobile stirpe li mandarono qui per la prima volta. Vedi che conosco la storia? Ho imparato molte cose, in questi anni, mentre tu te ne stavi rinchiusa nella tua stanza a leggere romanzi inutili>>
Sarebbe stato inutile spiegargli che leggere era l'unica attività umana che, dal punto di vista di Diana, poteva inseguire l'infinito oltre i limiti angusti nei quali era costretta a vivere.
Ettore non poteva capirlo, ed era inutile rimproverarlo per questo: aveva altre doti.
Ma riguardo alla questione della famiglia Braghiri, Diana non voleva darsi per vinta:
<<Massimo e Michele vanno allontanati, prima che possano combinare altri danni>>
Ettore stava esaurendo la sua riserva di pazienza:
<<E cosa mai potrebbero fare, senza rischiare di essere scoperti?>>
Diana ci aveva pensato a lungo:
<<Potrebbero trovare qualcosa per ricattarti. Michele sa fin troppe cose sui tuoi affari. Potrebbe aver architettato un piano per far ricadere su di te le proprie colpe>>
Questa osservazione riuscì a far breccia su Ettore:
<<Potrebbe, ma anche se fosse, io non potrei certo obbligare Silvia a sposare Massimo. I tempi stanno cambiando>>
Diana annuì:
<<Oh sì, stanno decisamente cambiando. Ma non è questo il punto. I Braghiri vogliono vendicarsi: a loro importa rovinarti, e di conseguenza rovinare anche me e Silvia, che viviamo ancora qui a Villa Orsini>>
Lui non si scompose:
<<Il giudice De Gubernatis, nostro cognato, controlla le indagini preliminari su tutta la Contea di Casemurate di Forlì, e nessuno potrà smuoverlo da quell'incarico, fintanto che godrà della protezione dell'altro nostro cognato, il senatore Baroni, che è anche membro laico del CSM>>
Diana scosse il capo:
<<Il potere dei cognati non durerà in eterno. Siamo rimasti intrappolati in un gioco più grande di noi>>
Ettore accennò un sorriso di compiacimento:
<<Mi fa piacere che tu parli al plurale. Perché anche il tuo silenzio ti rende mia complice e credo che tu lo sappia>>
Lei gli rivolse uno sguardo infuriato:
<<Sei un vigliacco!>>
<<Oh, avanti, Diana, non essere melodrammatica!
E' tutto sotto controllo: la nostra rete di clientele durerà abbastanza per darmi il tempo di mettere tutto in ordine agli occhi della legge.
E comunque devi tenere conto di un altro fatto assolutamente indiscutibile: se cadessimo noi, cadrebbero anche i nostri eventuali nemici. 
Massimo potrà anche rendersi autonomo da noi, ma i suoi genitori non troverebbero un lavoro così ben remunerato e prestigioso come quello che hanno qui.
Se il Feudo Orsini dovesse cadere in rovina, trascinerebbe con sé anche loro nel fango.
Non conviene a nessuno di loro accusarmi: sarebbe come se si tagliassero la mano destra con la sinistra.
E dunque credo che l'unico modo per controllare le azioni di Michele e Massimo sia proprio tenerli legati a noi e al nostro destino. 
Non dobbiamo allontanarli, ma vincolarli ancora più strettamente>>
Diana si rese conto che quell'osservazione aveva un senso, ma non le piacquero per niente le implicazioni che ne derivavano:
<<E cosa vorresti fare, allora?>>
Ettore sorrise:
<<Sei proprio sicura che Silvia non sia interessata a Massimo?>>
<<Sicurissima! Ma cosa ti salta in mente? Prima dici che i tempi sono cambiati, e poi vorresti condannare Silvia alla stessa infelicità a cui io sono stata costretta?>>
Lui si incupì:
<<Alla fine si ritorna sempre a questo punto. Ma questa volta, dato che sei stata tu a incominciare il discorso, devi lasciarmi il diritto di replicare in tutta sincerità!>>
Lei sospirò:
<<La sincerità non implica necessariamente la verità di ciò di cui si parla. Ma comunque, se proprio insisti, dimmi pure...>>
Lui si mise una mano tra gli occhi, come per nascondere un dolore profondo, nascosto per un tempo lunghissimo.
<<Tu sei sempre stata accecata dal pregiudizio nei miei confronti, perché io non appartenevo al tuo ceto sociale...>>
<<Ma non dire sciocchezze!>>
<<... e dal fatto che non rispondevo ai tuoi canoni di perfezione estetica...>>
<<Io non sono una donna superficiale e lo sai benissimo!>>
<<... e dalla rozzezza e ignoranza che io mostravo da giovane>>
<<A questo hai posto rimedio grazie ai miei consigli, a riprova del fatto che ti ritenevo intelligente e pronto ad apprendere>>
<<Parli come mia madre, ma almeno lei ha sempre creduto in me. Tu invece mi hai sopportato soltanto per il bene superiore della famiglia, per tutelare "l'onore degli Orsini". 
Ma quel cognome si estinguerà con te, mentre il mio denaro durerà per almeno altre due generazioni, e i nostri nipoti ringrazieranno me!>>
Diana scattò in piedi:
<<E il mio sacrificio? Credi che non lo terranno in considerazione? Le nostre stesse figlie guardano a me come una martire. Tanto più lo faranno i nostri nipoti, quando capiranno che cosa ho dovuto sopportare per colpa tua.
Sono venuta qui con le migliori intenzioni, ma sono stata un'ingenua. 
Però ti avverto: non coinvolgere Silvia nelle tue trame! Lei è l'unica che può liberarsi dalla ragnatela che ci hai tessuto intorno, e io la difenderò con le unghie e con i denti, finché avrò vita. Ti ho avvertito>>
Ettore parve sorpreso:
<<Se pensi che io possa minacciare di diseredarla, voglio tranquillizzarti. Avrà la sua parte.
Io sono un grande uomo d'affari e nessuno resterà a bocca asciutta>>
Diana, ormai sulla porta, sorrise amaramente:
<<Oh, non ne dubito. Si può essere un grande uomo d'affari anche essendo un pessimo marito e un cattivo padre>>











sabato 1 febbraio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 49. Il Sommo Poeta e l'eterogenesi dei fini.

Adriano Trombatore proveniva da una famiglia che egli stesso definiva "piccolo-borghese", con un misto di disprezzo e falsa modestia. 
Il genitori erano insegnanti elementari, ("due maestrini da Libro Cuore", diceva lui, con un sorriso di condiscendenza), e idolatravano, non ricambiati, quel figlio che aveva dimostrato fin da bambino "eccezionali doti letterarie, e non solo", come avrebbe certificato la Signorina De Toschi in persona, sua docente di latino e greco al Liceo Classico.
La stima che l'onnipotente e ninfomane Grande Mademoiselle dimostrava nei confronti del giovane Trombatore era corroborata da un elemento che entrambi condividevano, ossia una spiccata tendenza allo scrocco ai danni della famiglia Ricci-Orsini, di cui la De Toschi si sentiva la guida morale.
La Signorina aveva lasciato intendere al suo allievo prediletto che, una volta diplomatosi, lei gli avrebbe aperto la strada verso il "bel mondo", "l'alta società", la "crème de la crème", a patto, naturalmente, che lui le concedesse qualche notte di infuocata passione amorosa.
Adriano Trombatore, che a detta di molti aveva una certa predisposizione al priapismo, oltre ad essere dotato di uno stomaco molto robusto, seppe soddisfare con successo le considerevoli brame della "Grande Mademoiselle".
Fu per questo che la Signorina, dietro suggerimento del perfido Massimo Braghiri, lo scelse come candidato ideale per insidiare la virtù di Silvia Ricci-Orsini e lo introdusse come ospite fisso ai ricevimenti dell'anziana Contessa Vedova Emilia a Villa Orsini.
La Grande Mademoiselle non aveva però tenuto conto che i gusti di Silvia erano opposti ai suoi, in fatto di uomini.
Quelle che, nell'ottica della De Toschi, erano qualità, dal punto di vista di Silvia erano difetti.
Adriano Trmbatore era piuttosto massiccio, con sguardo vagamente porcino e libinoso. Fumatore accanito, ottima forchetta, nonché bevitore da competizione (lui e la Contessa Madre Emilia facevano a gara a chi si scolava più Rosso di Borgogna nell'arco di un'ora), Adriano Trombatore non era proprio bellissimo, nemmeno nell'accezione più anticonvenzionale del termine, anzi, si può dire che fosse decisamente brutto, eppure aveva uno straordinario successo con le donne.
Era un seduttore, uno di quegli uomini con una personalità così sicura di sé, e in più con "doti nascoste" di leggendaria e sproporzionata eccezionalità da fargli guadagnare la fama di novello Casanova.
E non era tutto.
Trombatore aveva altre considerevoli frecce al proprio arco: una voce da baritono, suadente e lapidaria con cui decantava i versi poetici da lui stesso composti; una cultura letteraria strategicamente organizzata in modo da far credere che conoscesse tutto Dante a memoria; un uso sapiente del silenzio e del corruccio, come se, in ogni istante della sua vita, egli meditasse sui misteri dell'universo, sopportandone il peso.
La sua conversazione era brillante, anche se non si capiva mai quando stesse parlando sul serio o quando volesse fare dell'ironia, tanto che molte persone scoprivano soltanto a distanza di giorni che gli elogi a loro rivolti dal Sommo Poeta erano in realtà delle spietate stroncature.
Le sue pose dannunziane unite al gusto dei vini pregiati gli avevano assicurato la benevolenza della Contessa Vedova, la quale lo invitava con sempre maggiore frequenza ai propri eventi mondani.
Ma queste gentilezze furono mal ricompensate.
Trombatore rimase sconvolto dal fasto della Villa, dal lusso spropositato in cui vivevano i componenti del clan Ricci-Orsini, e per lui fu amore a prima vista: amore per quel mondo, per quel fasto, e solo in un secondo tempo, e incidentalmente, per le donne che ne facevano parte.
Del resto le più belle e interessanti gli erano state precluse fin dall'inizio.
Margherita e Isabella Ricci-Orsini erano entrambe coniugate.
Rimaneva Silvia, come già previsto dai piani di Massimo Braghiri.
Ma, con grande disappunto e delusione del giovane Braghiri e della Signorina, i piani andarono molto diversamente da quanto previsto, producendo addirittura un effetto collaterale i cui danni permanenti avrebbero tormentato la vita del Sommo per tutti i decenni a venire.
Silvia infatti non era minimamente interessata ad Adriano Trmbatore, il quale, dopo aver ripetutamente e inutilmente tentato di corteggiarla a suon di versi d'amore scopiazzati dal Petrarca, ci provò con le gemelle De Gubernatis, figlie di Ginevra Orsini.
Tornò alla carica con "Chiare, fresche e dolci acque" con una delle due, a caso.
Elisabetta De Gubernatis non abboccò: lei aveva occhi solo per Massimo Braghiri, anche se quest'ultimo la considerava soltanto un ripiego.
Il Trombatore, sconcertato da quella serie di fallimenti, decise, non foss'altro che per dare sollievo al proprio ego ferito,  di puntare tutto sull'altra gemella, Anna De Gubernatis, alla quale recitò alcuni notissimi versi di Dante, che considerava un suo pari : "Tanto gentile e tanto onesta pare..."
Questa volta, disgraziatamente, ebbe successo: Anna De Gubernatis si innamorò di lui e decretò così, nel contempo, la propria rovina e la salvezza di sua cugina Silvia.
Inizialmente il Trombatore e la sua vittima tennero segreta la loro relazione.
Quando ricominciò il semestre, a Bologna, frequentarono insieme le lezioni di Lettere Classiche e prepararono insieme gli esami. Lo studio era però soltanto una copertura: in realtà i due ci davano sotto con altre attività più sollazzevoli.
Era l'ultimo anno di università, e stavano preparavando la tesi.
Entrambi avevano scelto come argomento la poesia d'amore latina: Adriano aveva optato per Catullo, Anna, con un "notevole" sforzo di fantasia, per Tibullo.
Normalmente la giovane De Gubernatis si faceva aiutare dalla cugina Silvia, ma c'erano dei passaggi in cui solo la grande perizia estetica del Sommo Poeta Trombatore poteva dare quel "tocco di classe" che era necessario.
Fu così che, in un pomeriggio fatale, verso la fine del 1966, Anna e Adriano correggevano insieme la tesi di lei e tra un verso e l'altro, tra un caffè e una sigaretta, scivolarono ben presto in una situazione alla Paolo e Francesca.
Lui, che aveva continuato a scrivere poesie e a declamare i suoi versi in pubbliche letture, le leggeva per diletto una lirica di sua creazione, a lei dedicata, che iniziava con l'espressione "Baluginii nei tuoi occhi".
Bastò questo perché lei si infiammare di passione e dimenticasse di usare le solite precauzioni.
Galeotta fu la poesia e chi la scrisse e “quel giorno più non vi lessero avante”.
Un mese dopo Anna non ebbe il ciclo.
Due mesi dopo ebbe la certezza di essere incinta.
Nessuno dei due aveva il coraggio di dirlo alle rispettive famiglie.
Fuggirono dal collegio di Bologna la sera stessa, portandosi dietro i soldi e i gioielli delle compagne di stanza di Anna e cioè la sorella Elisabetta e la cugina Silvia.
Pernottarono in un albergo a Firenze e il giorno dopo partirono per Roma.
Lì vissero per due settimane in un bilocale scalcagnato di Trastevere, abbandonandosi alla passione più sfrenata, poi, finiti i soldi e l’idillio, se ne tornarono a Bologna a coda bassa, coperti d'infamia e di ridicolo.
Le conseguenze furono ovvie ed inevitabili.
Trovarono ad attenderli lo "Stato Maggiore" del clan Ricci-Orsini-Papisco.
C'erano Ettore Ricci,  Diana Orsini, il giudice De Gubernatis, sua moglie Ginevra Orsini, la vecchia Contessa Madre Emilia e, naturalmente, la Signorina De Toschi, infuriata per il fatto che quell'idiota del "Sommo Poeta" aveva rovinato la reputazione della ragazza sbagliata, mandando all'aria il piano che aveva ordito con Massimo Braghiri.
Seguì un interrogatorio in stile Gestapo.
Pressata dalle insistenti domande della Signorina, alla fine Anna ammise, in lacrime:
<<C'è un bambino in viaggio>>
Era troppo persino per la De Toschi.
La Signorina Mariuccia, schiumante di rabbia, prese Adriano Trombatore per la collottola:
<<Lurido traditore! Viscido verme! Dopo tutto quello che ho fatto per téeee! Depravato! Disgraziato! Smidollato! Se fosse ancora vivo il mi' babbo, te la farebbe vedere lui!>>
Trombatore era confuso:
<<Ma io ho soltanto...>>
<<Zitto, pezzo d'idiota! E ascoltami bene!>> tuonò la De Toschi, e dopo essersi soffiata il naso e aver aspirato profondamente la sigaretta, dichiarò <<Certo noi avevamo ben altre aspirazioni per la nostra Anna, ma ormai il danno è fatto e si impone un matrimonio riparatore>>
Nella stanza cadde il silenzio.
Ginevra, la madre di Anna, che non pareva entusiasta di avere Trombatore come genero, avanzò timidamente una proposta:
<<E se... come dire... trovassimo un modo per interrompere la..?>>
La De Toschi, cattolica integralista, strabuzzò gli enormi occhi da batrace:
<<Nooooo! Nooooo!>> tuonò scuotendo il testone, con le guance flaccide che tremavano, così come il triplo mento <<Mai! Non permetterò mai una cosa simile! Su di me si potrà dire tutto, ma una sola cosa è assolutamente certa: io so' cattolica!>>
La vecchia Contessa Madre Emilia, che era già al quarto bicchiere di gin-tonic, e nel suo delirio alcolico aveva intuito più di tutti gli altri che era meglio non inimicarsi la De Toschi, approvò:
<<La Signorina ha ragione. In casi come questo, io l'ho sempre detto, non c'è che la Signorina, e la famiglia Orsini si è sempre attenuta ai suoi consigli e continuerà a farlo>>
Addolcita da quel riconoscimento ufficiale, la Grande Mademoiselle sorrise in un modo che la fece assomigliare all'orripilante Regina di Cuori in Alice nel Paese delle Meraviglie di Walt Disney, da poco passato a miglior vita ("Da oggi il mondo è più povero", era stato il memorabile commento di Ronald Reagan, all'epoca Governatore della California).
La sua voce della Signorina tornò ipocritamente carezzevole:
<<Dobbiamo trovare un'adeguata sistemazione per questi due ragazzi. In fondo manca poco alla laurea. E' bene che si sposino il prima possibile>>
A quel punto, tutti gli occhi si rivolsero in direzione della capofamiglia.
Diana Orsini, pur nutrendo un istintivo disprezzo per il "Sommo Poeta" Trombatore, non poté fare a meno di notare che Anna lo amava.
Si rivolse dunque alla nipote per averne conferma:
<<Sei d'accordo, Anna? Pensaci bene, prima di rispondere>>
Ma la giovane De Gubernatis non ci pensò neanche mezzo secondo:
<<Sì, voglio sposare Adriano>>
Diana allora fissò sua sorella Ginevra e il giudice De Gubernatis, i quali, loro malgrado, chinarono il capo in segno di assenso.
Poi posò lo sguardo, con aria severissima, sul Trombatore, il quale aveva la faccia di chi ha appena ascoltato un verdetto di condanna a morte.
<<Adriano>> disse infine Diana <<noi ti accogliamo in questa famiglia, il che comporta molti obblighi. Se li rispetterai, ne sarai ricompensato, ma se farai soffrire la figlia di mia sorella, la mia collera ricadrà su di te, come se avessi fatto soffrire una delle mie stesse figlie>>
C'era qualcosa di tristemente profetico nelle parole della Contessa di Casemurate, e certamente non ci voleva il dono della precognizione per capire che la debolezza del "Sommo Poeta" nei riguardo del gentil sesso non sarebbe stata certo cancellata dal "sacro vincolo del matrimonio".
Rimaneva da ascoltare il parere di colui che, pur essendo il reale padrone di tutto e il marito di Diana, veniva ancora inconsciamente considerato come un trovatello ammesso per un atto di carità al nobile desco degli Orsini, ossia Ettore Ricci, per il quale i matrimoni servivano solo ad accrescere il suo potere e a tutelare i suoi affari.
Evidentemente il mondo poetico-letterario non rientrava tra quelli con cui Ettore sentiva il bisogno di stringere legami, pertanto, pur non ritenendo necessario opporre un veto a quelle nozze, grugnì qualcosa riguardo a "quel covo di comunisti " che era la famiglia Trombatore e sul fatto che lui personalmente non voleva averci nulla a che fare.
Ma in fondo nemmeno lui voleva un ennesimo scandalo, non fosse altro che per evitare che la gente tornasse a parlare dei precedenti, e ben più gravi, che non avevano certo giovato alla sua stessa reputazione.
E così la decisione fu presa, e uno dei più fallimentari matrimoni del secolo ebbe inizio.
Diana, che pure era stata severa nei confronti di Adriano, non poté comunque fare a meno di provare una certa compassione nei suoi confronti.
Il Sommo Poeta, infatti, aveva immaginato per sé una vita ben diversa, come i poeti maledetti parigini, un'esistenza fatta di genio e sregolatezza, di Bohème a Montparnasse, di viaggi alla Hemingway, di contestazione, di oratoria politica, ma soprattutto di Bacco, Tabacco e Venere fino all'ultimo respiro.
Si ritrovava invece incastrato in una situazione che, giorno dopo giorno, avrebbe assunto sempre di più, ai suoi occhi, i contorni di un incubo.
Tornato a Forlì dopo la laurea e in attesa di un posto da insegnante procuratogli per raccomandazione dalla Signorina De Toschi, visse per un po' di tempo facendo lezioni private di letteratura italiana agli studenti privati di latino e greco della stessa De Toschi.
Nel frattempo gli Orsini trovarono un appartamento adatto alle sue esigenze, con tanto di biblioteca e studio dove comporre le proprie creazioni.
Nella primavera del 1967, il Sommo Poeta ed Anna De Gubernatis si sposarono, come imponeva la tradizione della famiglia di lei (o per meglio dire "della madre di lei") nella Chiesa di Casemurate, alla presenza di Ettore Ricci e Diana Orsini, che, pur non parlandosi, guidavano con il pugno di ferro in guanto di velluto ciò che restava della Dinastia.
Il figlio dei novelli coniugi Trombatore nacque pochi mesi dopo (troppo pochi per l'opinione pubblica) e gli fu dato il nome di Matteo.
Quel matrimonio aveva sancito il ritorno della Signorina De Toschi al suo ruolo di "vertice morale e spirituale del clan Ricci-Orsini", e la Grande Mademoiselle volle trasformare questa sua vittoria in autentico trionfo. Fu così che, raggiunto il limite massimo dell'età pensionabile, fece in modo, tramite una consolidata ragnatela di conoscenze, che il suo successore alla cattedra di Italiano, Latino e Greco al Liceo Classico di Forlì fosse proprio il Sommo Poeta.
Certo, per Adriano Trombatore il Liceo di Forlì non era la Sorbona di Parigi, né tantomeno la Boheme che aveva sognato, ma in fin dei conti, come aveva detto Giulio Cesare, era comunque meglio essere i primi in un villaggio che i secondi a Roma.
Chi ne usciva totalmente scornato e ancora più rabbioso era invece Massimo Braghiri, che non aveva ottenuto lo scopo di scalfire la reputazione di Silvia Ricci-Orsini e aveva perso anche la preziosa alleanza della De Toschi, la quale, prima di liquidarlo, gli consigliò di non disdegnare troppo a lungo le attenzioni della gemella di Anna, ossia Elisabetta De Gubernatis.
L'eterogenesi dei fini aveva fatto sì che tutte le sottigliezze della strategia di Massimo, invece di favorire il suo sogno di fidanzarsi con Silvia, aveva aumentato notevolmente le probabilità di dover ripiegare su Elisabetta, avendo oltre tutto come cognato lo stesso individuo che avrebbe dovuto recar disonore al "buon nome dei Ricci-Orsini".
A consolarlo ci pensò sua madre, la governante Ida Braghiri, i cui propositi di vendetta e rivalsa non erano mai stati più saldi. Prese le mani del suo adorato figlio e gli disse che comunque l'opinione della gente riguardo ai loro datori di lavoro non era affatto migliorata, anzi:
<<I Ricci-Orsini? La loro storia si riassume in cinque parole: "uno scandalo dietro l'altro">>

martedì 28 gennaio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 48. Strategia di una vendetta

Silvia Ricci-Orsini era la più irreprensibile e inaccessibile delle figlie dell'imprenditore Ettore Ricci e della sua aristocratica consorte, Diana Orsini, Contessa di Casemurate.
I successi universitari di Silvia, alla facoltà di Lettere Classiche dell'Università di Bologna, davano fastidio a diverse persone, le quali, per ragioni molto diverse tra loro, non aspettavano altro che quell' "astro nascente" fosse oscurato da una qualche nube e che la sua immacolata reputazione fosse quantomeno lambita da un consistente schizzo di fango.
In particolare ce l'avevano con lei due persone che gravitavano all'interno dello stesso clan Ricci-Orsini.
In primis c'era l'attempata, corpulenta e catarrosa Mariuccia De Toschi, detta, per antonomasia, "la Signorina" o anche, alla francese "La Grande Mademoiselle" (come Anna Maria Luisa d'Orléans, Duchessa di Montpensier, nubile cugina del Re Sole).
La nostra Signorina era invece cugina del nonno materno di Silvia, il defunto conte Achille Orsini, alla cui mangiatoia tutta la famiglia De Toschi aveva copiosamente attinto senza mai ringraziare.

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Ma ora la Signorina si sentiva "messa da parte e snobbata da Diana e dalle sue figlie, dopo tutto quello che ho fatto per loro" (e cioè solo disastri).
In secondo luogo, e con maggiore astio e sete di vendetta, c'era il giovane Massimo Braghiri, studente di matematica, figlio prediletto della governante di Villa Orsini, la signora Ida e del suo spregiudicato marito Michele, amministratore delegato del Feudo Orsini e, all'insaputa di tutti (tranne sua moglie e suo figlio), duplice omicida.
Ma a differenza di suo padre, Massimo Braghiri preferiva, più che altro per una questione di finezza, metodi meno brutali per vendicarsi dei torti subiti.
Il torto più importante, come sappiamo, consisteva nel rifiuto, da parte di Ettore Ricci, di concedere una delle sue tre figlie in sposa al figlio del signor Braghiri, suo braccio destro ("Sei il mio miglior servitore, Michele, ma un uomo non fa sposare la propria erede al figlio di un servitore").
Quella frase infelice rimase stampata nella mente di Michele e Massimo per il resto della loro vita, tanto da far sì che dedicassero il meglio (e il peggio) delle loro energie e del loro tempo ad escogitare una strategia di vendetta ampia e articolata, nella sua lucida follia, e destinata a provocare conseguenze gravissime e del tutto impreviste e diverse da ciò che i loro ideatori avevano pensato.
Michele aveva già i suoi piani, che Massimo conosceva, ma che, come si è detto, giudicava troppo rozzi.
Per questa ragione, il giovane Braghiri decise di rivolgersi all'unica persona che avrebbe avuto il movente, i mezzi e l'opportunità per colpire il clan Ricci-Orsini nel suo punto più glorioso e nel contempo più esposto, e cioè Silvia, l'ultima figlia ancora nubile e l'unica a vivere lontano dall'ala protettiva della famiglia.
Occorreva trovare dei punti deboli e l'unica che poteva conoscerli era la Signorina De Toschi, resa ancora più feroce da una incipiente vecchiaia, afflitta da alitosi, flatulenza e meteorismo.
Massimo sapeva agire con astuzia e cautela, dosando sapientemente adulazione, menzogna e crudeltà.
Fu così che in un cupo pomeriggio di gennaio del 1965, presso il Villino De Toschi, la Signorina si ritrovò ad ascoltare, fumando una sigaretta dietro l'altra, le insinuazioni e le falsità che il suo adorato Massimo, ex alunno e costante leccapiedi, le riferiva senza cercare di nascondere un senso di profondo disappunto, che gli tingeva di un certo livore la pelle olivastra.
<<Mi piange il cuore quando vedo che Silvia non mostra nessuna riconoscenza nei suoi confronti, Signorina. E purtroppo non si limita a questo! Non mi faccia dire quello che ho ascoltato... certe imitazioni volgari, certe battute irriferibili, meschine... no, mi si spezza il cuore solo a pensarci. Io devo tutto a Lei, Signorina, sono devoto a Lei oltre ogni limite, Lei lo sa bene...>>
La De Toschi espirava fumo dalle fauci della dentiera come un vecchio drago nel fondo della sua tana.
<<Che ingrata! Proprio come sua madre! Ma dietro a quell'aria da santarellina, scommetto che dev'essere una svergognata>>
Qui Massimo si mostrò abile nel guidare il discorso verso ciò che gli premeva:
<<Difficile scoprirlo... Ufficialmente ha rifiutato le attenzioni di tutti i corteggiatori, me compreso, con la scusa del fatto che deve studiare, ma è ovvio che il vero motivo è che non li ritiene alla sua altezza>>
La Signorina sbuffò, facendo tremolare il triplo mento, e sgranando gli enormi occhi da batrace:
<<Chissà poi chi si crede di essere!>> sbottò colei che avrebbe accettato persino un caprone come corteggiatore <<In fondo suo padre è un pidocchio rifatto! Me lo ricordo io com'era, prima di sposare mia cugina Diana! Un contadino con le unghie sporche, che si metteva le dita nel naso. E gli Orsini poi, erano sul lastrico... anzi, per dirla schietta, erano proprio con le pezze al culo!
Ricordo come se fosse ieri quando quell'ubriacona della Contessa Madre Emilia venne da me a supplicarmi di convincere Diana a sposare Ettore... e alla fine lo sposò, e lo fece per i soldi, come una comune avventuriera o arrampicatrice sociale! Che vergogna! La mia povera mamma, che era una Orsini per bene, si rivolta nella tomba, ogni volta che si sentono in giro le voci sugli scandali di quel matrimonio dove entrambi si sono fatti le corna e si sono impegolati in ogni sorta di meschinità.
Se non ci fosse stato il mi' babbo a togliergli le castagne dal fuoco, ogni volta che si sono ritrovati la polizia per casa...
Ah, tu non puoi nemmeno immaginare di cosa sono stati capaci! 
Ecco cos'è stato il matrimonio di Ettore Ricci e Diana Orsini: uno scandalo dietro l'altro!
E adesso le loro figlie si atteggiano a Principesse del Sangue Reale!>>
Massimo capì che quello era il momento di presentare la sua strategia:
<<Certo, se si scoprissero gli altarini di Silvia, magari lei e sua madre abbasserebbero un po' la cresta, e alla fine tornerebbero qui col capo cosparso di cenere>>
La Signorina ascoltò con interesse e per un attimo vide se stessa come una novella Matilde di Canossa, con Silvia nel ruolo di Enrico IV e  Massimo Braghiri, si parva licet, in quello, assai improbabile, di Gregorio VII.
<<So che lei, a Bologna, è in stanza con le cugine Anna ed Elisabetta De Gubernatis, le figlie di quell'oca giuliva di Ginevra Orsini, la sorella minore di Diana...>>
Massimo annuì:
<<Sì, le conosco... e devo dire che le suore del collegio sono molto, come dire, tolleranti, nei confronti di queste tre rampolle di buona famiglia, non so se mi spiego...>>
La Signorina capì al volo, e per l'entusiasmo rispolverò il suo finto accento toscano:
<<Cèeeeeeeeerto, cèeeeeeerto... lo conosco bene quel collegio. Ci sono stata anch'io, ai miei tempi. Naturalmente la mia virtù era superiore a tutte le tentazioni, ma la disciplina delle suore era pressoché nulla e non credo sia migliorata nel tempo... figuriamoci adesso, in questi Sessanta, con questa musica demoniaca che viene dai paesi anglosassoni... ah, se il mio povero babbo lo sapesse! O tempora o mores!>>
Massimo decise di calare il suo asso:
<<Lei conosce tutti gli studenti che ora frequentano Lettere Classiche. Nessuno potrebbe superare gli esami di greco e latino senza essere stato suo allievo, pubblico o privato.
Mi chiedevo pertanto se, tra questi giovani letterati, non ci fosse qualcuno con una certa... come dire... intraprendenza... unita a un irresistibile fascino... insomma qualcuno a cui persino Silvia Ricci-Orsini non  saprebbe resistere... perché in fondo è di questo che abbiamo bisogno: di uno scandalo... uno che faccia impallidire tutti i precedenti...>>
La Signorina sogghignò, e dalle narici emise fumo azzurro.
<<Sì... uno scandalo... è proprio quel che ci vuole. Le suore dovrebbero sorprendere lei e un amante in flagrante delicto ... 
Fammi pensare: bisogna scegliere un personaggio che sia in qualche modo compromesso, uno con una fama di tombeur des femmes.
Massì, uno ce ne sarebbe. E' una specie di poeta maledetto, il classico tipo per cui le ragazzine perdono la testa. E poi ha un nome che è tutto un programma>>
Massimo Braghiri sorrise a sua volta:
<<Come si chiama?>>
La De Toschi pronunciò quel nome scandendo con voluttuoso piacere ogni singola sillaba:
<<Adriano Trombatore, detto ironicamente "il Sommo Poeta">>.

mercoledì 22 gennaio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 47. Al mutare della marea

Guardandosi allo specchio, il giorno del suo cinquantesimo compleannoDiana Orsini, Contessa di Casemurate, constatò che il suo aspetto esteriore conservava ancora, nonostante tutto, una buona dose di fascino e carisma, ma a chi con galanteria spergiurava che che la sua immagine era ancora quella di una donna giovane, lei scuoteva il capo : <<Sono una donna di mezza età. Può anche darsi che non lo sembri del tutto, ma incomincio a sentirlo nel cuore>>
Si sentiva invecchiare dentro, ma senza essere nel contempo altrettanto maturata.
Invecchio senza crescere? E' una mia particolarità, oppure riguarda anche gli altri?
Sapeva che per poter vivere bisognava crescere, ma non era sicura di volere né l'una né l'altra cosa.
Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, ma non si fidava di nessuno.
Ogni volta che aveva aperto il suo cuore ad un'altra persona, quest'ultima si era servita delle confidenze come di un'arma di ricatto, anche con le migliori intenzioni.
Per tutta la vita gli altri hanno cercato di manovrarmi, di ammansirmi, di zittirmi, di privarmi della libertà e della dignità. Alcuni l'hanno fatto persino credendo che fosse per il mio bene.
Fino a quel momento Diana aveva reagito a questi tentativi di addomesticamento in un unico modo: ritirandosi in camera sua a leggere, e delegando agli altri tutto il resto.
Per quanto tempo riuscirò a sopportare che siano altri a decidere al mio posto? Dovrò vivere per sempre in questa clausura che mi sono auto-imposta pur di non affrontare i mille nodi irrisolti della mia vita?
Il giro di boa dei cinquant'anni era più che simbolico.
Correva l'anno 1963 ed era da poco diventata nonna.
L'arrivo del primo nipote è sempre un evento che segna uno spartiacque nella vita di una persona.
Nel caso di Diana Orsini si trattò di uno spartiacque completamente positivo, perché il rapporto che la legò ai suoi numerosi nipoti e pronipoti fu così speciale che continuò a vivere nella memoria e nell'immaginario di ognuno di loro per molto tempo, assumendo a lungo andare quei contorni mitici che erano presenti in embrione nella storia romanzesca di una famiglia a cui ci si sentiva fieri di appartenere.
Il primo nipote di Diana ed Ettore Ricci si chiamava Fabrizio Spreti, nato dal matrimonio di Margherita Ricci-Orsini con Amilcare Spreti, proprietario terriero e fratello minore del marchese Vittorio Spreti di Serachieda.
I due si erano sposati nel giugno del 1961la festa si era tenuta a Villa Spreti, molto più sfarzosa e imponente di Villa Orsini, per sancire l'alleanza tra le due nobili casate che per secoli si erano contese il controllo di Casemurate.
E così, nello stesso anno in cui cadeva il confine tra la Marca di Casemurate Est (in provincia di Ravenna) e la Contea di Casemurate Ovest (in provincia di Forlì), separate per tanti secoli dal torrentello chiamato Serachieda, veniva eretto il Muro di Berlino, di cui i casemuratensi non sapevano nulla (a parte pochi politicizzati con un minino di alfabetizzazione) e a cui, sostanzialmente, non sarebbe comunque importato nulla.
Margherita ed Amilcare andarono a vivere in una tenuta che era parte del Feudo Spreti, convalidando così, anche dal punto di vista residenziale ed economico, l'alleanza degli Spreti con i Ricci-Orsini, che si concretizzò poi con la creazione della Società in Accomandita Semplice Feudi Uniti, la cui presidenza e amministrazione fu affidata ad Ettore Ricci.
Per Ettore fu il coronamento di una scalata sociale che durava da una vita.
Diana aveva assistito al matrimonio della primogenita con un senso di liberazione.
Si chiudeva infatti un ciclo, iniziato trent'anni prima con le sue stesse nozze.
Allora si era trattato di sacrificarsi per salvare la famiglia dalla rovina economica.
Ora, dopo decenni di sofferenze, i sopravvissuti e i nuovi nati raccoglievano i frutti di quel sacrifico.
Certo, Diana era un caso a sé, dal momento che il suo primato formale in quanto Contessa di Casemurate, non aveva alleviato minimamente le sue sofferenze private, ma non poteva certo ignorare il fatto che i Ricci-Orsini fossero al centro di una rete di alleanze che estendeva la loro influenza ben oltre i confini angusti della Villa, del Feudo e della Contea.
Forse non c'era più bisogno di ricorrere alla decrepita Signorina De Toschi per ottenere una raccomandazione.
Forse...
In ogni caso, le tre figlie di Diana ed Ettore erano ormai adulte e con una loro vita.
Margherita aveva una sua propria famigliaSilvia si era laureata e Isabella si era fidanzata con un altro rampollo aristocratico, Silvio Zanetti Protonotari Campi, proprietario di ampi vigneti di Trebbiano.
Ettore era completamente assorbito dal lavoro e non si prendeva nemmeno più la briga di nascondere le sue avventure extraconiugali.
La vecchia Contessa Madre Emilia aveva trovato un suo equilibrio, passando il tempo nel Salotto Liberty ad assaporare i suoi vini pregiati e i suoi pasticcini, leggendo romanzi rosa e riviste di gossip.
Il suo rapporto con Diana era cambiato.
Ora non era più lei a rimproverare la figlia, anzi.
L'attempata Emilia aveva un certo timore di sua figlia Diana, del suo carattere imprevedibile, delle sue reazioni, di quella durezza di fondo che si era fatta strada in lei insieme al risentimento per tutte le cose che i genitori l'avevano costretta a fare.
Diana a volte provava tenerezza per quella madre resa fragile e vulnerabile dall'età, dai tanti lutti e da decenni di alcolismo.
Un giorno, in salotto, provò a riprendere un dialogo interrotto da ormai troppo tempo:
<<Mamma, tu pensi che dovrei far sentire di più la mia autorità, ad Ettore. Chiedergli di essere un po' meno tirchio con me e le ragazze, di lasciarci più libertà, di ascoltarci di più almeno sulle questioni fondamentali, come l'eccessiva fiducia che dà alla famiglia Braghiri... tu che ne pensi?>>
<<Quando tu sposasti Ettore, ti dissi, ricordo bene la frase: "ci sono momenti in cui per arrivare alla libertà bisogna passare dalla prigione". Ecco, ora credo che la fase della prigione debba avere termine>>
Diana annuì:
<<Lo credo anch'io, eppure continuo ad avere paura di lui e soprattutto della gente che gli sta attorno>>
Emilia sapeva bene che i sospetti di Diana erano fondati:
<<E' proprio per questo che, con la dovuta prudenza, devi prendere le distanze da quella gente. E se Ettore non ascolterà i tuoi consigli, forse dovrai prendere più apertamente le distanze anche da lui>>
Diana era incerta:
<<Ettore non mi ascolterà, ma non è lui il nostro nemico. E' per questo che voglio evitare una guerra.  Non per il rischio di perdere, ma per quel quello di pentirmi>>
Emilia la fissò dai suoi occhi celesti pieni di fragili capillari:
<<Pentirti di cosa?>>
Diana contemplò il proprio ritratto appeso alla parete tra due quadri di Alphonse Mucha in stile Art Nuveau.
<<Di tutto...>>
Emilia fissò invece il calice di vino che soppesava tra le mani, cercando di trarne ispirazione:
<<Come sei complicata, figlia mia. Cerchi la libertà, però in fondo mi sembra che in questi anni tu ti sia un po' innamorata del tuo carceriere>>
Diana scosse il capo:
<<Non è amore, mamma, è una questione di lealtà. 
Io e lui siamo a capo della stessa famiglia, e se vogliamo salvarla dagli sciacalli, dobbiamo trovare il modo di unire le nostre forze.
Ancora non so quale sia, concretamente, questo modo, ma sento che devo dimostrargli che sono in grado di analizzare le situazioni in modo più sottile di quanto lui faccia.
Se voglio il suo rispetto devo guadagnarmelo, e per guadagnarmelo devo modificare alcune cose della mia vita>>
<<Ne sei davvero in grado?>>
<<Non lo so, ma devo provare. Per troppo tempo sono stata "Diana la pazza" ed occorre che, per età e necessità, io diventi "Diana la saggia" e torni a rivolgermi a lui da pari a pari, ora, al mutare della marea>>


domenica 19 gennaio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 46. Le finte amiche di Silvia Ricci-Orsini

Fin da bambina, Silvia aveva dimostrato di essere piena di buone intenzioni e capace di slanci di socievolezza (che sua madre Diana Orsini, Contessa di Casemurate e donna solitaria, faticava a comprendere) e di  autentica generosità (che lasciavano interdetto suo padre Ettore Ricci, padrone del Feudo Orsini, notoriamente afflitto, come gran parte delle persone ricche, da una taccagneria patologica), e pertanto non le erano mai mancate le amicizie.
Il punto di partenza era stata la presenza di un numero consistente di ragazze della sua stessa età, o di età simile, all'interno dello stesso clan dei Ricci-Orsini.
Al centro del clan vi era poi un nucleo inscindibile, composto da Silvia e dalle sorelle Margherita e Isabella: una sorta di "triade" o di "trinità" destinata a rimanere saldamente unita e compatta, a salvaguardia dell'unità familiare nella buona e nella cattiva sorte.
E molte cause della futura cattiva sorte provenivano da personaggi che in quegli anni vivevano ancora a Villa Orsini, dividendo con i proprietari "il pane e il sale".
Si trattava, come il lettore attento ricorderà, dei componenti della famiglia Braghiri.
La governante Ida Braghiri suo marito Michele, amministratore del Feudo, avevano, oltre all'ambizioso e vanitoso figlio maschio, Massimo, due figlie: Oriana, che aveva l'età di Margherita, mentre Olimpia aveva la stessa età di Silvia.
Poi incominciava la sfilza delle cugine.
Applicando il criterio del noblesse oblige, era data più importanza alle cugine "di sangue Orsini".
Le figlie di Ginevra Orsini e del giudice De Gubernatis erano quasi una sorta di guardia del corpo, per Silvia, nel senso che stavano costantemente al suo fianco, ovunque.
Le gemelle Anna ed Elisabetta De Gubernatis erano destinate a lasciare una traccia indelebile (per lo più negativa) nella vita di Silvia e della sua futura famiglia.
Erano state sue compagne di scuola alle elementari, alle medie, al Ginnasio, al Liceo e infine si erano iscritte entrambe a Lettere Classiche, insieme a lei, a Bologna.
Delle due, Anna era quella più intraprendente, tanto che appena iniziata l'università, si trovò il ragazzo, un giovane poeta che rispondeva al nome piuttosto singolare di Adriano Trombatore (in seguito quel cognome si rivelò degno dei presagi che suscitava).
Ma i maggiori pericoli, come si vedrà in seguito, erano destinati a provenire da Elisabetta, più fredda, calcolatrice e incline al pettegolezzo, e innamorata di Massimo Braghiri, che a Bologna studiava matematica e aveva ancora altri progetti.
Infatti Massimo, che era stato rifiutato da Margherita Ricci-Orsini, aveva ripiegato su Silvia, sperando di diventare cognato dei Conti di Casemurate e magari futuro dirigente delle loro proprietà.
Silvia, che era molto rispettosa della sensibilità altrui, cercò, pur essendo irritata dall'atteggiamento narcisistico e megalomane di Massimo, di non infliggere al suo smisurato ego una ferita simile a quella già provocata dal secco rifiuto della sorella maggiore.
Fu così che accettò di uscire insieme a Massimo, a patto che ci fosse con loro anche Elisabetta De Gubernatis, intenzionata, quest'ultima, ad assumere ben presto il ruolo di primadonna.
Ma l'elenco delle finte amiche invidiose di lei era molto lungo.
C'erano infatti le innumerevoli cugine dalla parte dei Ricci.
Ognuna di loro, per quanto figlia di un notabile, invidiava il fatto che Silvia fosse figlia della Contessa del Feudo dove tutte loro erano nate e cresciute, e appartenesse alla gloriosa e antichissima famiglia Orsini, imparentata con i duchi di Bracciano e di Gravina.
La zia Caterina, le cui ambizioni erano notevoli, moglie di Edoardo Leandri, senatore democristiano, anzi "Il Senatore" per antonomasia, all'interno del clan Ricci-Orsini, aveva avuto oltre a vari figli maschi, una figlia dal carattere burrascoso e tendente all'isteria, di nome Marianna, anche lei iscritta al gruppo di Lettere Classiche, e quindi al codazzo di cugine-studentesse che tallonavano Silvia ovunque andasse, bagni compresi.
Un'altra, zia Maria Teresa Ricci e suo marito, l'ormai commissario di polizia Onofrio "Compagnia Bella" Tartaglia, avevano avuto un figlio, oltre a un figlio dal nome inquietante di Arido, altre due figlie, Luciana e Giuditta.
Arido era enorme: un armadio ambulante, di poche parole e dai modi spicci.
Luciana e Giuditta erano già molto sovrappeso nei loro anni migliori e non brillavano per acume, ma la loro ambizione era comunque sfrenata.
Luciana, diplomata all'Istituto Tecnico Femminile per l'Economia Domestica, aveva già ottenuto una cattedra di educazione tecnica alle scuole medie e aveva sposato un certo Gaspare Maciullini, appartenente a una famiglia benestante di latifondisti, che aspiravano a diventare soci della famiglia Ricci e quindi del Feudo Orsini.
L'altra sorella, Giuditta, diplomatasi alle magistrali, era coetanea di Silvia e spesso usciva con lei e le altre cugine per andare a ballare, sotto l'attenta supervisione di Ida Braghiri, che si portava dietro le proprie orrende figlie, nella speranza di trovar loro qualche buon partito.
Durante un ballo destinato a rimanere nella leggenda familiare, Giuditta fu corteggiata e contesa dai due uomini della sua vita, il futuro marito Felice Mazza e l'ingegner Nullo Nullini, il cui nome era già tutto un programma.
La contesa avvenne a suon di balli, e la tecnica di Mazza, falegname dal fisico possente e dalla voce roca, che si avvinghiava al seno debordante di Giuditta, risultò vincente, rispetto alla presa molle e indecisa di Nullo.
Fu così che il falegname, contro ogni previsione, sconfisse l'ingegnere.
Nullo e Giuditta rimasero comunque amici per tutta la vita, e le loro telefonate, in cui si scambiavano pettegolezzi su tutti i loro conoscenti, duravano ore.
Ettore Ricci, che spesso si era trovato ad essere al centro dei pettegolezzi di Nello e Giuditta, un giorno ebbe a dire, con la sua lapidaria incisività:
<<Lui è la curiosità in persona e lei è falsa come l'ottone>>
Tra i fratelli di Ettore Ricci, Oreste e Roderico, continuava ad esistere una faida, dal famoso giorno in cui si erano presi a coltellate, così come c'era una contesa insanabile tra le altre due sorelle, la zitella Adriana, fascistissima, e la democristiana Carolina, vedova del ricchissimo conte Leopoldo Gagni di Montescudo, la cui unica figlia, Anna, era un donnone dai modi spicci, che faceva fuggire ogni possibile pretendente alla sua considerevole mano.
Esaurito l'elenco delle cugine, incominciava l'esercito delle "compagne di classe", dominato dall'elite delle "compagne di banco", anch'esse poi divenute compagne di università e future insegnanti e quindi colleghe di lavoro di Silvia.
Sarebbe troppo lungo e del tutto inutile farne l'elenco: parleremo in seguito di quelle false amiche che tra invidia ed ambizione roteavano come avvoltoi intorno a Silvia e alla sua famiglia, pronte a fare di esse la loro preda, al primo segnale di debolezza.
Ma dovettero aspettare a lungo, perché per molto tempo Silvia agì con estrema prudenza, e anche quando commise quello che in prospettiva era destinato a diventare il seme della sua rovina, dovettero passare decenni, prima che quel seme facesse germogliare fiori malati e frutti marci.
Per il momento basti dire che da questa prima panoramica è possibile farsi un'idea dell'intelaiatura di base di quello che sarebbe diventato il Salotto Buono più esclusivo di Forlì, fondato da Silvia Ricci-Orsini dopo aver sposato un uomo che all'epoca non conosceva, ma che è una nostra vecchia conoscenza: il ribelle studente e futuro geniale professore Francesco Monterovere.