venerdì 27 gennaio 2017

L'Angelus di J.F. Millet

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L'Angelus (L'Angélus) è un dipinto a olio su tela (55x66 cm) di Jean-François Millet, realizzato nel 1858-1859 e conservato nel Museo d'Orsay di Parigi.
L'opera, una delle più note di Millet, raffigura una coppia di contadini che interrompono il duro lavoro dei campi al suono delle campane che annunciano l'Angelus, mostrati nella loro devozione, intenti nella preghiera.
«Angelus» (per esteso Angelus Domini) è il nome dato al rintocco delle campane che, tre volte al giorno, invitano i fedeli a recitare una devozione in ricordo del mistero perenne dell'Incarnazione.[1] È, per l'appunto, quello che stanno facendo i due contadini ritratti nel dipinto, che al suono delle campane della chiesa di Chailly-en-Bière, appena accennata sullo sfondo, hanno sospeso per un attimo la raccolta delle patate e si sono raccolti silenziosamente in preghiera; abbandonati gli strumenti di lavoro (la carriola con i sacchi sopra, il rastrello, il cesto pieno di verdure), entrambi sono completamente assorti nell'orazione, tanto che presentano il capo chino e le mani giunte al petto.[2]
Mostrandosi assai sensibile all'influenza di Jean-Baptiste-Siméon Chardin e dei maestri olandesi del Seicento, il pennello di Millet ricolma L'Angelus di una solennità grave seppure sommessa, resa con la monumentalità dei due contadini (disegnati con un tratto vigoroso e sintetico), l'immobilità assorta di questi ultimi, la visione dal basso e la sapiente sintesi delle forme.[2]
In alto a destra, infine, vola lontanissimo uno stormo di rondini: la presenza dei volatili, ai margini del quadro, e l'abbigliamento dei due agricoltori suggeriscono che la scena è ambientata in una stagione calda, presumibilmente estate o primavera.[3]

Storia del dipinto


Jean-François Millet, Le spigolatrici (1857); olio su tela, 83.5 × 110 cm, Museo d'Orsay
Commissionata dal magnate americano Thomas G. Appleton, L'Angelus attinge da uno spunto ispiratore decisamente autobiografico. All'origine del dipinto, infatti, non vi è un lavoro en plein air, bensì un ricordo di Millet della sua infanzia in Normandia:
(FR)
« L'Angélus est un tableau que j'ai fait en pensant comment, en travaillant autrefois dans les champs, ma grand-mère ne manquait pas, en entendant sonner la cloche, de nous faire arrêter notre besogne pour dire l'angélus pour ces pauvres morts »
(IT)
« L'Angelus è un quadro che ho dipinto ricordando i tempi in cui lavoravamo nei campi e mia nonna, ogni volta che sentiva il rintocco della campana, ci faceva smettere per recitare l'angelus in memoria dei poveri defunti »
(Jean-François Millet, 1865[4])
Lo scopo dell'artista, dunque, non era quello di esaltare un qualsivoglia impulso religioso (egli non era neanche un praticante), bensì di illustrare con la pittura le fasi che segnano periodicamente lo scorrere della vita agreste, scegliendo di raffigurare il momento del riposo. In ogni caso, il dipinto - inizialmente intitolato Preghiera per il raccolto di patate - venne esposto al pubblico per la prima volta nel 1865; ottenne uno sfolgorante successo nell'Ottocento borghese, che preferiva i suoi toni idilliaci ed arcadici rispetto al contenuto apertamente polemico di altre opere realiste, quali Le spigolatrici dello stesso Millet o Gli spaccapietre di Courbet.[5] Dopo la morte di Millet, nel 1875, L'Angelus fu venduto a diversi collezionisti, fino a quando non fu riacquistato dallo Stato francese per un prezzo di 800 000 franchi in oro.
Nel 1910 L'Angelus entrò a far parte delle collezioni del museo del Louvre, che già tentò di acquistarlo nel 1889; dopo esser stato sfregiato da un folle nel 1932, nel 1986 il dipinto è stato trasferito nel museo d'Orsay, dov'è tuttora esposto.

Retaggio


Vincent van GoghL'Angelus (1880, copia da Millet); disegno a matita, gessetto e acquarello, 47 x 62 cm, Museo Kröller-Müller, Otterlo
L'Angelus ha rappresentato un riferimento iconografico imprescindibile per moltissimi grandi artisti dell'Ottocento e del Novecento, primi tra tutti Vincent van Gogh e Salvador Dalì.

L'Angelus di Van Gogh

Van Gogh guardò l'opera con notevole interesse, tanto che la riprodusse in un disegno realizzato a matita, acquerello e gessetto degli esordi, denominato per l'appunto L'Angelus. Il giovane Vincent qui si cimentò in ardite contaminazioni, che rivelano un'intensa forza espressiva ed un tratto energico che diventeranno poi peculiari delle tele della sua maturità.[6]

L'ossessione di Salvador Dalì

Se per Van Gogh L'Angelus è stato un riferimento per ragioni puntualmente raffigurative, lo stesso non si può dire per il surrealista spagnolo Salvador Dalì. Esposto al dipinto sin dalla fanciullezza - una copia dell'Angelus era appesa in una parete della sua scuola elementare[7] - Dalì ne rimase talmente incantato da farne l'oggetto di una febbrile indagine. Al quadro di Millet egli dedicò addirittura un libro, Il tragico mito dell'Angelus di Millet, dove scrisse:[8]

Salvador Dalì fece dell'Angelus un vero e proprio oggetto di venerazione
« Nel giugno 1932 si presenta d'improvviso al mio spirito, senza che alcun ricordo recente né associazione cosciente possa darne un'immediata spiegazione, l'immagine dell'Angelus di Millet. Tale immagine costituisce una rappresentazione visiva nettissima e a colori. È pressoché istantanea e non dà seguito ad altre immagini. Ne sono grandemente impressionato, grandemente turbato, poiché, nonostante che nella mia visione di tale immagine tutto "corrisponda" esattamente alle riproduzioni del quadro da me conosciute, essa "mi appare" nondimeno assolutamente modificata e carica di una tale intenzionalità latente che l''Angelus di Millet diventa "d'improvviso" per me l'opera pittorica più inquietante, più enigmatica, più densa, più ricca di pensieri inconsci che sia mai esistita »
In questo libro Dalì espresse la propria tesi secondo cui l'opera non raffigurava affatto un momento di preghiera serale, bensì la veglia sulla bara di un bambino. Questa transizione da «quadro idillico e religioso [a] un'inquietante e perversa scena d'infanticidio»,[9] a giudizio di Dalì, è avallata dalla presenza in sottotraccia di una piccola bara, poi eliminata in seguito a un pentimento in corso d'opera. Per suffragare la propria tesi, nel 1963 egli chiese ed ottenne un'analisi ai raggi X dell'opera presso il Louvre, da cui emerse la presenza sottostante di una figura rettangolare più volte ricoperta dal colore, che effettivamente somiglia alla bara di un piccolo defunto. Entusiasta della scoperta, Dalì realizzò anche diverse opere sul tema dell'Angelus; malgrado ciò, col succedersi degli anni la sua idea godette sempre di più di cattiva fama, fino ad essere considerata soltanto una delle sue vivide suggestioni.[10]

Note

  1. ^ angelus, in Vocabolario on line, Treccani. URL consultato il 28 giugno 2016.
  2. ^ a b A. Cocchi, L'Angelus, Geometrie Fluide. URL consultato il 28 giugno 2016.
  3. ^ Elisa Giovinazzo, "L'angelus" (Jean François Millet) 1859, in Tandem, TesiOnline. URL consultato il 28 giugno 2016.
  4. ^ L'Angelus, Musée d'Orsay, 2006.
  5. ^ Francesco Morante, L'angelusfrancescomorante.itURL consultato il 28 giugno 2016.
  6. ^ A. Cocchi, L'Angelus [di van Gogh], Geometrie fluide. URL consultato il 28 giugno 2016.
  7. ^ (ENARCHEOLOGICAL REMINISCENCE OF MILLET’S “ANGELUS”, Museo Dalí.
  8. ^ Il mito tragico dell'Angelus di Millet, Google Libri.
  9. ^ Commento di Francesco Poli su La StampaGennaro Stammati, Le varie opere di Dalì sui temi di Milletlideale.infoURL consultato il 28 giugno 2016.
  10. ^ Millet – “C’è una piccola bara nascosta nell’Angelus”, StileArte, 31 luglio 2015. URL consultato il 28 giugno 2016.

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    giovedì 26 gennaio 2017

    La sacra ruota di Brigid Ana e Dagda

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    Nella mitologia celtica Brigid era figlia di Dagda. Moglie di Bres e madre di CreidhneLuchtaine e Goibhniu. Era protettrice dei poeti, dei guaritori, dei druidi, dei combattenti e degli artigiani, di cui in particolare dei fabbri. La figura della Dama del Lago nel ciclo di Re Artù potrebbe essere ispirata a Brigid.
    Con la cristianizzazione dei celtiBrigid (Santa Brigida d'Irlanda) venne considerata la nutrice di Gesù, figlia del druido Dougal e venne spesso accomunata alla Madonna, dato che anch'ella era vergine e madre. Il primo febbraio, attualmente dedicato a Santa Brigida, era originariamente la festa di Imbolc. Aveva come epiteti Belisama "colei che brilla molto", Sulis (non ha traduzione precisa, ma il senso era collegato al sole), Brigantia "l'altissima" e Bricta "brillante". Fu venerata in seguito anche a Roma, diffusa dai legionari, con l'epiteto di Epona, protettrice dei cavalli[1]. I Romani la assimilarono a Vittoria ed a Minerva, per la sua caratterizzazione come dea della guerra. Nell'iconografia romana si è identificata a tal punto con Minerva che esiste a Birrens, in Scozia, una sua statua con tanto di Egida e globo della vittoria.

    È una delle dee più complesse e contraddittorie del pantheon celtico; Brigid può essere vista come una fra le dee più importanti di tutta la mitologia celtica.
    La storia di Brigid inizia in una triade di sorelle, situazione diffusa nel mondo celtico. È figlia di Dadga e di sua moglie Morrighan. È sorella di Ogma, dio del sole. Ha avuto tre figli dal marito Bres: Brian (Ruadan), Luchar ed Uar. Le imprese del figlio Brian, nella battaglia di Moytura, svolgono un ruolo importante nel suo sviluppo come dea della pace e dell'unità. Per i Celti, come per altri popoli, la discendenza matrilineare era estremamente importante.

    Altri nomi

    Brigantia

    In questo epiteto si può riscontrare la radice indoeuropea *bhr̥g'hntī che indica l'altezza, di conseguenza Brigantia significherebbe l'alta o la somma. Tale radice si può individuare anche nel popolo britannico dei Briganti ed in numerosissime città di origine celtica (Bragança, Bregenz, Briançon e così via). Sono state scoperte sette iscrizioni che si riferiscono a Brigantia. Una a Birrens:
    Brigantiae s(acrum) Amandus / arc(h)itectus ex imperio imp(eratum) (fecit) (RIB 02091).
    Castleford, nello Yorkshire e a Greetland, vicino ad Halifax, in cui è chiamata Vittoria:
    D(eae) Vict(oriae) Brig(antiae) / et num(inibus) Aauugg(ustorum) / T(itus) Aur(elius) Aurelian/us d(onum) d(edit) pro se / et suis s(e) mag(istro) s(acrorum) // Antonin[o] / III et Geta [II] / co(n)ss(ulibus)
    Corbridge, vicino al Vallo di Adriano
    Iovi aeterno / Dolicheno / et caelesti / Brigantiae / et Saluti / C(aius) Iulius Ap/ol(l)inaris / |(centurio) leg(ionis) VI iuss(u) dei
    Irthington DEAE NYMPHAE BRIGANTIAE.
    Garret Olmstead (1994) trovò anche una moneta iberica con la legenda BRIGANT_N

    Note

    1. ^ Vedi F. Le Roux, La religione dei Celti, in Storia delle religioni, Bari 1976, pp. 819 - 820

    Bibliografia

    • Année Epigraphique (AE), yearly volumes.
    • Bitel, Lisa M. (2001) "St. Brigit of Ireland: From Virgin Saint to Fertility Goddess" on-line)
    • Claus, Manfredd; Epigraphik-Datenbank Clauss / Slaby, Johann Wolfgang Goethe-Universität Frankfurt. Online epigraphic search tool
    • Ellis, Peter Berresford (1994) Dictionary of Celtic Mythology Oxford Paperback Reference, Oxford University Press, ISBN 0-19-508961-8
    • Gree, Miranda (1986) The Gods of the Celts. Stroud, Sutton Publishing. ISBN 0-7509-1581-1
    • Green, Miranda (1996) Celtic Goddesses: Warriors, Virgins, and Mothers New York, pp 195–202.
    • MacKillop, James (1998) Dictionary of Celtic Mythology. Oxford, Oxford University Press. ISBN 0-19-280120-1.
    • Olmstead, Garret (1994) The Gods of the Celts and Indo-Europeans Budapest, pp 354–361
    • Roman Inscriptions of Britain (RIB).
    • Wood, Juliette (2002) The Celts: Life, Myth, and Art. Thorsons. ISBN 0-00-764059-5

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    Dagda "dio buono" era una divinità celtica associata alla guerra, conosciuto anche come Eochaid "colui che combatte con il tasso" Ollathair ("padre potente"). Secondo dio della triade principale, Dagda era assimilabile al Giove romano e come lui era signore della folgore.
    In Gallia era chiamato Taranis[1], ed era il signore degli elementi. era definito Ruadh Rofhessa "il Rosso dalla scienza perfetta" e sotto questa veste tutelava i contratti e l'amicizia[2] .
    Nella mitologia celtica si dice che Dagda guadagnò la propria grandezza "promettendo di fare da solo tutto ciò che promisero di fare gli altri dei del cielo". Dagda era considerato il dio buono perché a lui venivano attribuiti i miracoli e perché proteggeva i raccolti badando al tempo.
    Era rappresentato con una clava in mano, arma magica che, oltre ad essere strumento di offesa, aveva il potere di rendere la vita. Spesso suonava un'arpa dai poteri straordinari, in grado di causare tristezza in chi l'ascoltava e di calmare chi era colto da ira. Altro suo attributo era il calderone della resurrezione.
    PredecessoreRe supremo dell'IrlandaSuccessore
    LughAnnali dei Quattro Maestri 1830-1750 a.C.
    Seathrún Céitinn 1407-1337 a.C.
    Delbáeth

    Note

    1. ^ Non ci sono attestazioni dell'etimologia per quanto riguarda la Gallia, ma in antico gallese tarann significa "fulmine".
    2. ^ Vedi F. Le Roux, La religione dei Celti, in Storia delle religioni, Bari 1976, pp. 810 - 813.

    Bibliografia

    • Enciclopedia delle religioni. Volume 12 Religioni dell'Eurasia, Milano, Jaca Book, 2009. ISBN 978-88-16-41012-1

    mercoledì 25 gennaio 2017

    I paraseleni

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    Il paraselenio è un fenomeno ottico atmosferico che consiste nell'apparizione di macchie luminose a 22° a destra e/o a sinistra della Luna, note comunemente come cani lunari.
    È dovuto alla rifrazione della luce lunare da parte di cristalli di ghiaccio di forma esagonale presenti nelle nubi chiamate cirri.
    Il paraselenio è un fenomeno analogo al parelio ma è più raro, perché la luce della Luna è più debole di quella del Sole e per essere prodotto è necessario che la Luna sia piena o quasi.

    Bibliografia

    • Lisle Jason, The Stargazer's Guide to the Night Sky, Master Books, 2012

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    Il Messico ha un muro di separazione dal Guatemala e nessuno ha protestato

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    Il Muro del Messico c'è già dal 1994, costruito da Bill Clinton

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    La barriera di separazione tra Stati Uniti d'America e Messico, detta anche muro messicano o muro di Tijuana, è una barriera di sicurezza costruita dagli Stati Uniti lungo la frontiera al confine tra USA e Messico. In Messico viene però chiamato Muro della vergogna. Il suo obiettivo è quello di impedire agli immigranti illegali, in particolar modo messicani e centroamericani, cioè GuatemaltechiHonduregniSalvadoregni e Nicaraguensi di oltrepassare il confine statunitense.
    La sua costruzione ha avuto inizio nel 1994, durante la presidenza Clinton, secondo l'ottica di un triplice progetto antimmigrazione: il progetto Gatekeeper in California, il progetto Hold-the-Line in Texas ed il progetto Safeguard in Arizona. Secondo alcuni esperti queste operazioni sarebbero solo una manovra per convincere i cittadini statunitensi della sicurezza ed impenetrabilità dei confini, mentre l'economia continuerebbe a beneficiare del continuo flusso di forza lavoro a basso costo in arrivo da oltre frontiera.
    La barriera è fatta di lamiera metallica sagomata, alta dai due ai quattro metri, e si snoda per chilometri lungo la frontiera tra Tijuana e San Diego. Il muro è dotato di illuminazione ad altissima intensità, di una rete di sensori elettronici e di strumentazione per la visione notturna, connessi via radio alla polizia di frontiera statunitense, oltre ad un sistema di vigilanza permanente, effettuato con veicoli ed elicotteri armati. Altri tratti di barriera si trovano in ArizonaNuovo Messico e Texas.
    Il confine tra Stati Uniti d'America e Messico, lungo 3.140 km, attraversa territori di diversa conformazione, aree urbane e desertiche. La barriera è situata nelle sezioni urbane del confine, le aree che in passato hanno visto il maggior numero di attraversamenti clandestini. Queste aree urbane comprendono San Diego in California ed El Paso in Texas. Il risultato immediato della costruzione della barriera è stato un numero sempre crescente di persone che hanno cercato di varcare illegalmente il confine, attraverso il deserto di Sonora, o valicando il monte Baboquivari, in Arizona. Questi clandestini hanno dovuto percorrere circa 80 km di territorio inospitale prima di raggiungere la prima strada, nella riserva indiana Tohono O'odham. Tra il 1º ottobre 2003 ed il 30 aprile 2004, 660.390 persone sono state arrestate dalla polizia di confine statunitense mentre cercavano di attraversare illegalmente il confine. In quello stesso periodo dalle 43 alle 61 persone sono morte mentre cercavano di attraversare il deserto della Sonora, tre volte tante quelle che nello stesso lasso di tempo hanno incontrato il medesimo destino nell'anno precedente. Nell'ottobre 2004 la polizia di confine ha dichiarato che 325 persone sarebbero morte negli ultimi 12 mesi, nel tentativo di passare la frontiera. Dal 1998 al 2004, secondo i dati ufficiali, lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, sono morte in totale 1.954 persone.

    L'iter burocratico della risoluzione

    Il 3 novembre 2005, il parlamentare statunitense repubblicano Duncan Hunter (della California), ha proposto al Senato degli Stati Uniti d'America un piano per rafforzare la barriera di separazione tra i due paesi. La proposta è stata approvata il 15 dicembre 2005, prevedendo la costruzione di un muro di 1.123 km. Le dimensioni sarebbero paragonabili solo a quelle della Grande muraglia cinese. Infine, il Senato, il 17 maggio 2006 ha approvato a maggioranza (83 voti a favore e 16 contrari) l'emendamento che prevede la costruzione di un muro di 595 km di estensione, più 800 km di barriere per impedire il passaggio di automobili.
    La risoluzione 6061 (H.R. 6061), Secure Fence Act, è stata presentata al Congresso il 13 settembre 2006. La proposta è stata approvata dalla Camera dei rappresentanti in data 14 settembre 2006, con una votazione di 283 voti a favore e 138 contrari.
    Il 29 settembre 2006, il Senato, ha confermato l'autorizzazione, con una votazione di 80 a favore e 19 contrari. Tra i democratici che, in quell'occasione, votarono a favore vi furono, sorprendentemente, anche la futura candidata alla presidenza Hillary Clinton nonché l'allora senatore dell'Illinois Barack Obama. [1]
    Il 26 ottobre 2006, il presidente George W. Bush ha firmato la H.R. 6061 che era stata votata da ambedue le camere del Congresso.

    Note

    1. ^ H.R. 6061 (109th): Secure Fence Act of 2006 -- Senate Vote #262 -- Sep 29, 2006, su GovTrack.usURL consultato il 17 novembre 2016.

    Ogma o Ogmios, il dio celtico inventore dell'Alfabeto Ogham

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    Ogma era una divinità del pantheon celtico.
    Il dio Marte, definito Albiorix "re del mondo", Leucetius "folgorante" e Caturix "dio della guerra", era reso dai Celti tramite due divinità, Nuada, che era il re che dirigeva la battaglia, mentre Ogma era il vero e proprio campione guerriero. Egli era il dio della forza e del furore, ma anche della scrittura. Infatti era il dio che "legava" la magia all'oggetto, tramite la scrittura (le famose tabellae defixionis sono rivolte a lui). Inoltre era il dio che conduceva le anime all'Aldilà, ed era visto come l'aspetto oscuro di Lúg[1]. In altre versioni, è un campione che viene battuto dallo stesso Lug al suo arrivo a Temair.
    Da Ogma deriva il nome dei caratteri della scrittura celtica, i caratteri ogam.
    Il termine irlandese Ogma, derivava dal termine gallico Ogmios, che non è di origine celtica e che probabilmente derivava dal termine greco ὀγμος "linea, strada"; forse si tratta quindi di un interpretatio greca di un dio celtico, accettata dagli stessi Celti[2].
    In Gallia, con il nome Ogmios era spesso avvicinato alla figura di Ercole[3]. Secondo la leggenda Ercole liberò le provincie gallo - iberiche da due tiranni, Gerione e Taurisco, fondò Alesia ed il suo culto era legato all'Aldilà. Ma il paragone sembra riduttivo, potrebbe anche essere che Ogmios fosse il nome greco dato ad una divinità celtica detta "il conduttore"[4].

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    1. ^ Vedi F. Le RouxLa religione dei Celti, in Storia delle religioni, Bari 1976, pp. 813 - 817.
    2. ^ Vedi C. Guyonvarc'hGaulois Ogmios, irlandais Ogma, ogam in Ogam XII, 1960, pp. 47 - 49.
    3. ^ Luciano di SamosataDialoghi, Ercole 1 - 7.
    4. ^ Vedi F. Le RouxLe dieu celtiques aux liens, in Ogam XII, 1960, pp. 209 - 213.

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    martedì 24 gennaio 2017

    Vite quasi parallele. Capitolo 8. Memorie di una ragazza perbene.

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    <<Il benessere che deriva dalla fortuna>> era solita ripetere, in tarda età, ai nipoti, la contessa Diana Orsini <<è incerto e mutevole, come la fortuna stessa>>
    E lei ne sapeva qualcosa.
    Fino ai diciotto anni, circa, Diana Orsini Balducci dei conti di Casemurate si riteneva una ragazza molto fortunata.
    Aveva ricevuto in dono dalla sorte molto più di quello che è concesso ai comuni mortali.
    Bellezza, intelligenza, classe, un cognome nobile e riverito da tutti, un patrimonio in apparenza immenso e solido.
    Era cresciuta nell'illusione di essere una principessa destinata, un giorno, a innamorarsi del migliore principe azzurro sulla piazza, per poi sposarlo e vivere con lui felice e contenta.
    Tuttavia, come avrebbe scritto Virgilio, dis aliter visum: agli dei parve giusto altrimenti.
    Pochi giorni prima del suo diciottesimo compleanno, i genitori la convocarono nel famoso Salotto Liberty, con la faccia delle grandi occasioni.
    Il Conte Achille iniziò il suo discorso con una lunga rievocazione degli investimenti azzardati di suo padre e concluse che, purtroppo, " i nostri villici non hanno capito".
    Ma Diana aveva capito benissimo dove suo padre voleva andare a parare.
    Il Conte le spiegò che il mancato ritorno economico degli investimenti paterni aveva causato non solo il sequestro degli immobili che erano stati costruiti, ma anche una difficoltà nel restituire i prestiti che erano stati concessi, seppur con tasso di favore, dalla famiglia Ricci.
    <<Sono degli usurai>> commentò Diana.
    La Contessa Emilia, scandalizzata, intervenne:
    <<Non intendo tollerare che tu ti esprima con questo linguaggio plebeo. Ricordati sempre chi sei e che cosa rappresenti!>>
    Diana però, a cui il ruolo di "ragazza per bene" di buona famiglia incominciava a stare stretto, non si fece intimidire:
    <<Sono la figlia di persone indebitate fino al collo e rappresento la loro ultima speranza per evitare la bancarotta>>
    La Contessa Emilia sbottò:
    <<Che insolenza!>>  e si scolò un intero calice di Cabernet-Sauvignon d'annata per sciogliere la tensione. Sarebbe stato solo l'inizio di una formidabile carriera da alcolista impenitente.
    Il Conte, che era un appassionato di retorica, si gettò a capofitto sulla carta più disperata di ogni oratore, e cioè la peroratio, ossia la mozione degli affetti:
    <<Un Orsini paga sempre i suoi debiti. E finché io avrò vita non permetterò a nessun membro di questa famiglia di fare alcunché possa gettare un'ombra sul buon nome degli Orsini Balducci di Casemurate>>
    Diana però non era tipo da farsi abbindolare dalle chiacchiere e tantomeno dalle perorazioni:
    <<Il buon nome degli Orsini? Credi che non abbia sentito le ironie di tutti quanti riguardo agli investimenti assurdi del nonno? Il buon nome degli Orsini è andato perduto insieme a quei ridicoli campi da golf e bacini di canottaggio, costruiti in un luogo dove la gente fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena>>
    Alla Contessa Emilia quasi andò di traverso il Cabernet-Sauvignon:
    <<E' un'indecenza!>> tuonò e aggiunse << Vorrei proprio sapere chi ti ha insegnato questo linguaggio da taverna!>>
    Glielo aveva insegnato l'ultima domestica rimasta a Villa Orsini, in qualità di governante, e cioè la signora Ida Braghiri, moglie del fattore Michele Braghiri, amministratore del Feudo Orsini, nonché informatore a libro paga di Giorgio Ricci.
    Il Conte riprese il filo del discorso:
    <<Tu sei la maggiore delle mie figlie e l'unica in età da marito. Tuo fratello è troppo giovane per prender moglie. Di conseguenza è ovvio che io concederò la tua mano soltanto a qualcuno disposto ad aiutarmi a restituire i prestiti ricevuti, prima che i creditori facciano valere le ipoteche che sono state poste sul Feudo Orsini come garanzia. 
    Ti informo che queste ipoteche gravano anche sulla nostra residenza, per cui potrebbe non essere lontano il giorno in cui questa antica e gloriosa magione si trasformi da Villa Orsini in Villa Ricci>>
    Diana mise le mani avanti:
    <<Potrò almeno scegliere, tra coloro che avanzeranno offerte di matrimonio unite ad un generoso emolumento, la persona che più si avvicina all'idea di marito che io mi sono fatta quando ancora credevo nelle favole?>>
    Il Conte inarcò le sopracciglia:
    <<L'età delle favole è finita da un pezzo, figlia mia. Per cui sarò sincero: tra le numerose richieste di matrimonio che ci sono pervenute nei tuoi confronti,  al momento soltanto quella di Ettore Ricci, figlio di Giorgio, risulta interessante dal punto di vista finanziario>>
    Diana sospirò:
    <<Se permetterai a Ettore Ricci di sposarmi e di riscattare le ipoteche, allora questa casa diventerà veramente Villa Ricci>>
    Il Conte si sentì ferito nell'orgoglio:
    <<Che destino! Dover vivere per sentirmi dire certe cose da mia figlia!>> e si alzò teatralmente, lasciando il Salotto Liberty.
    La Contessa Emilia, che era al terzo calice di Cabernet-Sauvignon, scosse il capo, facendo tremare la complessa capigliatura, già fuori moda in età edoardiana.
    <<Sei contenta adesso? Hai spezzato il cuore a tuo padre! E per cosa poi? Per una fantasia da ragazzina ingenua! Il Principe Azzurro non esiste! Le storie d'amore in cui credi tu sono solo nei tuoi libri e nella tua fantasia!
     Non esiste un amore così nella realtà... non esiste...>>
    L'ultima frase era stata pronunciata con voce roca e tono diverso, impostato su una nota di tristezza e di rimpianto.
    Il vino stava cominciando a fare i suoi effetti.
    La severità polemica della Contessa Emilia, che forse era nata dalla lunga repressione dei propri istinti, si stemperò gradualmente, assumendo i contorni della nostalgia di cose passate, di cose perdute.
    Era forse possibile che avesse ragione?
    Diana si alzò senza dire una  parola e uscì dal Salotto Liberty, lasciando sua madre in compagnia della bottiglia di Cabernet-Sauvignon e dei fantasmi di un tempo concluso, nascosto ormai negli interstizi e sotto i tappeti.

    Vite quasi parallele. Capitolo 7. Il Reduce e il Profeta delle Acque

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    Romano Monterovere lasciò parte del suo cuore ad Asmara.
    La paura di morire in guerra lo aveva fatto sentire vivo. Finita la Guerra d'Africa, il ritorno alla normalità, all'opaca trafila delle cose, lo faceva sentire più morto dei suoi commilitoni caduti.
    Si era portato dietro dei souvenir: elefanti d'ebano con zanne in avorio, statuette primitiviste, un sacchetto di seta con la sabbia del deserto, la fotografia di una ragazza etiope con cui aveva avuto una relazione.
    Fino all'ultimo aveva coltivato l'idea di restare con lei ad Asmara.
    Bisognava avere coraggio per fare quella scelta, ma Romano Monterovere era un uomo avverso al rischio.
    Seppellì dunque parte del suo cuore in Eritrea e tornò nel pantano della Bassa Padana, dalla sua famiglia.
    Arrivò a casa dei suoi, in quel posto dimenticato da Dio che era ed è Bagnacavallo, in divisa militare, con lo sguardo di chi aveva visto troppe cose.
    Nei suoi occhi azzurri c'erano ancora l'Oceano Indiano e il Golfo di Aden.
    Sarebbero rimasti lì per sempre, conferendogli quell'espressione distante, lontana, distaccata, che molti scambiarono poi per freddezza o indifferenza.
    Nella Bassa ravennate ritrovò soltanto le torbiere e i canali dell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
    Nel 1937 l'Azienda stava avendo un successo superiore ad ogni aspettativa.
    I capitali forniti dallo zio Bassi-Pallai e il clima generale favorevole alle opere di bonifica dopo il prosciugamento delle Paludi Pontine, avevano contribuito a tale successo.
    Non appena la famiglia Monterovere aveva incominciato a percepire l'odore dei soldi, le cose erano cambiate radicalmente.
    Il vecchio patriarca Enrico aveva lasciato il lavoro alle Ferrovie e si era dedicato ai suoi principali interessi: mangiare, bere e andare a spasso.
    I figli lavoravano tutti nell'Azienda, ma con diverse mansioni.
    Ferdinando era il direttore. Il suo entusiasmo per la creazione di canali di scolo o di irrigazione era pari soltanto al suo vorace appetito a tavola.
    Edoardo teneva la contabilità e si occupava delle questioni pratiche.
    Lo zio Bassi-Pallai si occupava delle pubbliche relazioni: in pratica chiacchierava tutto il giorno.
    Mancava qualcuno che facesse il commesso stabile nella sede dell'Azienda.
    Inizialmente quel compito lo avevano dato a Tommaso, il fratello più giovane, ma lui aveva la brutta abitudine di prendersi delle pause che duravano ore intere, lasciando un cartello con scritto: "Torno subito". Per punizione finì a fare lavori di fatica nelle cave.
    A Romano, che aveva una bella presenza e ispirava un senso di fiducia e serietà, il posto di commesso calzava a pennello.
    Lui lo accettò con noncuranza. Dopo aver combattuto la Guerra d'Africa e aver visto quello che aveva visto, un posto valeva l'altro.
    Tra Romano e Ferdinando c'era un abisso.
    Romano era alto, longilineo, serio, severo, distante, perso in un mondo tutto suo, un mondo diverso, lontano.
    Ferdinando era un entusiasta, un compagnone che amava la buona tavola, come dimostrava il corpo massiccio, simile a un armadio, e nel contempo era un visionario, che sognava di rendere navigabili i torrentelli da quattro soldi, sempre in secca, della Bassa Romagnola.
    Aveva assunto periti tecnici e si avvaleva della consulenza di un ingegnere altrettanto visionario, che poi divenne socio dell'azienda.
    Questo ingegnere, di nome Francesco Lanni, aveva progetti così ambiziosi, per quel che riguardava la creazione di canali navigabili, idrovore, condotti di irrigazione, collegamenti tra fiumi e mari, porti, laghi artificiali e altre amenità, che i suoi colleghi lo avevano soprannominato il Profeta delle Acque.
    Sua moglie Giulia soffriva di una particolare forma di cardiopatia, per cui era sempre a letto.
    Sua figlia Elisa era una ragazza molto timida, riservata, abile nei lavori di sartoria e amante della lettura, specie di romanzi d'amore. Il suo unico vizio era il fumo.
    Un giorno accompagnò il padre all'Azienda dei Fratelli Monterovere e fu lì che i suoi grandi occhi neri incontrarono gli occhi azzurri del reduce della guerra d'Africa e scorsero, in quegli occhi, l'Oceano Indiano e il Golfo di Aden, e una nostalgia divorante di qualcosa che forse non era mai esistito.

    lunedì 23 gennaio 2017

    Vite quasi parallele. Capitolo 6. La fortuna dei Ricci e la disgrazia degli Orsini

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    Ma com'era stato possibile che una famiglia di contadini fosse riuscita a fare così tanti soldi da entrare in possesso di tutte le ipoteche che gravavano sul Feudo Orsini?

    Il vecchio Giorgio Ricci era il capofamiglia e quello che teneva i cordoni della borsa, ma non era sempre stato così.
    Ultimo di un imprecisato numero di fratelli, era cresciuto quasi come un animale selvatico.
    Basso, tarchiato, irsuto come un cinghiale, aveva occhi infuocati e penetranti, capelli ispidi come setole, una perenne barba di tre giorni, da carcerato, e un'aria cupa e vagamente minacciosa.
    Fuggito di casa all'età di tredici anni, aveva lavorato come "garzone" in varie tenute di campagna, senza dare confidenza a nessuno.
    A differenza degli altri della sua età, non spendeva tutto il suo magro salario in osterie e bordelli: i suoi appetiti erano ben altri.
    L'essere nato per ultimo, così come l'essersi sentito sempre l'ultima ruota del carro, in ogni circostanza, avevano procurato in lui una reazione ben precisa, e cioè quella di ribaltare il suo destino diventando il primo, sempre, ovunque, in ogni modo.
    Sapeva benissimo, però, che sgobbare e risparmiare, di per sé, non era una strategia vincente per diventare i primi.
    Bisognava anche correre qualche rischio.
    Giorgio Ricci scoprì di avere il bernoccolo degli affari, specie nelle trattative di compravendita.
    Riusciva sempre a ottenere il prezzo che voleva.
    Era come un grosso gatto sornione che giocava col topo prendendolo per sfinimento.
    Poteva stare giorni interi a contrattare il prezzo della vendita di un pollo.
    I padroni se ne accorgevano e gli affidavano sempre più spesso l'incarico di comprare e vendere sementi, bestiame, raccolti, prodotti caseari e artigianali, non faceva differenza: lui riusciva sempre a ottenere un prezzo conveniente.
    In cambio di queste mediazioni, Giorgio Ricci si faceva pagare una percentuale.
    Alla fine riuscì a raggranellare un certo gruzzolo che gli permise di comprare una piccola casa colonica con un pezzo di terra attorno, che gli serviva come pretesto per fingere di fronte al mondo intero di essere soltanto un piccolo coltivatore diretto.
    In realtà la sua professione era quella di sensale, o come diremmo oggi, di mediatore.
    Non appena ebbe raggranellato un altro gruzzolo, inizio a praticare la vera attività a cui aveva sempre aspirato, e cioè quella di usuraio.
    La prima preoccupazione di uno strozzino serio è quella di garantirsi la copertura delle autorità locali, fornendo generose disponibilità liquide, senza interesse e a fondo perduto ad ogni notabile, pubblico o privato.
    Tutti gli altri, invece, dovevano pagare tassi molto elevati e se sgarravano rischiavano di incorrere in incidenti spiacevoli.
    Giorgio ottenne la sua prima rivincita morale sul destino quando i suoi fratelli maggiori si presentarono da lui col cappello in mano, ricordando con eccezionale nostalgia "i bei tempi andati".
    Lui si mostrò incredibilmente magnanimo e garantì ai fratelli un trattamento di favore, dando loro persino validi consigli su come far fruttare il denaro.
    Di fatto i fratelli di Giorgio Ricci divennero i suoi prestanome.
    Il primogenito, Amilcare (perché all'epoca andavano di moda quei nomi lì, dietro suggerimento di fantasiosi parroci a giovani parrocchiani che dovevano battezzare i marmocchi) fondò un'officina di riparazione di strumenti per l'agricoltura, che presto si trasformò in una piccola fabbrica di macchine agricole.
    Il secondogenito, Teodorico, comprò una tenuta con ottimi vigneti e frutteti.
    Il terzogenito, Enotrio, divenne titolare di numerosi allevamenti di bestiame.
    Il quartogenito, Paride, mise su un'osteria, con albergo a ore (di fatto un bordello) e altre simili attività ricreative.
    Poi vennero le sorelle.
    Carolina fondò una maglieria con annesso negozio di vestiti e attività sartoriali, impiegando ragazze che lavoravano 12 ore al giorno per un salario da fame (e a volte integravano il reddito facendo "servizi" presso l'albergo di Enotrio) e
    Adriana, che era rimasta nubile e abitava ancora con i vecchi genitori, Primo e Severina, ebbe l'incarico delle "pubbliche relazioni". Di fatto la sua attività consisteva nel raccogliere dati e informazioni su tutto e su tutti, con tecniche di spionaggio che avrebbero fatto impallidire i servizi segreti di mezzo mondo.
    Una volta assicuratosi il controllo di tutta l'economia locale tramite i fratelli e le sorelle, Giorgio decise di prendere moglie.
    Per lui, che aveva fatto a malapena la terza elementare, il primo passo di ascesa sociale consistette nello sposare una donna istruita e di buona famiglia.
    Dopo attente valutazioni, trovò la persona che faceva per lui.
    Clara Valentini era una giovane e graziosa maestra elementare, figlia di proprietari terrieri decaduti, e per un po' di tempo fu l'unica insegnante nella scuola di Casemurate.
    Poteva vantare inoltre un'amicizia con la signorina Emma De Toschi, figlia di Violetta Orsini, una delle sorelle del vecchio Conte Vittorio.
    Si erano conosciute in collegio. Emma aveva poi continuato a studiare all'università, lettere classiche, a Bologna.
    Siccome la famiglia Valentini aveva grossi debiti nei confronti di Giorgio Ricci, e tenendo conto che la giovane maestrina Clara, per quanto colta e brillante, era piuttosto bruttina, slavata, secca e col naso lungo, la proposta di matrimonio da parte del Ricci ebbe l'approvazione sia dei genitori che della ragazza.
    Alla fine si tratto di un matrimonio fortunato, nel senso che Giorgio Ricci ottenne quello che aveva sempre desiderato, e cioè essere ammesso alla corte degli Orsini, e la Maestra Clara ottenne finanziamenti per pubblicare numerosi saggi storici, tra cui le già citate "Cronache casemuratensi", che la resero una vera e propria autorità locale dal punto di vista della cultura.
    Da quel matrimonio nacquero vari figli, destinati a loro volta ad uno sfrenato arrampicamento sociale.
    Nel frattempo Giorgio Ricci divenne il finanziatore di tutte le stravaganti iniziative del vecchio Conte Vittorio in costose attività di editoria dilettantistica, giardinaggio, architettura, campi da golf, laghi di pesca sportiva, bacini di canottaggio e altre amenità che forse avrebbero avuto qualche speranza se fossero state più vicine alla riviera e non a un borgo di contadini.
    I tempi di Mirabilandia erano ancora lontani. E gli agriturismi non hanno raggiunto Casemurate nemmeno oggi.
    Quando il Conte Vittorio morì, nel 1930, il suo primogenito e successore Conte Achille si rese conto che tutte le sue terre e proprietà, compresa la Villa, erano gravate da ipoteche a favore di Giorgio Ricci.
    A quel punto l'usuraio e il nobiluomo incominciarono a prendere in considerazione l'idea che forse un'alleanza matrimoniale tra i loro figli avrebbe potuto risolvere molte spiacevoli questioni.