giovedì 12 settembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 17. Lo Scavezzacollo, ossia l'infanzia rimossa di Francesco Monterovere

Molte speranze erano state riposte da Romano Monterovere e da sua moglie Giulia Lanni nel loro primogenito Francesco.
Queste speranze, fondate sul fatto che il bambino mostrava ottime doti intellettive, si libravano in alto, come aquiloni, che però il destino incominciò a prendere a sassate, quando nell'indole del piccolo Francesco, incominciò ad emergere un aspetto irrequieto e ribelle, che gli valse il soprannome di Scavezzacollo e che suscitò le ire del padre e le delusioni della madre.
Tutto ciò che sappiamo sull'argomento deriva principalmente dai racconti dei fratelli minori di Francesco, e cioè Enrichetta e Lorenzo, testimonianze che vanno presi con la dovuta cautela, considerando la tenera età dei testimoni ai tempi in cui gli eventi ebbero luogo.
L'unica cosa su cui tutti e tre i fratelli concordano, riguardo a quel periodo, sono le severissime punizioni, anche corporali, da parte del padre, Romano, affettuosamente chiamato "Babo" con una "b" sola. L'ex caporalmaggiore della Guerra d'Abissinia non riusciva ad accettare l'idea che il suo primogenito rifiutasse di obbedirgli e, più in generale, fosse estremamente diverso da lui.
Questo provocava a Romano esplosioni d'ira che, seppur molto presenti nell'indole dei Monterovere, fino a quel momento erano state latenti in lui, uomo apparentemente silenzioso e distaccato. La sua nevrosi ossessivo-compulsiva si aggravò e il suo equilibrio psico-fisico ne risentì a tal punto che i suoi capelli divennero precocemente bianchi, fino a quando subentrò la calvizie e la pelle di quel viso un tempo prestante si solcò di profonde rughe.
Non che tutta la colpa fosse del figlio, anzi è probabile che, specie negli anni dal '40 al '45, durante la guerra, la nevrosi di Romano avrebbe trovato comunque delle ragioni esterne tali da scatenare le sue ire e accelerare il suo precoce invecchiamento.
Ad ogni modo, volendo psicanalizzare il tutto in termini rigorosamente freudiani, ben presto la rigida educazione e le traumatizzanti punizioni inflitte da Romano al figlio a suon di tozze, fu introiettata nella mente di Francesco sotto forma di un occhiuto e spietato Super-Io, pronto a censurare tutto ciò che avrebbe provocato il biasimo paterno. Il successivo conflitto tra Io e Super-Io, sempre secondo la topica e la dinamica freudiana, avrebbe innescato il meccanismo della rimozione e quindi dell'amnesia.
Per completezza, occorre dire che l'amnesia non è l'unica conseguenza della rimozione, dal momento  che i contenuti rimossi non scompaiono, ma sono trasferiti in un ipotetico e inconoscibile settore della mente, l'Inconscio, secondo la prima topica, e l'Es, in base alle seconda.
Dall'inconscio, tali contenuti rimossi, essendo energia psichica, generano reazioni che si manifestano poi sotto forma di elementi bizzarri come i famosi "lapsus", o certi tipi di "tic" del linguaggio o dell'espressione, e ancora somatizzazioni di vario genere (dall'agire maldestro fino ai casi che un tempo venivano classificati nell'ambito dell'isteria), lievi disturbi cognitivi (dislessia e discalculia, ossia difficoltà a far di conto), distrazioni, amnesie, oppure ancora, nei casi più seri, in forme di nevrosi di tipo ansioso, ossessivo o depressivo o psicosi di tipo paranoide.
Con questo non vogliamo assolutamente aderire in toto ad una teoria che gli stessi psicologi considerano ormai datata, e dunque, sarebbe del tutto inappropriato affermare che Francesco Monterovere avesse sviluppato, anche solo in parte e in forma lieve, alcune di queste manifestazioni.
Più corretto è dire che della prima infanzia gli rimasero soltanto pochissimi ricordi, ridotti a brevi flash, tra cui, per esempio, il fatto che lo Scavezzacollo, per punizione di aver spaventato e rincorso dei pulcini, fosse stato infine chiuso nella stia, ogni volta che i pulcini stessi venivano liberati.
Teniamo conto che molti di questi eventi si verificarono in concomitanza con la Seconda Guerra Mondiale, specie nel periodo in cui incominciarono i bombardamenti anglo-americani ed ebbe luogo l'invasione tedesca, con tutti i traumi che simili tragedie portano con sé.
Degli anni della guerra non aveva ricordi diretti, tranne uno, ossia il fatto di trovarsi sotto il letto insieme ad un personaggio non ben identificato, durante un bombardamento.
Per il resto si limitava a riportare ciò che i suoi genitori gli avevano raccontato.
Erano stati anni catastrofici per tutti, ma in modo particolare per la famiglia Monterovere, che vide la sventura abbattersi su di sé per la seconda volta, se si tiene conto che la prima risaliva alla notte fatale in cui l'antenato Ferdinando perse la vita presso l'Orma del Diavolo, nella Selva di Querciagrossa, sotto il colle in cui sorgeva il castello di Monterovere Boica.
Romano, pur essendo caporalmaggiore, non venne richiamato in guerra, poiché riconosciuto invalido civile a causa di un non ben identificato incidente sul lavoro, che gli aveva danneggiato una gamba e lo aveva costretto a un periodo di immobilità.
Dei suoi fratelli, furono scelti per il Fronte i due più giovani e cioè Tommaso ed Edoardo, destinati il primo alla Libia e il secondo alla Francia (pochi sanno che esistette, per un brevissimo periodo, nel 1940, un fronte francese).
Tommaso non giunse mai in Libia: la nave in cui viaggiava, poco al largo della Sicilia, fu silurata da un bombardamento aereo inglese e non ci furono superstiti, né corpi recuperati, né tombe su cui piangere.
Edoardo giunse in Francia giusto in tempo per l'armistizio e fu collocato nella caserma di Mentone.
Quando gli arrivò la chiamata per il fronte russo, intuendo che se fosse partito non sarebbe mai tornato indietro, disertò e si diede alla macchia nelle terre della Repubblica di Vichy, dove visse per alcuni anni come clandestino, ritornando poi in patria a guerra finita, senza un soldo, ma carico di avventure (vere o presente tali) che avrebbe poi raccontato infinite volte a figli, nipoti e pronipoti vari.
Ferdinando, Umberto e Romano rimasero i soli a mandare avanti l'Azienda, che incontrava le prime difficoltà, poiché in tempo di guerra le cave di ghiaia e i canali di scolo erano l'ultima preoccupazione.
Ma il tracollo avvenne quando, come è noto, dopo l'8 settembre del 1943, quando l'Italia si spaccò in due: la Repubblica Sociale filo-tedesca al nord e il Regno d'Italia filo inglese e americano al Sud.
I bombardamenti anglo-americani si intensificarono.
Gran parte dei cantieri dell'Azienda, che già aveva subito gravi danni economici per la mancanza di commesse, andarono completamente distrutti.
Romano e famiglia dovettero abbandonare la loro residenza faentina e tornare in campagna nel casolare di Enrico ed Eleonora, nei pressi di un rifugio dal nome non incoraggiante di "Tombarona".
Durante un bombardamento a tappeto particolarmente efferato, Romano Monterovere si vide scoppiare una bomba a breve distanza, riportando danni all'udito che in seguito l'aggravamento dell'invalidità civile.
Lui, la moglie e il piccolo Francesco riuscirono a mettersi in salvo in un rifugio nei pressi del casolare di campagna dove il vecchio nonno Enrico e sua moglie Eleonora si erano ritirati.
Rimasero nelle campagne per molto tempo e il ricordo dell'episodio dei pulcini va collocato certamente in quel periodo, come anche la nascita dei fratelli di Francesco, e cioè Enrichetta nel 1943 e Lorenzo nel 1945.
A tutti costoro si aggiunse verso la fine del conflitto mondiale anche il ritorno la zia Anita, che era stata maestra a Fiume per vent'anni e che per un soffio era scampata alle foibe.
Se a tutto questo si aggiunge il fatto che i risparmi investiti dalla famiglia Lanni e dai Monterovere in titoli pubblici non valevano più nulla, la situazione finanziaria di tutti loro, nel '45, era talmente disastrosa che persino mettere insieme il pranzo con la cena era diventato sempre più arduo.
Una sera d'autunno, zoppicando e con le orecchie che gli fischiavano, Romano arrivò a casa con un prosciutto per metà andato a male e pieno di vermi, trovato nei pressi di un cassonetto.
Quel famigerato prosciutto andato a male, ripulito dal marcio e dai vermi, costituì uno dei pasti più cospicui della famiglia nel '45 e divenne il simbolo del punto più drammatico della povertà che dovettero sopportare.
Quando, molti anni dopo, l'Azienda si riprese e la famiglia tornò al benessere, nessuno di loro, nemmeno Francesco, dimenticò mai quel prosciutto pieno di vermi, e il volto trionfante di Romano, che l'aveva trovato rovistando nei cassonetti.

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