Dopo i disastri finanziari dovuti alla pessima gestione patrimoniale del Conte Umberto Ozzani di Fossalta, l’esposizione debitoria della nobile famiglia nei confronti della Bancaccia (così veniva chiamato in famiglia, e non solo, l’istituto di credito “di fiducia” degli Ozzani) era diventata insostenibile.
Ciononostante la Bancaccia continuava a far
credito agli Ozzani, che garantivano i loro debiti con ipoteche sulle terre in loro possesso e persino sulla Villa.
Il direttore generale della Bancaccia, l’avvocato Davide Rubini, Cavaliere di Gran Croce, era stato in gioventù un attendente del generale De Toschi, e
per questo nutriva un'immotivata ammirazione nei confronti della famiglia
Ozzani.
Inoltre, segretamente, aspirava ad entrare a far parte dell'aristocratica famiglia, cullando il sogno che la sua unica figlia, Esther, potesse un giorno diventare la moglie di Alessio Ozzani di Fossalta, il figlio ed erede del conte Umberto.
Inoltre, segretamente, aspirava ad entrare a far parte dell'aristocratica famiglia, cullando il sogno che la sua unica figlia, Esther, potesse un giorno diventare la moglie di Alessio Ozzani di Fossalta, il figlio ed erede del conte Umberto.
Ciò lo aveva convinto non solo a concedere crediti sempre
più consistenti al Conte, ma anche ad assumere come Capo Ufficio Controllo Crediti il fratello minore del conte, il commendatore Carlo Ozzani, diplomato ragioniere con una passione per la contabilità.
Carlo Ozzani di Fossalta non era sposato: l’unico grande
amore della sua vita erano i cavalli (e secondo le malelingue anche gli
stallieri). Quando era morto il suo cavallo prediletto, chiamato modestamente
“Carlo Magno”, lo aveva fatto imbalsamare e collocare presso una apposita
dependance delle stalle di Villa Ozzani.
In ufficio Carlo Ozzani si comportava in modo ambiguo: da un
lato ostentava sobrietà, autocontrollo, distacco e una certa freddezza.
Dall’altro lato però il suo carattere mostrava inquietanti
segni di lunaticità e nevrosi.
Quando invece era di cattivo umore, cioè quasi sempre,
diventava dispotico, puntiglioso e petulante. Bastava il minimo
errore o il più piccolo sgarro di un dipendente per causare inquietanti minacce o funeste manie di perfezionismo.
Una tipica rappresaglia che in quei momenti si dilettava a esercitare sui
malcapitati che quel giorno gli stavano particolarmente antipatici era quella
di far riscrivere loro i documenti ufficiali più e più volte, cambiando le
parole, ma non il senso del discorso.
Se per esempio uno scriveva: «Il cliente si è dimostrato
inadempiente», il dott. Ozzani gli faceva correggere: «Il cliente ha mostrato
inadempienze», ma poteva benissimo accadere il viceversa con un altro
dipendente, o magari con lo stesso una volta che avesse apportato la
correzione.
I componenti dell’Ufficio Controllo Crediti, però, si erano abituati a
queste stravaganze e non ci facevano quasi più attenzione. Erano disposti a
passar sopra a tutto, purché non li si costringesse a lavorare sul serio. Ciò
sarebbe stato per loro assolutamente inaccettabile.
L’Ufficio Controllo Crediti era stato soprannominato “Ufficio Raccomandati” e tale appellativo non richiedeva ulteriori spiegazioni.
In effetti, a ben vedere, tutti i componenti di tale ufficio, potevano vantare un “pedegree” di una certa importanza, almeno localmente.
Per il Vicecapo Ufficio il lavoro in banca era una sorta di
“sinecura”: il grosso dei suoi introiti derivava da consulenze esterne a cui
dedicava tutto il tempo, comprese le ore di ufficio.
Fortunatamente c’era il giovane dottor Valentini, fanatico
giurista, che si faceva carico anche del lavoro degli altri, sia per il gusto
di eccellere nella sua materia, sia per un certo sadismo nel decretare la rovina finanziaria di una famiglia o di una azienda insolvente.
Le due raccomandate di ferro erano le signore “Petruzzelli
& Baldini”, ironicamente associate come una società commerciale non solo
perché amiche e alleate di ferro, ma anche perché i rispettivi mariti,
l’ingegner Petruzzelli e il commercialista Baldini, erano soci in affari.
Paola Petruzzelli e Francesca Baldini erano diplomate al
liceo classico, non sapevano nulla di questioni di ufficio e tanto meno di
questioni tecniche o legali: a dire il vero non si sapeva neppure quali fossero i loro
incarichi e le loro mansioni.
Fondamentalmente la Petruzzelli e la Baldini fungevano da
Gazzetta Ufficiale del Pettegolezzo: nulla di ciò che accadeva presso l’alta
società cittadina sfuggiva al capillare controllo della rete di amicizie delle
due interessatissime signore.
I loro dialoghi perenni toccavano comunque anche altre
“essenziali” questioni.
Paola Petruzzelli, bigotta e conservatrice, era
specializzata in argomenti tradizionali come aste di beneficenza, iniziative
parrocchiali, ricette di cucina, oroscopi, estrazioni del lotto, teleromanzi,
parole crociate.
Francesca Baldini, più progressista, era invece l’ arbitra
elegantiarum in fatto di ultime mode, acconciature, vestiario, viaggi, villeggiature.
Tra la scrivania della Petruzzelli, alla destra rispetto
all’ingresso, e quello della Baldini, alla sinistra, c’era il tavolo di lavoro
del ragionier Poponi, un ometto basso e grasso sulla cinquantina, trasandato,
scarmigliato, distratto, volenteroso ma mediocre lavoratore. Scribacchiava
continuamente scarabocchi incomprensibili su polverosi registri e fogliacci
semiaccartocciati, tentava poi di ricopiare sulla macchina da scrivere i suoi
appunti, sbagliando continuamente e borbottando tra sé.
Non parlava molto: di lui si sapeva che aveva una famiglia
numerosa e problematica, con una moglie gelosissima, una suocera terribile, due
cognate nubili a carico e cinque figlie una più brutta e antipatica dell’altra.
Altro personaggio che faceva parte per se stesso era il
geometra Cipressi: uomo alto, magro, taciturno, riservatissimo, pareva sempre
immerso in qualche fondamentale questione di lavoro, anche se nessuno avrebbe
saputo dire esattamente quali pratiche stesse seguendo. Neppure il Capo ufficio
Carlo Ozzani riusciva a svelare il mistero che circondava il geometra Cipressi:
quando gli chiedeva di cosa si stesse occupando, Cipressi era evasivo, cupo, terreo,
quasi sdegnato. Se veniva messo alle strette, si chiudeva in un ostinato
mutismo, interrotto solo da vaghe allusioni a un suo carissimo amico, ex
attendente del generale De Toschi. Al che, ogni questione subito si stemperava
in un nulla di fatto.
Tutti questi personaggi ebbero poi un ruolo più o meno importante in quello che fu chiamato in seguito "lo scandalo Ozzani", di cui si parlerà ampiamente in seguito.
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