Per molte generazioni i Monterovere si erano trasmessi, di padre in figlio, il mestiere di guardacaccia dell'antica Selva di Querciagrossa, che prendeva il nome, secondo le leggende più arcaiche, da un'enorme, immensa quercia, che fin dai tempi dell'Antico Patto tra le tribù dei Friniati e quelle dei Galli Boi, in funzione anti-romana, sarebbe stata il centro di un culto pagano, frutto della commistione del politeismo ctonio dei Friniati e della religione dei Druidi, comune a tutte le popolazioni celtiche, dai Britanni ai Galli e sopravvissuto segretamente e sottotraccia sia alla conquista romana della pianura padana, sia alla cristianizzazione.
Intorno a quella colossale quercia si pensa sorgesse l'originario villaggio di Querciagrossa.
Si manteneva vivo, tuttavia, nei Monterovere, un certo animo sdegnoso, una sorta di aristocrazia dello spirito, che attribuiva loro, forse anche a causa dell'alta statura e dell'indole burbera e solitaria, una specie di disprezzo nei confronti del mondo intero.
Ferdinando Monterovere (1848-1928), un colosso di due metri grande e robusto persino dopo aver compiuto gli ottant'anni, non aveva paura di niente, e si faceva beffe delle superstizioni dei suoi compaesani e persino in quella gelida notte di febbraio, non volle ascoltare le preghiere della sua anziana consorte, donna Enrichetta Bassi Pallai, e partì sfrecciando a cavallo del suo immenso destriero Sigismondo, nero come la pece, per compiere i suoi abituali pattugliamenti notturni.
E dunque, pur conoscendo queste leggende, Messer Ferdinando non aveva mai mostrato timore verso il luogo detto l'Orma del Diavolo e riteneva che la sua stirpe non corresse pericoli, poiché il biasimo era da attribuire ai Signori del Castello, non ai Guardacaccia.
Ma per dirla con Virgilio, "dis aliter visum": agli antichi dei parve giusto altrimenti.
Prova ne fu il fatto che, quando il patriarca Ferdinando non fece ritorno, i pochi coraggiosi che si avventurarono nella selva di Querciagrossa alla ricerca del vecchio, ritrovarono il suo cadavere vicino al corpo senza vita del cavallo stramazzato.
Il problema era però che il cavallo, nonostante l'età, si era sicuramente impennato, lasciato sul sentiero impronte sospettosamente profonde, come se avesse visto qualcosa di terrificante.
La vicenda suscitò profondo sgomento tra gli abitanti dei borghi limitrofi alla selva e al castello e rafforzò la loro superstizione sulla natura maledetta di quel luogo e di quel bosco.
Diverse furono le reazioni dei tre figli del defunto Ferdinando.
Il primogenito, Enrico Monterovere (1873-1953), prese una drastica decisione e scese a valle, nella Bassa, insieme alla moglie Eleonora Bonaccorsi e ai nove figli ch'ella gli aveva dato, sfidando le nebbie, le mosche, le zanzare e l'afa soffocante, si stabilì nelle paludose campagne ravennati.
Il secondogenito, Domenico, si arroccò nelle nevi del Monte Cimone, tra Sestola e Fanano. Il terzogenito, Bartolomeo, partì per le Americhe.
Difficile dire chi fece la scelta peggiore.

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