mercoledì 1 ottobre 2025

Vite quasi parallele. Capitolo 1. La misteriosa morte di Ferdinando Monterovere nella Selva di Querciagrossa, presso la località detta: l'Orma del Diavolo






Ancor oggi, a distanza di così tanto tempo, i frequentatori abituali della Vecchia Osteria alle pendici del castello di Montecuccolo, nei pressi di Pavullo del Frignano, a chi chiedesse loro di raccontare cosa accadde davvero a messer Ferdinando Monterovere, guardacaccia della selva di Querciagrossa, in quella maledetta notte di febbraio del 1928, risponderebbero scuotendo la testa e facendosi il segno della Croce.

Soltanto gli anziani più loquaci e gli avventori più dediti all'alcolismo sarebbero forse disposti, a chi offrisse loro una bottiglia di Lambrusco, accompagnata da un piatto di tigelle, a raccontare a bassa voce e guardandosi intorno con aria circospetta, la loro personalissima versione dei fatti.

E per quanto ognuno di loro finisca per perdersi in ipotesi inverosimili, tali racconti, come ben sa chi si è dato la pena di raccogliere le varie testimonianze, hanno tutti in comune alcuni punti fermi, divenuti ormai parte del folklore locale e a modo loro abbastanza coerenti col quadro storico delle vicende di quelle terre e delle persone e famiglie che vi sono vissute nell'arco dei secoli.

Tutte le versioni concordano su una necessaria premessa, ossia che la famiglia Monterovere fosse sorta in origine da una relazione adulterina e illegittima tra una seducente fattucchiera dei boschi e un membro illustre della nobile stirpe dei Montecuccoli, Conti di Querciagrossa, e a sostegno di questa ardita ipotesi vi è il fatto incontestabile che da sempre i Monterovere sono stati per secoli al servizio dei Montecuccoli in qualità di guardacaccia delle foreste che circondando l'antico e celebre Castello.







Per molte generazioni i Monterovere si erano trasmessi, di padre in figlio, il mestiere di guardacaccia dell'antica Selva di Querciagrossa, che prendeva il nome, secondo le leggende più arcaiche, da un'enorme, immensa quercia, che fin dai tempi dell'Antico Patto tra le tribù dei Friniati e quelle dei Galli Boi, in funzione anti-romana, sarebbe stata il centro di un culto pagano, frutto della commistione del politeismo ctonio dei Friniati e della religione dei Druidi, comune a tutte le popolazioni celtiche, dai Britanni ai Galli e sopravvissuto segretamente e sottotraccia sia alla conquista romana della pianura padana, sia alla cristianizzazione.

Intorno a quella colossale quercia si pensa sorgesse l'originario villaggio di Querciagrossa.




Ma con l'andare dei secoli i tempi si inasprirono e quando il Cristianesimo divenne religione di stato dell'Impero Romano, per ordine dell'imperatore Teodosio con l'Editto di Tessalonica, nell'Anno Domini 380, il culto pagano sarebbe stato infine scoperto e per esortazione del Vescovo di Milano, Sant'Ambrogio, fu dato ordine che la Grande Quercia venisse abbattuta e data alle fiamme.







Ma è convinzione comune e diffusa in quelle plaghe che nemmeno i tentativi di riconsacrare questo luogo sotto l'egida della religione cristiana, da parte dei sacerdoti locali, per esorcizzare in qualche modo le presenze maligne, siano riusciti a sradicare dalla gente del posto la convinzione che in quel sito, attorno al quale sorse la Selva di Querciagrossa, aleggiassero ancora gli antichi spiriti pagani, Elfi, Fate e Folletti d'ogni genere, tanto che coloro che si trovavano costretti dalle circostanze a percorrere quella landa malfamata, l'avevano soprannominata, facendo i dovuti scongiuri, l'Orma del Diavolo.







Gli abitanti dell'antico borgo di Querciagrossa, anche per causa delle scorrerie dei barbari che invasero di lì a poco l'Impero Romano, si ritirarono in cima a una collina più alta, dove rifondarono un villaggio che prese il nome di Montecuccolo.
Numerosi dominatori si succedettero in quei luoghi, fino a quando, secondo la non molto affidabile opera "La dinastia Montecuccoli: onore e gloria", scritta e data alle stampe a proprie spese, nell'Ottocento, dal preside Attilio Melegatti, "nel secolo VII giunse dalle brume dell'Alemagna, più a settentrione della selva di Turingia, un guerriero Sassone, dai capelli e dalla barba lunghi e d'un biondo chiarissimo, come i suoi occhi di ghiaccio, che ricordò alle genti longobarde d'Emilia donde venissero e dove, un giorno, sarebbero dovute tornare, quando fosse stato fondato l'Impero Millenario". Non sappiamo cosa intendesse dire il Melegatti, ma è proabibile che si riferisse al Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca, oppure alla Triplice Alleanza dell'Italia con il Secondo Impero Tedesco del Kaiser Guglielmo e con l'Impero Austro-Ungarico.



Sempre secondo il Melegatti "...v’ha dunque chi crede che cotesto guerriero di Sassonia, che rispondeva al nome di Gerhard, s'unisse in giuste nozze con la figliuola d'un nobile Longobardo, il quale lo insignì della signoria del borgo di Montecuccolo, opinione questa che il Tiraboschi, sdegnato, dichiara favolosa."

Ma ancor più fiabesca è la leggenda, riportata, seppur con sdegno ancor superiore a quello di Girolamo Tiraboschi, da parte dello storico Adolfo Franceschini, che molti anni dopo, un suo discendente, "...un altro Gherardo da Montecuccolo, fosse fatto Cavaliere niente meno che da da una fata di nome Guendalina Dal Fiume, che poi divenne sua sposa, e insieme a lui gettò le fondamenta del castello e della nobile schiatta dei Montecuccoli".





Il Franceschini conclude dicendo: "Della famiglia Montecuccoli scrissero in ogni secolo, per celebrarne la grandezza, e storici e poeti. E’ comunemente chiamata famiglia nobilissima et antica, che può gareggiare colle primarie d’Italia e d’Europa, chiara poderosa per illustri gesta militari, per vastità di domini, per privilegi et honori senza aver bisogno di ricorrere all’impostura per mettere in luce le sue glorie. Dei Montecuccoli può dirsi con Dante che in loro la virtù scendeva per li rami delle querce".

E uno di questi rami fu per l'appunto quello dei Monterovere, di cui il primo che si ha notizia, mastro Antonio, si dice che fosse nato per l'appunto dalla seduzione da parte di una fattucchiera dei boschi di roveri e farnie dell'allora giovanissimo futuro ed illustrissimo feldmaresciallo Raimondo Montecuccoli, (1609-1680), XIII Conte di Querciagrossa, Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine del Toson d'oro, successivamente creato Graf von Hohenegg, Osterburg, Gleiss ed Haindorf dal pio d devoto Sacro Romano Imperatore Ferdinando III d'Asburgoche gli riconobbe il merito di aver consolidato, per le sue doti di grande condottiero nella guerra contro gli Ottomani, la potenza asburgica lungo il corso del Danubio.





"E e fu dunque per gli onori concessi dall'imperatore Ferdinandoconclude il preside Melegatti, affiancando nuovamente con eccessiva disinvoltura la storia con la leggenda: "che il nome del cristianissimo Asburgo, discendente diretto del re cattolico Ferdinando d'Aragona, per il tramite di Giovanna la Pazza e Filippo il Bello, e del loro secondo maschio, esso pure Ferdinando, e sposo di Anna Jagellonide, Regina di Boemia e di Ungheria, divenne ricorrente per debito di riconoscenza anche nella discendenza dei Monterovere".

Tutto questo onore concesso a re e imperatori cattolici forse non piacque agli spiriti pagani, i quali, non potendo punire i Montecuccoli poiché la loro discendenza si era infeudata in terra teutonica, fino a generare il Reichskanzler Georg Leo Graf von Caprivi von Montecuccoli (Charlottenburg, 24 febbraio 1831 – Frankfurt an der Oder, 6 marzo1901), generale prussiano, cavaliere dell'Ordine dell'Aquila Nera, politico integerrimo e successore di Otto von Bismarck al governo del Secondo Impero Tedesco, per nomina del Kaiser Guglielmo II von Hohenzollern, finirono col punire i Monterovere.






Ma mentre i Montecuccoli prosperavano e raggiungevano i vertici degli imperi, al contrario i Monterovere rimanevano semplici Luogotenenti in absentia, e successivamente semplici guardacaccia da lungo tempo privati di signoria e comando.

Si manteneva vivo, tuttavia, nei Monterovere, un certo animo sdegnoso, una sorta di aristocrazia dello spirito, che attribuiva loro, forse anche a causa dell'alta statura e dell'indole burbera e solitaria, una specie di disprezzo nei confronti del mondo intero.

Ciò metteva in soggezione gli altri abitanti della zona, che provavano una sorta di timore reverenziale nei confronti di "messer Ferdinando", quando pattugliava a cavallo la foresta e il villaggio, spingendosi fino alla collina e alle mura del castello.

Ferdinando Monterovere (1848-1928), un colosso di due metri grande e robusto persino dopo aver compiuto gli ottant'anni, non aveva paura di niente, e si faceva beffe delle superstizioni dei suoi compaesani e persino in quella gelida notte di febbraio, non volle ascoltare le preghiere della sua anziana consorte, donna Enrichetta Bassi Pallai, e partì sfrecciando a cavallo del suo immenso destriero Sigismondo, nero come la pece, per compiere i suoi abituali pattugliamenti notturni.




Ma qualunque fosse il legame dei Monterovere con gli antenati celti, goti, longobardi e sassoni, segretamente devoti gli spiriti della natura, l'Antico Patto con l'Erlkoenig locale era stato da tempo infranto dai Montecuccoli, gettando la disgrazia anche sul ramo cadetto della dinastia.

Tuttavia il vecchio Ferdinando non era poi così severo come lo si descriveva, e anzi con i suoi numerosi figli e nipoti amava trascorrere intere serate accanto al focolare, raccontando le antiche leggende, fino a che la brace non si spegneva e l'unica luce rimasta era quella degli elfi e folletti e spiritelli che invano tentavano di ricondurre Messer Ferdinando all'Antica Via dei Druidi e degli dei pagani.

















E dunque, pur conoscendo queste leggende, Messer Ferdinando non aveva mai mostrato timore verso il luogo detto l'Orma del Diavolo e riteneva che la sua stirpe non corresse pericoli, poiché il biasimo era da attribuire ai Signori del Castello, non ai Guardacaccia.

Ma per dirla con Virgilio, "dis aliter visum": agli antichi dei parve giusto altrimenti.
Prova ne fu il fatto che, quando il patriarca Ferdinando non fece ritorno, i pochi coraggiosi che si avventurarono nella selva di Querciagrossa alla ricerca del vecchio, ritrovarono il suo cadavere vicino al corpo senza vita del cavallo stramazzato.

Certo, la spiegazione più razionale sarebbe stata che un uomo anziano come lui poteva essere caduto da cavallo per aver perso il controllo delle redini, o per un malore, ma questo non spiegava la morte del cavallo.

Poteva essere stato lo stesso cavallo, anch'esso non più giovanissimo, ad essere stramazzato a terra, portandosi dietro all'altro mondo il suo padrone, ammesso che esista un altro mondo per i cavalli, per non parlare degli umani.
Il problema era però che il cavallo, nonostante l'età, si era sicuramente impennato, lasciato sul sentiero impronte sospettosamente profonde, come se avesse visto qualcosa di terrificante.





La vicenda suscitò profondo sgomento tra gli abitanti dei borghi limitrofi alla selva e al castello e rafforzò la loro superstizione sulla natura maledetta di quel luogo e di quel bosco.

Diverse furono le reazioni dei tre figli del defunto Ferdinando.

Il primogenito, Enrico Monterovere (1873-1953), prese una drastica decisione e scese a valle, nella Bassa, insieme alla moglie Eleonora Bonaccorsi e ai nove figli ch'ella gli aveva dato, sfidando le nebbie, le mosche, le zanzare e l'afa soffocante, si stabilì nelle paludose campagne ravennati.

Il secondogenito, Domenico, si arroccò nelle nevi del Monte Cimone, tra Sestola e FananoIl terzogenito, Bartolomeo, partì per le Americhe.

Difficile dire chi fece la scelta peggiore.

 





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