mercoledì 23 aprile 2025

Dal Patrimonium Sancti Petri allo Stato Pontificio: mappe e storia del Papato


Durante l'Alto Medioevo, mentre l'Italia passava dalla dominazione duplice e rivale dei Longobardi e dei Bizantini, in seguito alla conquista dell'Esarcato di Ravenna e del Ducato Romano-Bizantino da parte del re longobardo Liutprando, e al successivo intervento dei Franchi, l'autorità bizantina su Roma cessò definitivamente ed i poteri politici sulla città e sul Lazio passarono al Pontefice Massimo, il Vescovo di Roma, che già dai tempi di Gregorio Magno amministrava il Patrimonium Sancti Petri, ossia l'entità che riuniva la proprietà della diocesi del pontefice di Roma (sede apostolica petrina che però ancora non deteneva un primato amministrativo sulle altre diocesi della Chiesa cattolica, ma solo un primato in termini di prestigio) che i documenti chiamano Patrimonium Sanctae Romanae Ecclesiae (rivendicando il primato di Roma).

Il successore di Liutprando, Astolfo, cercò di unificare l'Italia sotto il loro dominio, ma i pontefici Zaccaria e Stefano II si opposero. Papa Zaccaria siglò un'alleanza con i Franchi, autorizzando Pipino il Breve a deporre l'ultimo re merovingio, Childerico III, nel 751. ma l'intervento di Pipino il Breve. Quando Astolfo conquistò l'Esarcato di Ravenna, la Pentapoli e marciò verso Roma, nel 754, il nuovo papa, Stefano II, formalizzò l'alleanza con Pipino il Breve tramite la Promissio Carisiaca, impropriamente detta Donazione di Pipino, in base alla quale Pipino e suo figlio Carlo ricevettero l'unzione regale in cambio del loro sostegno contro i Longobardi. Pipino sconfisse Astolfo e conquistò l'Esarcato di Ravenna e la Pentapoli che, formalmente e teoricamente furono promessi al Pontefice come donazione feudale, cosa che divenne concreta soltanto secoli dopo, dal momento che il reale controllo militare spettò ai Franchi e al dominio dell'Esarca succedette quello dell'Arcivescovo di Ravenna, all'epoca molto autonomo rispetto alla Santa Sede di Roma.

Fu così che sorse l'entità che gli storici chiamano Papato, perché sarebbe anacronistico usare il termine Stato Pontificio o Stato della Chiesa, in quanto lo stesso termine Stato designa un'entità centralistica che controlla politicamente e burocraticamente un territorio , cosa che nel Medioevo, almeno fino al Trecento, non esisteva.
Nel periodo medievale centrale il territorio poteva essere controllato da un regno, un principato o un repubblica che esercitava tale autorità in maniera indiretta e decentrata, per mezzo del sistema vassallatico-beneficiario, base del feudalesimo.




Il termine Stato, che prima significava solo "status Regni", ha iniziato ad avere l'accezione moderna dal XV secolo, e si è poi affermata attraverso l'uso che ne fa Niccolò Machiavelli nell'incipit della sua celebre opera Il principe (1513), in cui lo usa come termine analogo a dominio. Il mutamento che ha portato la parola "Stato" da un significato generico di situazione a uno specifico di condizione di possesso di un territorio (e di comando sui suoi cittadini) non è ancora stato ben chiarito. Il concetto di sovranità è invece stato introdotto da Jean Bodin (1586), che ha definito le caratteristiche dello Stato assoluto.

Una cosa è certa, fino al Rinascimento non si usò mai il termine Stato Pontificio o Stato della Chiesa. C'era il Patrimonium Petri, che coincideva, all'incirca, all'ex ducato romano di età bizantina, e poi c'erano altri patrimonia sui quali la Curia Romana avanzava diritti di proprietà o di signoria feudale.

In molti atlanti storici e manuali scolastici di Storia e negli atlanti meno precisi si commette un errore grossolano sostenendo che le Donazioni dei Carolingi ai papi Stefano II e Leone III, negli anni successivi alla Promissio Carisiaca (754) e alla cosiddetta Donazione di Carlo Magno (774), conferissero l'effettivo controllo, da parte del Papato di Roma, della Romagna, o Romandiola, in precedenza costituita dall'Esarcato bizantino di Ravenna e da parte della Pentapoli (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona). Questi territori non divennero un reale dominio del Papa, ma costituirono tre entità relativamente autonome: l'Arcivescovato di Ravenna, la Marca di Ancona e il Ducato di Spoleto, che solo teoricamente e astrattamente risultavano feudi del Papato, mentre in realtà, come si è detto, erano controllati militarmente dai Franchi e dai Longobardi a loro sottomessi.

Papa Adriano I, con molto senso della realtà, avanzò richieste solo su territori che confinavano con il Lazio. Fu così che ottenne da Carlo Magno una parte della Sabina (781); una serie di città da Soana a Populonia a nord e, a sud, Sora, Arpino, Arce e Aquino (787).

L'insieme dei territori cui la Sede Apostolica aspirò con Stefano II e Leone III assomigliava molto all'Italia suburbicaria di romana memoria. Quello che ottenne effettivamente invece parve ricalcare il distretto giudiziario del Praefectus Urbis, che si estendeva sul Lazio per cento miglia romane sia nord che a sud dell'Urbe, cioè da Talamone, presso il Monte Argentario, fino a Minturno, sul fiume.




Va quindi ribadito chiaramente che le donazioni di Esarcato e Pentapoli in teoria le avrebbero rese feudi del Papa, ma in pratica, almeno fino ad Innocenzo III, questo vassallaggio fu solo nominale, mentre il potere reale venne detenuto dall'Arcivescovo di Ravenna, che all'epoca non riconosceva la supremazia apostolica del Papa di Roma, e dalle grandi famiglie franche, longobarde e italiche che poi divennero, sotto la dinastia imperiale sveva, il centro delle signorie ghibelline in Italia.

Intorno all'anno 1000, sotto il regno dell'imperatore Ottone III, il centro-nord dell'Italia, si presentava all'incirca come le mappe che vediamo qui sotto. Il Regnum Italiae comprendeva la Longobardia, la Romandiola (che coincide con la Romagna attuale, mentre l'Emilia era longobarda da secoli e poi inserita nei domini dei Franchi), la Pentapoli (da Rimini ad Ancona), la Marca di Toscana, il Ducato di Spoleto e naturalmente il Patrimonium Petri, signoria territoriale del Papa di Roma. 







In riferimento alle mappe sottostanti, va ricordato che la Longobardia Maior si era estesa fino a inglobare l'Esarcato, il quale soltanto in teoria fu donato alla Sede Romana, ma nella pratica la signoria papale era solo nominale e sistematicamente ignorata e anche apertamente contestata, persino dal Arcivescovo di Ravenna (la Diocesi ravennate, infatti, aspirava a diventare qualcosa di simile a ciò che erano i vescovi-conti nell'Impero degli Ottoni e della dinastia Salica).

La successiva dinastia imperiale degli Hohenstaufen di Svevia tentò, sotto Federico II, di unificare l'Italia sotto il dominio imperiale, ma la la morte di Federico nel 1250, seguita dalle sconfitte di Corrado IV, suo figlio Corrado V (detto Corradino) e del fratello Manfredi, re di Sicilia, sancirono la vittoria del Papato, alleato con Carlo d'Angiò, fratello di San Luigi IX, re di Francia.

Nel 1278 l'imperatore Rodolfo I d'Asburgo rinunciò a ogni pretesa feudale sulla Romandiola, consentendo a papa Niccolò III Orsini di nominare suo nipote Bertoldo alla carica di Conte di Romagna. 

Bertoldo Orsini dovette però scontrarsi con le resistenze dei Comuni e delle Signorie locali.






A Niccolò III succedette brevemente Celestino V, che rinunciò alla carica pontificia a favore del cardinale Caetani, che divenne papa Bonifacio VIII.
Contrariamente ai suoi predecessori, papa Bonifacio, pur inizialmente alleato col Re di Francia Filippo IV il Bello e al fratello di lui, il conte Carlo di Valois, osò successivamente infrangere l'alleanza francese, quando re Filippo pretese che la Chiesa pagasse le tasse alla Corona di Francia. 

Quando Bonifacio VIII si oppose, Filippo mandò il suo primo ministro Nogaret ad Anagni, dove il Papa si trovava per questioni di salute. Nogaret osò percuotere il Papa, episodio passato alla storia come "lo Schiaffo di Anagni". Papa Bonifacio ne fu a tal punto sconvolto che morì poche settimane dopo, nel 1304.

Gli succedette, per dirla con i versi di Dante "di ver ponente e di più laida opra un pastor sanza legge", ossia Clemente V, che spostò la sede del Papato ad Avignone.
Seguirono anni turbolenti, che videro lo sterminio dell'Ordine dei Templari, ordinato sempre da Filippo il Bello, e il rischio di scomunica dei Francescani "spirituali" da parte di papa Giovanni XXII, negli anni tra il 1314 e il 1327.

Papa Innocenzo VI, per riprendere il controllo dei territori del Papato in Italia, nominò l'arcivescovo di Toledo, Cardinale Edigio Albornoz, al rango di Nunzio Pontificio e Vicario Generale terrarum et provinciarum Romane Ecclesie in Italie partibus citra Regnum Siciliae.

L'Albornoz fu sotto molti aspetti il vero fondatore dello Stato Pontificio.
 
Le Constituziones Egidiane del cardinale Albornoz rappresentano la prima fase del passaggio della Signoria Papale all'entità che poi, in Età Moderna, sarebbe diventata lo Stato Pontificio.
Tale documento, redatto a metà del Trecento, durante il periodo avignonese, rivendicava la proprietà o il vassallaggio dei territori donati in base ai seguenti trattati:

Ducato romano (754) donato da Pipino il Breve
Sabina (dal Tevere fino a Farfa, 781) donato da Carlo Magno
(Queste prime due entità costituirono il Patrimonium Petri)

Benevento (1052) donato da Roberto I d'Altavilla, re normanno di Sicilia.
Avignone e Contado Venassino (1229) donati dal re di Francia, Luigi IX il Santo.

Provincia Romandiolæ (1278) ceduta dall'imperatore Rodolfo I d'Asburgo (in cambio dell'incoronazione imperiale che però non ebbe mai luogo, perché Rodolfo a stento riusciva a controllare i feudi tedeschi)
Marca Anconitana e Ducato di Spoleto (1278) ceduti da Rodolfo I d'Asburgo e rinconquistati dal cardinale Egidio Albornoz.

Fu però soltanto tra il pontificato di Alessandro VI Borgia e quello di Giulio II Della Rovere che le annessioni precedenti divennero effettive e stabili.




Le successive annessioni furono:

Umbria (1424)
Città di Ancona (1532)
Ducato di Castro (1649)
Ducato di Ferrara, divenuto legazione (1598)
Ducato di Urbino, divenuto legazione (1631)




Dopo il superamento dello Scisma Occidentale e il ritorno di papa Martino V a Roma, lo Stato Pontificio iniziò a consolidarsi e ad assumere un controllo sempre più diretto sui territori rivendicati dai tempi delle donazioni carolinge.

Giulio II della Rovere annesse definitivamente le Marche, la Romagna e Bologna. Da quel momento, fino al 1870, lo Stato della Chiesa divenne un principato potente dell'Italia centrale.
Lo Stato Pontificio cadde sotto il pontificato di Pio IX, quando venne a mancare la protezione francese da parte di Napoleone III, sconfitto a Sedan.
La breccia di Porta Pia segnò l'annessione dello Stato Pontificio al Regno d'Italia.
Pio IX si ritirò nel Vaticano e solo con i patti Lateranensi, nel 1929, si giunse al riconoscimento della Città del Vaticano come stato autonomo della Santa Sede.



lunedì 21 aprile 2025

La possibile "soluzione Kellogg" per l'armistizio in Ucraina


 Gli analisti la chiamano "soluzione Kellogg", dal nome dell'inviato americano Ketih Kellogg che da oltre un mese sta tenendo le fila di una trattativa ad ampio spettro per l'armistizio in Ucraina, un compromesso che sembra trovare consensi persino tra i cosiddetti "volenterosi" riguardo al futuro di un paese che da tre anni vive le devastazioni di una guerra che nessuno si rassegna a perdere, ma che nessuno può vincere.
Il punto interessante della proposta di Kellogg, quello che sembra piacere sia a Trump che a Macron e a Starmer, con una sorta di silenzio assenso da parte di Putin e Zelensky è il seguente: il presidente ucraino, consapevole del fatto che ormai più che i fondi e le armi mancano gli uomini, sarebbe disposto a permettere la permanenza delle truppe russe nei territori attualmente occupati, in cambio di un cessate il fuoco che preveda una sorta di tripartizione militare del paese. 
Come si è detto, la parte occupata dai russi rimarrebbe sotto il loro controllo "de facto", mentre la restante parte dell'Ucraina si dividerebbe ufficiosamente in due zone: una a oriente del fiume Dniepr sotto l'esclusivo controllo delle truppe ucraine, onde evitare che, nella zona del fronte, ci possa essere un confronto diretto tra truppe occidentali e truppe russe; l'altra zona, a occidente del Dniepr prevedrebbe una temporanea presenza di contingenti britannici e francesi come bilanciamento della presenza russa nel sud-est.
La questione estremamente delicata e tutti sono consapevoli che la presenza di truppe occidentali in Ucraina sarebbe un grande pericolo per la pace globale, ma Keith Kellogg ritiene, e non è il solo, che, se a Putin fosse concesso di mantenere il controllo russo sul sud-est ucraino, dalla Crimea fino al Lugansk, allora lo Zar potrebbe accettare che l'Ucraina occidentale diventasse una sorta di protettorato "anglo-francese". 
La novità della proposta di Kellogg, che ha avuto carta bianca da Trump, consiste nell'evitare ogni possibile punto di contatto nella zone del fronte tra le truppe russe e quelle occidentali: la zona demilitarizzata dovrebbe essere completamente priva di operatori militari, idea che all'inizio è apparsa bizzarra e non sostenibile, ma che col passare dei giorni e il dilungarsi delle trattative ufficiali, si è fatta strada come unico compromesso che offra a tutte le parti in gioco un "contentino".
Putin potrebbe rivendicare il successo dell'Operazione Militare Speciale, Zelensky potrebbe rivendicare il merito di aver salvato dall'occupazione russa la grande maggioranza del territorio ucraino, i "Volenterosi" potrebbero ottenere la loro fetta della torta nell'Ucraina occidentale e gli USA, tramite un accordo più o meno formale con il presidente ucraino potrebbero avere i contratti di collaborazione per i rilevamenti delle fantomatiche "terre rare" e delle meno fantomatiche risorse minerarie e agricole di cui l'Ucraina orientale dispone.
Il punto debole rimarrebbe la zona di contatto dell'area occidentale con quella russa nella zona dell'oblast di Kherson e anche qui Kellogg ha messo in tavola un compromesso che potrebbe risolvere una volta per tutte il contenzioso che ha dato inizio alla guerra già nel 2014 e cioè la questione della Crimea e quella di Odessa e dell'accesso al mare dello stato ucraino.
Zelensky potrebbe essere disposto a rinunciare alla Crimea a patto che Putin rinunci definitivamente ad ogni rivendicazione sull'oblast di Odessa e sulla città di Kherson, pur mantenendo il controllo dell'oblast a oriente del Dniepr.
L'adesione alla Nato sarebbe rinviata "sine die", ma di fatto ci troveremmo di fronte a una soluzione che può ricordare quella decisa a Yalta sulla Germania nel '45 oppure la famosa soluzione "coreana".
In realtà qui si salverebbero le apparenze: ufficialmente i confini restano quelli teorici del '94, ma ufficiosamente l'Ucraina occidentale vedrebbe un'influenza europea militare nella zona a sinistra del Dniepr, un'influenza economica statunitense nella zona a oriente del fiume, e una occupazione russa radicata nelle zone che Putin considera ormai sue e quindi non negoziabili.
La diplomazia sta lavorando intensamente da ormai un mese su questo possibile compromesso e, dietro al "gioco delle parti" svolto dai leader per riaffermare le rispettive istanze, ci sarebbero degli ammiccamenti dettati dall'oggettiva stanchezza da parte dei cittadini dell'Ucraina e della Russia per una guerra che sta annientando un'intera generazione in entrambi i paesi, senza però scalfire il potere dei rispettivi presidenti che continuano a guardarsi ovviamente in cagnesco, ma sotto sotto si rendono conto che per ragioni demografiche, oltre che umanitarie, politiche ed economiche, questa potrebbe essere una onorevole via d'uscita da un tunnel che da tre anni sembra senza vie d'uscita.
Ora esiste un compromesso che sta circolando, una tregua pasquale offerta da Mosca e una volontà statunitense di arrivare il prima possibile a un accordo, tenendo conto anche dei fermenti di Parigi, Londra e Bruxelles.


venerdì 11 aprile 2025

La nostra storia

 

Tu 
che non mi riconosceresti;
io 
che ti confondo in mille volti;
tu 
che sei andata molto avanti;
io 
che sono fermo da una vita;
tu 
che non sei più quella di un tempo;
io 
che per amore tuo ho perduto tutto;
tu 
che non dicevi mai né sì, né no;
io 
che camminavo sui carboni ardenti;
tu 
che facevi finta un po' di non capire;
io 
che non osavo dir quel che sapevi già;
tu 
che non ricordi più di me nemmeno il volto;
io 
che ho tatuato il tuo su occhi e cuore;

esci 
dalla mia mente,
esci, 
fuggi dalla mia mente,
fuggi!

Come il silenzio, 
noi scenderemo ognuno
per le proprie scale,
non penseremo più
al tuo bene ed al mio male,
e poi che vada tutto un po' 
come gli pare!
Come il deserto,
che avanza dentro me
veloce come il suono,
la nostra storia brucerà
un'ultima volta
e finalmente poi sarà
soltanto fumo!
Che ne faremo 
di questa fiaba 
che si ferma e poi riparte
di questo amore
che non nasce e che non muore?
Dalla corrente 
ci faremo trasportare
e finalmente tutto svanirà.
Svanirà,
svanirà,
svanirà...


Il freddo della stanza che raggela
e il luogo dove tu posasti lieta 
ora deserto e nel silenzio solo 
si sente l'aspra loquela
dei presenti, e l'eco dei ricordi, muta,
oltre la biblioteca, e sento che è reale
solo la tua assenza:
tutto il resto è morto, finto, vano
e come queste scale 
tutto scende, precipita, si schianta.


Gli oggetti sono ancora al loro posto
a custodire muti la quiete polverosa 
delle stanze, nell'oppiaceo incantesimo 
che inutilmente finge un'illusione:
come se i decenni non fossero sfumati
nell'inconcludenza di un tempo nascosto
già negli interstizi e sotto i tappeti.
E non serve a nulla fare l'inventario 
delle cose perdute, per poi soffocare dentro
l'urlo dei rimpianti e appoggiarsi a questi 
arredi fragili come fossero pilastri
mentre tutto frana intorno
e i volti a poco a poco si congedano.









martedì 1 aprile 2025

La sirena


Se nel profondo più remoto del tuo cuore
vi fosse anche solo una grana di zucchero,
un briciolo di dolcezza, un'eco dello splendore
magico, malinconico del tuo sguardo d'angelo
falso, della fatale tua malia di fata e di sirena,
allora forse avrei potuto amarti e piangere
di gioia e di dolore una vita intera insieme a te, 
nella beata valle dei rari ricambiati palpiti. 
E invece il cuore tu l'hai massacrato a me,
tu a cui troppi doni ha regalato la fortuna:
anche per te verrà il giorno in cui i petali
di una privilegiata giovinezza ad uno ad uno
precipiteranno a terra e la vita sarà inquieta
e ti ricorderai di me, che t'avrò dimenticata.




Gli oggetti sono ancora al loro posto
a custodire muti la quiete polverosa 
delle stanze, nell'oppiaceo incantesimo 
che inutilmente finge un'illusione:
come se i decenni non fossero sfumati
nell'inconcludenza di un tempo nascosto
già negli interstizi e sotto i tappeti.
E non serve a nulla fare l'inventario 
delle cose perdute, per poi soffocare dentro
l'urlo dei rimpianti e appoggiarsi a questi 
arredi fragili come fossero pilastri
mentre tutto frana intorno
e i volti a poco a poco si congedano.


Tu 
che non mi riconosceresti;
io 
che ti confondo in mille volti;
tu 
che sei andata molto avanti;
io 
che sono fermo da una vita;
tu 
che non sei più quella di un tempo;
io 
che per amore tuo ho perso proprio tutto;
tu 
che non dicevi mai né sì, né no;
io 
che camminavo sui carboni ardenti;
tu 
che facevi finta ancor di non capire;
io 
che non osavo dire quello che già sapevi;
tu 
che non ricordi più di me nemmeno il volto;
io 
che ho tatuato il tuo su occhi e cuore;
esci 
dalla mia mente,
esci, 
fuggi dalla mia mente,
fuggi!
Come il silenzio, 
noi scenderemo ognuno
per le proprie scale,
non penseremo più
al tuo bene ed al mio male,
e poi che vada tutto un po' 
come gli pare!
Come il deserto,
che avanza dentro me
veloce come il suono,
la nostra storia brucerà
un'ultima volta
e finalmente poi sarà
soltanto fumo!
Che ne faremo 
di questa fiaba 
che si ferma e poi riparte
di questo amore
che non nasce e che non muore?
Dalla corrente 
ci faremo trasportare
e finalmente tutto svanirà.
Svanirà.
Svanirà...

giovedì 20 marzo 2025

"Adolescence": una serie orribile, crudele e sopravvalutata, dove Netflix ha toccato il fondo



 Non è una novità il fatto che molte serie TV di Netflix affrontino in maniera estremizzata e politicizzata argomenti molto complessi ed estremamente delicati, a volte in maniera interessante e coinvolgente, altre volte in maniera forzata e artificiosa. Queste forzature, spesso accompagnate da una specie di teorema socio-politico da dimostrare partendo da presupposti spesso arbitrari e discutibili, fino ad ora non avevano mai oltrepassato il limite di quella che io chiamerei "crudeltà" più che crudezza, perché la crudezza fa parte dei generi sia cinematografici che televisivi, ma la crudeltà è inammissibile, anche quando viene usata per cercare di sensibilizzare il pubblico su tematiche importanti, ma che possono e devono essere trattate con delicatezza e umanità, senza le quali si passa dalla parte del torto, cosa che è accaduta con "Adolescence" (2025).

Non c'è bisogno di spoiler per argomentare questo giudizio, anche perché il primo, enorme, pugno nello stomaco, arriva quasi subito con una scena che mostra l'arresto di un bambino, da parte di una squadra di poliziotti armati fino ai denti che fanno irruzione in casa come se dovessero arrestare un boss della mafia.
Non ci viene risparmiato niente, in termini di crudeltà e di assurdità: non conosco le procedure della polizia britannica, ma mi rifiuto di credere che sia possibile sottoporre un tredicenne, seppur accusato di un grave crimine, a una tale tortura fisica e psicologica che mi ha fatto inorridire.

Il mio primo impulso è stato quindi quello di fermarmi, di interrompere lì, perché il disgusto era troppo forte e doloroso, ma poi mi sono detto: "magari hanno voluto épater les bourgeois, e durante la serie si giustificherà e si rimedierà, ammesso che sia possibile, questa tale mancanza di pietà umana".
E invece no: più si va avanti più il sadismo di questa fiction cresce di livello. Persino gli avvocati e gli psicologi si comportano in maniera totalmente, totalmente, e ripeto totalmente fuori non solo da ogni tipo di professionalità, ma anche da ogni tipo di umanità.
Non voglio entrare nel merito della trama perché preferisco scrivere recensioni senza spoiler, per cui vengo subito al nocciolo della questione: qui si criminalizza un bambino bullizzato e sconvolto soltanto per fare un impasto di scandalo e di critica politica e sociologica a determinate teorie che io non conoscevo e avrei preferito non conoscere.
Queste teorie che Netflix mette sotto accusa sono talmente banali e grossolane che non meritavano di certo una serie tv che le pubblicizzasse, perché alla fine uno dei danni di questa miniserie di 4 puntate (una peggio dell'altra) è l'effetto boomerang di rendere credibili queste teorie.

Farò solo alcuni accenni ai punti essenziali di questa specie di ideologia sessista con presunti sfondi suprematisti o reazionari: si parla dei cosiddetti "incel", i celibi involontari ossia i maschi che vorrebbero avere una fidanzata o una compagna, ma non la trovano. Già questa definizione ci fa capire la povertà contenutistica di tutto il discorso che Netflix vorrebbe contrabbandare come categoria filosofica dilagante tra i ragazzini maschi. Verrebbe in effetti quasi da ridere, se non ci fosse da indignarsi per come questa serie è stata realizzata, perché il cosiddetto "incel" non è altro che la versione 5.0 dello sfigato, e lo dico appartenendo io stesso honoris causa al club degli sfigati, come del resto la maggior parte dell'umanità. 
Il secondo concetto è quello della teoria cosiddetta LMS (Look, Money, Status), che mi sembra un'ovvietà e cioè il fatto che se sei bello, ricco e famoso sei considerato più appetibile da parte della maggioranza delle donne.
Insomma è la scoperta dell'acqua calda.
Su Netflix però tutto fa brodo, per cui gli Incel che credono nella teoria LMS sarebbero dei potenziali assassini.
Affrontare i temi del sessismo e del femminicidio in questo modo è assurdo e contro-produttivo.
Ma non è finita qui: spunta anche la pillola rossa, che in Matrix aveva un grande significato, ma qui indica la teoria RedPill che sembra sostenere che l'80% delle donne desideri solo il 20% degli uomini, mentre non sarebbe vero il viceversa a causa di argomentazioni pseudoscientifiche a cui non doveva essere data tale visibilità.
Insomma, da un lato c'è l'ovvietà del fatto che essere belli, ricchi e famosi rende gli uomini attraenti e dall'altro invece c'è una teoria pseudoscientifica assurda che viene presa assurdamente sul serio.

L'unico tema invece drammaticamente reale, e cioè il cyberbullismo che crea poi complessi di inferiorità e genera rabbia viene sfiorato en passant senza essere stigmatizzato più di tanto perché in questo caso era una ragazza a bullizzare un ragazzo, cosa che si capiva già dalla prima puntata, e sinceramente non rendeva affatto simpatica questa ragazza, che poi è la vittima del femminicidio di cui il ragazzo è accusato, proclamandosi innocente.
Già in questa seconda puntata Netflix ha fatto tutto il possibile per creare un effetto boomerang, e cioè quello che in gergo si dice "processo alla vittima", quello in cui la gente dice "be', insomma, quella ragazza se l'è cercata". Ebbene, al termine della seconda puntata anche il più convinto femminista finirebbe per pensare quella frase e oserei dire che anche una parte del pubblico femminile finirebbe per biasimare la ragazza per la sua crudeltà gratuita, perché se la prende con l'unico che, in una circostanza grave, l'aveva difesa.

Naturalmente Netflix ci offre la spiegazione psico-socio-politologica già nella terza (e penultima, grazie al cielo) puntata di questo strazio.
La scena è ai limiti del teatro dell'assurdo e vede il confronto tra una giovane psicologa che ha già deciso a priori che la colpa è tutta del padre del ragazzo, e il ragazzo stesso che cerca di difendere il padre, che, pur essendo stato un genitore con qualche pecca (e chi è senza peccato scagli la prima pietra), non è poi tanto diverso da un qualsiasi comune cittadino, sia esso padre o madre, celibe o nubile. Ma non importa: Netflix, come la psicologa, ha già trovato il responsabile di tutto, il colpevole ideale, il "mandante morale", e cioè il patriarcato.

Io sono cresciuto in una famiglia matriarcale e la maggioranza delle famiglie che ho conosciuto sono basate su una madre caratterialmente più forte del padre e decisamente dominante. Non per questo però io mi sognerei mai di dare al matriarcato una connotazione negativa.
Ma la cosa più assurda è che il padre in questione non è affatto un maschio alpha patriarcale, ma lo era il nonno. E qui passiamo dalla tragedia alla farsa: la colpa è moralmente del nonno che però non compare mai, è un'entità astratta di cui la psicologa muore dalla voglia di parlare mentre il ragazzo tenta disperatamente di far capire alla psicologa che a bullizzarlo non è stato né il padre, né il nonno, ma i compagni di classe (cosa tipica) e in particolare una ragazza.
Di fronte alla mancanza totale di tatto e di professionalità della psicologa, che persino di fronte alla domanda disperata del bambino: "Secondo lei sono brutto?", gli nega una risposta che possa rincuorarlo perché comunque è un maschio e come tale già marchiato da un peccato originale, il ragazzo ha una reazione scomposta che avrei avuto anch'io se fossi stato trattato in quel modo.
A questo bambino, e lo chiamo così perché anche se gli attribuiscono 13 anni di età, a me sembra un bimbo delle scuole elementari, fanno passare le pene dell'inferno per 3 orribili, crudeli e insensate puntate.

Io speravo che nella quarta ci fosse il processo con lo scagionamento dell'imputato, come compensazione di tutto il male che gli hanno fatto prima, e invece no: l'ultima puntata non c'entra quasi niente col resto: c'è il compleanno del padre, festeggiato dalla moglie e dalla figlia, ma preso di mira dai vicini di casa e dai bulletti del quartiere per via del figlio arrestato, che però non compare se non tramite una telefonata in cui comunica una sua decisione, che ovviamente non rivelo.
Segue un giorno di ordinaria follia, in cui il padre ne subisce di tutti i colori e alla fine si arrabbia, come si sarebbe arrabbiato chiunque al posto suo.
Poi magicamente, dopo la telefonata del figlio, tutto cambia e si passa a un "volemose bene" da cui però il figlio è escluso, non perché non sia amato e ricordato dai genitori e dalla sorella, ma semplicemente perché per Netflix quel ragazzo è un mostro terribile peggio di Jack lo Squartatore e merita le pene dell'inferno.

Allora, io non sono certo tenero verso gli attuali teen-ager, ma durante queste orribili e strazianti quattro puntate ho sperato in tutti i modi che quel ragazzino venisse in qualche modo consolato da qualcuno, a prescindere dai fatti che non vengono nemmeno ben chiariti del tutto, (ma questo finisce per diventare marginale rispetto alla pena che provavo per il bambino) e invece niente: nessuno cerca di capire davvero il punto di vista di Jamie (così si chiama il protagonista).

Poi, sconsolato per la tristezza immensa del finale, vado a vedere le recensioni ed ecco che subito trovo le recensioni entusiaste da parte delle testate radical-chic e le analisti dei loro psicologi à la page, come Paolo Crepet,  e l'esaltazione parossistica delle riviste che in gergo vengono definite woke (termine con cui in America si indica una forma estrema di progressismo).
Certo, il fatto che Netflix abbia aderito in maniera totalitaria e acritica ad una forma piuttosto aggressiva ed estrema di progressismo (e lo dico da progressista dotato di buon senso) è cosa nota, ma fino ad ora queste esagerazioni potevano essere in qualche modo tollerate se la storia raccontata era coinvolgente.
Ma qui, con "Adolescence" si è veramente toccato il fondo: in nome di un femminismo fanatico al limite dalla paranoia si demonizza un ragazzino bullizzato e lo si tortura per 3 puntate, per poi sacrificarlo nella quarta, dove anche il padre viene crocefisso "in sala mensa" come Fantozzi.
Ma siccome tutto questo viene fatto per demonizzare il genere maschile e la generazione dei padri (siano essi Boomer o Millennials), allora i recensori si esaltano.
Io sono disgustato e profondamente amareggiato per questa crudeltà di una tv che vorrebbe essere all'avanguardia dei diritti civili e invece spiattella luoghi comuni a caso mentre tutti fanno la caccia alla volpe contro un bambino bullizzato che ha la sola colpa di non aver retto alla tensione e di essere caduto in raptus che solo a causa di un altro tizio diventa una cosa seria.
Anche qui non posso entrare nei particolari, perché ho promesso di evitare spoiler, quindi giudicherete voi chi è il colpevole.
A mio parere di colpevole ce n'è solo uno: Netflix. 


sabato 1 marzo 2025

Quello che non abbiamo avuto


Noi abbiamo sognato in grande:
stelle, galassie, universi interi,
nebulose, viaggi, distanze siderali.
Noi eravamo i visionari, l'onda
che si è infranta, gli anormali
naufragati tra un millennio e l'altro, 
già obsoleti, a detta dei nativi digitali.
Loro sono invece troppo scaltri,
ci tarpano le ali e irridono l'immenso.
Ecco quel che non abbiamo avuto:
in cambio ci hanno dato i cellulari.




Io che non ho vinto quasi mai
ma sempre duramente combattuto
sopravvissuto a fin troppe battaglie,
adesso a cinquant'anni ormai
mi sono all'improvviso ritrovato
collezionista di coppe e di medaglie
anche se ho combinato alcuni guai,
forse perché ferito troppe volte,
mal curato tra ruggine e ferraglia,
malato, stanco, ma non disertai
il campo di battaglia della vita.

Gli oggetti sono ancora al loro posto
a custodire muti la quiete polverosa 
delle stanze, nell'oppiaceo incantesimo 
che inutilmente finge un'illusione:
come se i decenni non fossero sfumati
nell'inconcludenza di un tempo nascosto
già negli interstizi e sotto i tappeti.
E non serve a nulla fare l'inventario 
delle cose perdute, per poi soffocare dentro
l'urlo dei rimpianti e appoggiarsi a questi 
arredi fragili come fossero pilastri
mentre tutto frana intorno
e i volti a poco a poco si congedano.




Se nel profondo più remoto del tuo cuore
vi foss'anche solo una grana di zucchero,
un briciolo di dolcezza, di splendore
malinconico, magico del tuo sguardo d'angelo
falso, della fatale tua malia di fata e di sirena,
avrei potuto forse amarti, persino, e piangere
di gioia e di dolore una vita intera insieme a te, 
nell'amena valle dei rari ricambiati palpiti, 
e invece il cuore tu l'hai massacrato a me,
tu a cui troppi doni ha regalato la fortuna.
Anche per te giorno verrà in cui i petali
della privilegiata giovinezza ad uno ad uno
precipiteranno a terra e la vita sarà inquieta
e ti ricorderai di me, che t'avrò dimenticata.

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 "Vedo foreste assolate, e verde intero sereno. Lì presto cammineremo, quando verrà l'estate".

sabato 22 febbraio 2025

Mappe araldiche controverse, antichi ordini cavallereschi e relative onorificenze

 




Nello stemma della "Grande Ungheria" o Greater Hungary pensato nel 1848, si riprendono alcuni stemmi di difficile interpretazione, ma che sono riuscito a riconoscere dopo lunghe ricerche: sulla destra, qui sotto, al di sotto dello stemma della Transilvania c'è uno stemma con un lupo o levriero bianco passante su campo rosso (gli stemmi successivi in senso orario sono quelli di Cumania, Triballia, Rascia, Lodomeria, Galizia, Slavonia, Croazia e Dalmazia):



che sta ad indicare, secondo questo link https://hu.wikibooks.org/wiki/F%C3%A1jl:Bulg%C3%A1ria_c%C3%ADmer.PNG un antico scudo rappresentante un territorio al di sotto dei Carpazi, chiamato Piccola Bulgaria, ma difficilmente individuabile, anche se noi ci proveremo.

 A volte tale stemma si accompagna , nei blasoni del Regno di Ungheria o dell'Impero Austro-Ungarico, nell'Ottocento, con un altro analogo con tre lupi o levrieri bianchi passanti su campo rosso a cui si attribuisce il nome di Grande Bulgaria,



la cui spiegazione è a questo link https://hu.wikibooks.org/wiki/C%C3%ADmerhat%C3%A1roz%C3%B3/Bulg%C3%A1ria_c%C3%ADmere
che  fa rifermento al fatto che molti re ungheresi usarono reclamarono il titolo di Re di Bulgaria. comprese alcune famiglie come i Vízkelethy (1569), che però presentano un lupo o levriero bianco rampante, e dominavano su un distretto distante dal territorio bulgaro, ma con legami dinastici con nobili famiglie bulgare fedeli al regno di Ungheria. Un'altra ipotesi riguarda la famiglia Vidak che inserisce nel proprio blasone allargato un quadrante con tre lupi bianchi passanti indicandoli come "Bulgaria".
 Ad una analisi più accurata i lupi sembrano più levrieri, con collari dorati intorno al collo.
Secondo Ede Ivánfi , questo era lo stemma congiunto di Bulgaria e Slavonia, ma si tratta si una semplice rassomiglianza, poiché lo stemma della Slavonia presenta una martora marrone passante su campo rosso e lo possiamo vedere qui sotto sul lato sinistro. 
In molti altri stemmi araldici disegnati da Carolus Franciscus Palma, compaiono i tre levrieri passanti su campo rosso, che potrebbero derivare da una difficile interpretazione di un antichissimo stemma del primo Zar di Bulgaria, che vede tre belve passanti, che potrebbero essere leoni, come nello stemma della Guardia Reale Bulgara. 






E' ipotizzabile che si sia stata una confusione tra i leoni e i levrieri poiché lo stemma originario era disegnato molto rozzamente. Il passaggio successivo sarebbe stato quello di cambiare il colore in bianco su campo rosso facendo confusione con lo stemma della Slavonia, da cui sarebbe poi derivato quello molto simile della presunta Piccola Bulgaria.

Però la questione non può essere liquidata così rapidamente, perché i due stemmi, sia della Piccola Bulgaria che della Grande Bulgaria continuano a ripetersi e a raffinarsi in molti altri stemmi asburgici come il seguente.


In base a quanto scritto supra, è possibile una ulteriore deduzione che deriva dall'esame dei tre stemmi soprastanti che indicano i Regni vassalli della Corona Ungherese, la quale reclamava sovranità su questi tre reami i cui stemmi passo a descrivere, da sinistra a destra.
1) Il primo è il Voivodato di Slavonia, Transilvania e Cumania.
2) Il secondo è il Regno di Croazia, Dalmazia e Zara (o Zadar).
3) Il terzo è il più controverso da in interpretare perché unisce lo stemma del levriero passante, attribuito alla Bulgaria, quello della Bosnia Serba con il braccio armato e sciabola della guardia asburgica (che impose tale scudo a tutto il protettorato di Bosnia-Herzegovina poi annesso all'Impero Austro-Ungarico nel periodo tra il 1889 e il 1918), quello della Triballia, con testa di cinghiale e freccia (che è un territorio ora diviso tra Serbia e Bulgaria e fu dominato alternativamente, nella storia, dalla corona serba e da quella bulgara, e quello della Rascia o Serbia Antica, con tre ferri di cavallo su campo blu. 




Ora, considerando che Bosnia Serba (Banato di Bosnia), Rascia e Triballia sono parti dell'Impero Serbo di Stefan Dušan Nemanjić (26 luglio 1308 – Prizren, 20 dicembre 1355) che ha come stato vassallo anche lo Zarato Bulgaro di Tarnovo il cui nome deriva dal fatto che Tărnovo è stata la capitale della Bulgaria dal 1185 al 1393 (Secondo impero bulgaro) col nome di Tărnovgrad, e di nuovo dal 1878 al 1879,




E questo ci porta a scoprire che lo stemma della città di Tarnovo è quello con le tre belve passanti



E lo stemma dello Zarato riprende quello precedente con colori invertiti.


La successiva trasformazione è stata la seguente, nella formulazione di Jacob Franquart per il corteo funebre di un Asburgo:



Resta però aperta la domanda del perché non si è utilizzato questo stemma, nel blasone dei tre Regni sottomessi alla Grande Ungheria (quello slavo-galiziano, quello croato e quello serbo-bulgaro) e si è preferito invece quello della cosiddetta "piccola Bulgaria", spesso confuso con quello della Slavonia.

E qui scopriamo che la confusione tra gli stemmi di Slavonia e quelli di Bulgaria è più ampia di quanto si notasse all'inizio perché nell'Armoriale di Fojnica, che rappresenta l'Impero Serbo come auspicato Impero Illirico o Jugoslavo, le tre belve rosse passanti vengono attribuite alla Slavonia





La descrizione è la seguente, che riportiamo citandola dalla fonte già indicata nei link forniti e tradotta in italiano:

"Ogni scudo è etichettato con il nome della regione o del popolo che rappresenta:
  • Macedonia: Scudo rosso con un leone rampante dorato.
  • Illiria: Scudo rosso con una mezzaluna bianca e una stella a otto punte.
  • Bosnia: Scudo dorato con due asce incrociate e un simbolo centrale.
  • Dalmazia: Scudo blu con tre teste di leone coronate d'oro.
  • Croazia: Scudo a scacchiera rossa e bianca.
  • Slavonia: Scudo bianco con tre martore rosse.
  • Bulgaria: Scudo dorato con un leone rampante rosso.
  • Serbia: Scudo rosso con una croce bianca e quattro simboli simili a "C" (o fuoco).
  • Rascia: Scudo blu con tre ferri di cavallo bianchi.
  • Primorje: Scudo rosso con una scimitarra e una torre. "
E qui l'errore è macroscopico: lo stemma attribuito alla Slavonia non presenta affatto tre martore rosse, ma come possiamo vedere bene si tratta dei tre levrieri che continuano a ricomparire nei vari blasoni oscillando continuamente tra Slavonia e Bulgaria.

Possiamo intuire quindi che, così come sono stati scambiati i tre levrieri, allo stesso modo lo stemma reale della Slavonia, con una sola martora, è stato scambiato con quello di una ipotetica Piccola Bulgaria con un levriero solo.


Chiediamo aiuto alle mappe dei territori a cui si è ispirata la bandiera del blasone serbo-bulgaro



Possiamo vedere come la concezione alto-medievale del concetto di Slavonia fosse molto più estensiva di quella attuale (ossia una regione interna alla Croazia) e dunque nella mentalità dei clerici del tempo, a cui era demandato il compito di tramandare la cultura trascrivendo gli antichi documenti e creandone di nuovi, l'Illiria, la Slavonia e la Bulgaria (prima della conquista ungherese della pianura pannonica) erano territori confinanti che condividevano la stessa religione del cristianesimo orienale dei santi Cirillo e Metodio e avevano come punto di riferimento culturale e politico l'Impero Bizantino.

La confusione alto-medievale tra Slavonia in senso lato e Bulgaria ha influenzato lo sviluppo dell'araldica danubiana e quando i Magiari hanno conquistato un enorme territorio che andava ben oltre i confini dell'attuale Ungheria, la loro percezione della Slavonia e della Bulgaria come potenziali vassalli o ha contribuito ulteriormente all'equivoco e allo scambio degli stemmi che abbiamo esaminato.

Infine, dopo la conquista da parte dell'Impero Ottomano e la successiva riconquista da parte dell'Impero Asburgico, l'araldica danubiana era ancora ferma alle fonti medievali e non aveva beneficiato dello sviluppo araldico occidentale. Si dovette aspettare il Settecento perché gli storici e i geografi e genealogisti mettessero mano al materiale e cercassero di rielaborarlo.

In tale contesto quindi non c'è da stupirsi se gli studiosi in buona fede non si sono accorti dell'equivoco e hanno attribuito alla Bulgaria stemmi che erano più appropriati per la Slavonia e vicecersa.

L'olandese Jan van der Bruggen, nel 1737, attribuì alla Bulgaria (che era ancora una provincia ottomana) lo stemma col singolo levriero bianco nella sua mappa araldica:















Possiamo vedere che il territorio della Triballia è in effetti confinante e in parte sovrapposto a quello della Bulgaria, sfiorando la regione della sua capitale, Sofia, il cui stemma è il seguente.



Qui la belva rampante è una sola



















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