giovedì 3 luglio 2014

Vacanze da sogno





































Elves and Faeries













Caspar David Friedrich, le rovine di Eldena (1825) Il Monastero di Eldena era un'abbazia cistercense nei pressi dell'odierna città di Greifswald in Pomerania, nel nord della Germania. 



















A che mitologia appartengono le fate? Qual è il loro aspetto?


La fata è una creatura leggendaria, presente nelle fiabe o nei miti di origine principalmente celtica, italiana e francese, ma che trova comunque figure affini nelle mitologie dell'Europa dell'Est.
Nell'originale accezione dell'Europa meridionale (senza influenze celtiche) è totalmente sovrannaturale, cioè non ha nulla di umano se non l'aspetto. Il nome fata deriva dall'altro nome latinodelle Parche, che è Fatae, ovvero coloro che presiedono al Fato (dal latino Fatum ovvero "destino"). La fata è un essere etereo e magico, una sorta di spirito della Natura.



Origine


L'immagine che noi abbiamo di una Fata ben si accosta a quella delle dame del XIV secolo
Le fate sembrano ereditare i loro poteri ed il loro aspetto da alcuni personaggi della mitologia classica, ovvero principalmente dalle ninfe e dalle Parche. Come le ninfe, esse sono spiriti naturali che hanno sembianze di fanciulla; come le Parche presiedono al destino dell'uomo, dispensando vizi o virtù.
Le prime fate appaiono nel medioevo come proiezione delle antiche ninfe, ma vengono per la prima volta ufficializzate verso la fine del medioevo e prendono l'aspetto classico delle dame dell'epoca, che indossavano ingombranti copricapi conici (hennin) e lunghi abiti colorati. Man mano venne attribuita loro la verga (bacchetta) magica che possiamo ritrovare anche nell'Odissea (Circe).
Successivamente ogni fiabista ha aggiunto particolari al loro carattere. Uno spaccato di come sono le fate lo troviamo ne La bella addormentata sia di Perrault sia dei fratelli Grimm ed ancora in Pinocchio, dove alla fata turchina viene ufficialmente assegnato il colore blu, colore del sovrannaturale e della magia.

Origine mitica

Fin dai tempi più remoti si è sempre ritenuto che gli esseri fatati, quelle creature che rappresentano l'infinità contenuta nel cuore e nell’anima di ciascuno di noi, avessero origini più antiche di quelle umane e perfino di quelle animali; quindi, essendo stato creato per ultimo, l’essere umano è considerato come una forma di vita che ha ancora molto da imparare dalle altre specie.

Illustratione di Alexander Sharp dal libro The Goblins' Christmasdell'autrice Elizabeth Anderson
L'origine delle fate è da sempre stata varia a secondo delle culture e per questo motivo ci vengono fornite diverse teorie che spiegano la nascita di tali creature.
Una leggenda islandese, poi convertita in un racconto cristiano da parte dei monaci missionari, afferma che Eva era intenta a lavare i suoi figli, quando Dio le rivolse la parola; allora ella, impaurita, nascose i figli che ancora non aveva lavato. Quando Dio le chiese se tutti i suoi figli fossero presenti, Eva gli rispose di si e ciò provò la collera di Dio che dichiarò: "Come tu hai nascosto i tuoi figli alla mia vista, così essi rimarranno per sempre nascosti alla tua!"; tramite questo racconto si presume quindi che le fate un tempo fossero mortali puniti per colpa dei peccati di Eva.
Una tradizione popolare, diffusa nelle campagne influenzate dalla cultura celtica, invece, afferma che questi essere fatati siano "angeli caduti", condotti fuori dal paradiso da Lucifero ma non abbastanza crudeli da essere rinchiusi nell’inferno e quindi destinati ad abitare sulla terra; inoltre si afferma che in base al luogo del loro atterraggio essi assumano le caratteristiche dell’ambiente, come ad esempio le fate che sono cadute nell’acqua che si sono trasformate in ondine o ninfe marine.
Un’ultima credenza, nata dalla mitologia greca, sull’origine delle fate, ma per molti considerata la più importante, narra di tre dee, figlie di Zeus, responsabili della vita dell’uomo; queste dee venivano chiamate parche e custodivano nelle loro mani un filo lunghissimo, prezioso e magico che rappresentava il destino degli uomini. Ogni giorno la dea più anziana lo tesseva con infinita cura e lo misurava con particolare attenzione, mentre la dea più piccola lo tagliava e quando venivano infastidite dal comportamento degli umani erano in grado di tagliarlo di netto e di aggrovigliarlo nel più fastidioso dei modi in modo da infliggere una giusta punizione alla razza umana.

Fairy e fate


Illustrazione di John Bauer del racconto Seven Wishes
Fondamentalmente l'assonanza ha portato ad associare la fata alla fairy inglese e celtica (presenti in alcune commedie dello stesso William Shakespeare), ovvero ad alcuni esponenti del piccolo popolo. Creature piccole e con le alucce, che preferiscono rimanere invisibili all'occhio umano.

Credenze locali

Nei racconti popolari della Romagna (che prima di essere romanizzata era un territorio abitato da popolazioni celtiche, i Galli Senoni) un posto di rilievo è dedicato agli esseri fatati. Uno studio pubblicato nel 1927 da Nino Massaroli (Diavoli, diavolesse e diavolerie in Romagna) rappresenta quasi sempre la fata,
« quale fiorisce nelle novelle del focolare romagnolo, sotto forma di una veccia-vecchina; pulita, linda, dall’aria casalinga e simpatica di nonnina (…) Essa ha un preciso e gentile incarico, un esatto compito: disfare i malefici delle streghe; difendere le creature prese di mira dai geni del male, dai mostri della notte (…) Le fatine romagnole amano mostrarsi sotto forme piccolissime (…) La fata romagnola abita nella cappa del camino, sulla quercia dell’aia, nei pignattini del pagliaio »
(il pagliaio romagnolo s’erge sull’aia a forma conica retto da un’asta interna, sulla cui cima mettono un orinale od un pignattino per scongiurare le streghe).
Le fate romagnole dispensano protezione in particolare ai bimbi appena nati. Per ricevere la loro benevolenza occorreva svolgere vari rituali scaramantici come quello di offrire pani bianchi o rosate focacce (…) durante il loro passaggio, che in vari luoghi dell’Alpe di Romagna, avviene al vigilia dei morti, o la notte di Natale o dell’Epifania oppure recitare paròl faldédi (parole fatate) ed anche formole d’invocazione che in Romagna Toscana usavano dire a propiziarsi la fata del mattino nel mettersi in viaggio, e che vive tutt’ora in bocca ai fanciulli romagnoli: Turana, Turana - Rispondi a chi ti chiama - Di beltà sei regina - del cielo e della terra - di felicità e di buon cuore.
Alle fate è infine dedicato un racconto ambientato nelle colline fra Castrocaro e Faenza:
« Sotto Monte Sassone, accanto ai ruderi del castello della Pré Mora (Pietra Mora), nel banco dello spungone sullo strapìombo della voragine del rio della Samoggia, fra le colline a monte di Faenza e Castrocaro nella zona di demarcazione dell’antico confine fra la terra del Papa e quella del Granducato, sono scavate le quattro grotte delle fate (chiamate anche busa – buca - e camaraz – cameraccie). Questa pietra era un prodigioso palazzo, nei lontani millenni delle Fate che lo disertarono quando l’uomo non credette più alla poesia, ma vi lasciarono, pegno del ritorno, i loro magici telai d’oro, su cui l’anima tesseva le canzoni che nessuno sa più! E perché l’uomo non ne facesse sua preda, confidarono la guardia dei telai a un biscione che sibila minacce e con un soffio precipita nella voragine le ladre scalate, quando mai tentassero le porte inviolabili. »
(L. de Nardis, La Piè, 1925.)

Lily fairy (1888) di Luis Ricardo Falero (1851-1896)

In Lucchesia e in Garfagnana varie leggende sono associate alle fate. In particolare si dice che in alcuni luoghi alpestri è possibile, all'alba, vedere dei riflessi bianchi verso la cima delle montagne; tali riflessi non sarebbero altro che i bianchi vestiti delle fate stesi al sole (il bucatino delle fate - attestata a Cerasomma, presso Lucca. Alla Pieve dei Monti di villa vi sono coppelle sulle rocce identificate come "le conchine delle fate". Ragguardevole infine una leggenda garfagnina descritta dal Guidi secondo cui le fate avrebbero dei bambini. Nella leggenda uno di essi viene raccolto dagli uomini che dovranno infine restituirlo in quanto, ogni notte, le fate sarebbero venute a chiamarlo.
In Bretagna le fate vengono chiamate druidesse. Hanno il potere di penetrare i segreti della natura ed inoltre hanno la possibilità di apparire dal mondo dell'invisibile; esse abitavano in fondo ai pozzi, in riva ai torrenti, in oscure caverne o nelle parti più remote delle foreste ed il loro potere principale, potere simile alle maghe orientali, era quello di poter trasformare gli uomini in bestie.
Nelle leggende bretoni le fate rivestono un ruolo molto importante in quanto si credeva che la loro amicizia o il loro odio potessero decidere della felicità o della disgrazia di una famiglia: con l'avvento di una nuova nascita, i Bretoni avevano gran cura di apparecchiare, in una camera appartata, una tavola servita abbondantemente, con lo scopo di ottenere il consenso favorevole da parte delle fate, di onorarli della loro presenza ed infine per dedicare le loro belle doti al nuovo nascituro.
Altre antiche leggende narrano che quando tutti dormivano, le fate lavoravano nelle fattorie, o nelle botteghe, e per imbonirsi i loro favori si offrivano loro dei doni in modo da ricevere protezione e fortuna; invece, quando c'era il fallimento dei raccolti o il susseguirsi di malattie piuttosto che dare la colpa al destino, o all'inefficienza umana, venivano incolpati gli spiriti maligni che venivano scacciati con riti e incantesimi.
Nei romanzi cavallereschi e nei racconti compaiono sovente una fata buona, che la maggior parte delle volte viene sconfitta, e una fata cattiva, che gode di una potenza maggiore.
Viviana e Morgana ne sogno gli esempi più noti.
Ad oggi ci sono molti monumenti a riprova della credenza nelle fate come ad esempio le grotte delle Fate, dove la gente si reca faticosamente perché si afferma che al loro interno ci sia un'acqua che possegga delle virtù miracolose; inoltre ci sono parecchie fontane consacrate ad alcune fate, le quali tramutavano in beni preziosi la mano degli indiscreti che lordavano le loro sorgenti.

Aspetto

Le fate sono tutte di sesso femminile ed hanno le sembianze di una donna non molto alta e molto gracile dalla pelle chiarissima, quasi perlacea.




Il loro abbigliamento è quello tipico delle donne del XIV e XV secolo con il caratteristico Hennin (ovvero un lungo cappello conico o a tronco di cono) ed abiti variopinti, che compaiono anche nel ritratto di Maria di Borgogna.




Ogni fata indossa un abito di un solo colore che rispecchia la sua personalità. Inoltre portano gonne lunghissime per coprire eventuali deformità (quasi ogni fata presenta infatti una parte del corpo bovina o caprina, come code, zoccoli ed alcune persino la testa) e cappelli lunghissimi per sembrare più alte.

Vita

Le fate vivono molto a lungo, ed una volta che finiscono la loro vita non muoiono, ma si incantano nei propri palazzi dove restano per l'eternità (da Perrault).
Nonostante, quindi, possano raggiungere età molto avanzate, hanno la possibilità di mostrarsi sotto qualsiasi spoglia esse vogliano, che sia di bambina (da Collodi), di giovane o di anziana. Hanno infatti pieni poteri di trasformarsi in ciò che vogliono.
La nascita delle fate è avvolta nel mistero. Alcune ipotesi (anche se non avvalorate da nessuna fiaba o mito) ritengono che le fate siano prodotti spontanei della natura o anche che abbiano una madre comune, una specie di ape regina che le origina tutte.
Varie fonti letterarie (BasileCalvinoPerrault ed altri) attestano che le fate abitano spesso in palazzi sotterranei molto lussuosi, accessibili solo da personaggi prescelti.
Non è neppure raro che le fate sposino umani, le loro figlie tuttavia raramente ereditano poteri.

Compiti

Sono esseri che hanno come compito quello di vegliare sulle persone come angeli custodi, quindi di dispensare pregi e virtù tramite le loro Fatagioni (Basile) e di proteggere i bambini, vengono infatti definite "comari" (o madrine nella accezione moderna) e si prendono cura di un figlioccio che viene o affidato loro dai genitori stessi, o viene da loro prescelto.


Carattere

La loro indole tuttavia non è univocamente buona. Oltre alla vanità ed all'egocentrismo che le distingue, sono fortemente permalose ed irascibili, un solo torto può scatenare la loro ira ed il loro dispetto può trasformarle in furie e può spingerle a lanciare maledizioni. Hanno quindi oltre ad un ruolo di premiazione anche un ruolo fortemente punitivo.

Le fate nelle arti figurative: la fairy art

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi pittura vittoriana.
Si definisce fairy art un movimento artistico tipicamente britannico che ha a che fare con la raffigurazione di fate in pittura, illustrazione e fotografia: durante il periodo vittoriano, la raffigurazione artistica delle fate conobbe il suo periodo di massimo splendore, con artisti come Arthur RackhamJohn Anster Fitzgerald o Henry Meynell Rheam


Fate di Cottingley

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi fate di Cottingley.
Nel 1917, due ragazze, Frances Griffith e Elsie Wright, scattarono alcune foto ritraendole in compagnia di fate. Sul primo momento nessuno diede credito alla storia delle bambine, neanche le loro madri, che infatti tennero segrete le foto. Nel 1919 però la madre di Elsie Wright inviò le fotografie della figlia ad un'associazione teosofica. Sir Arthur Conan Doyle, si interessò al caso, scrivendo un libro: The Coming of the Fairies (1922). La storia aveva raggiunto una portata enorme, negli anni ottanta, anno in cui morirono le protagoniste del caso, queste rivelarono la verità. Il tutto fu il frutto di uno scherzo, le due bambine ritagliarono del cartone dandogli la forma di una fata per poi colorarlo e aggiungergli dettagli. Nel 1986, Francis, era in età piuttosto avanzata, confessò la falsità delle prime quattro foto, e aggiunse che la quinta fu l'unica ad essere stata realmente scattata in compagnia di fate egnomi veri.

Le fate dei monti Sibillini

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi Sibilla Appenninica.
Le Fate dei monti Sibillini animano le narrazioni, le leggende e le tradizioni di magia e simbolismo legate al territorio compreso tra il monte Vettore e il monte Sibilla. Descritte come giovani donne di gradevole aspetto abitatrici dellagrotta della Sibillaoracolo degli Appennini, esse costituivano la sua stessa corte. Dedite all’insegnamento delle arti femminili del tessere e del filare amavano scendere nottetempo a valle per intrattenersi nelle danze con i pastori locali seguendo scrupolosamente il rituale di ritirarsi in montagna prima del sorgere del sole.
Le sembianze del dio Cervo (Cernunnos) sono presenti, tra l’altro, sui capitelli della cripta della chiesa di S. Lorenzo a Montemonaco (AP). L’edificio sacro si trova in una zona chiamata Vallegrascia (Valle Grassa) e la sua dislocazione sicuramente fa riferimento a questa divinità del Popolo delle Fate che rappresentava l’abbondanza (viene sempre raffigurato con la cornucopia mentre amorevolmente nutre i serpenti).

Note

  1. ^ vedi Le Fate di Perrault.

Bibliografia

  • Margaret A. MurrayIl Dio delle Streghe, Ubaldini, Roma, 1972. (codice Bibliografia Nazionale - 734451).
  • Herbert William Parke, Sibille, ECIG, Genova 1992. ISBN 88-7545-482-5
  • Andrea da Barberino, Guerrino detto il Meschino, Nuove edizioni romane, Roma, 1993. ISBN 88-85990-10-X
  • Laura RangoniLe fate, Xenia, Milano 2004. ISBN 88-7273-519-X
  • Howard Phillips LovecraftSulle fate in In difesa di Dagon e altri saggi sul fantastico, Sugarco Edizioni, Varese 1994. ISBN 88-7198-272-X
  • Mario Polia, Tra Sant'Emidio e la Sibilla. Forme del sacro e del magico nella religiosità popolare ascolana, Arnaldo Forni Editori, Bologna, 2004, pp. 228 - 231;
  • Renzo Roiati, La Sibilla Appenninica e le nove stelle maggiori della vergine, Edizioni Lìbrati, Tipografia Fast Edit di Acquaviva Picena (Ascoli Piceno), luglio 2006, pp: 77 - 82;
  • Cassandra Eason, "Fate e creature magiche; la chiave del mondo segreto", Venexia, Roma, 2007;

mercoledì 2 luglio 2014

Miti e leggende medievali e shakespeariane nella pittura di J.W. Waterhouse



La dama di Shalott, John William Waterhouse,1888, olio su tela, 153 x 200 cm, Londra, Tate Gallery.

In quest’opera, tratta da un poema di Tennyson, Waterhouse fonde il classicismo di Frederich Leighton con l’estetismo dei preraffaelliti. Circondata da un paesaggio dalle tinte autunnali, la dama di Shalott si allontana da Camelot trasportata dall’acqua, abbandonandosi al tragico destino come l’eroina dell’Ophelia di Millais. Ella ormai non è più una dama potente ma una fanciulla indifesa, e i suoi abiti sgargianti sono stati sostituiti da un semplice vestito bianco.

Ophelia, John William Waterhouse, 1889, olio su tela di canapa, 97,79 x 158,12cm, collezione privata.


Nella sua prima versione dedicata al tema della morte di Ophelia, Waterhouse la raffigura stesa su un prato in un atteggiamento di folle abbandono, mentre passa una mano tra i capelli arruffati, e con l'altra stringe un mazzolino di fiori. Gli altri fiori selvatici che ha raccolto giacciono scomposti tra le pieghe del vestito. Sullo sfondo, attraverso gli esili tronchi dei salici, percepiamo le folate di vento che trascinano in basso le rondini. 

Mariana nel Sud, John William Waterhouse, 1897, olio su tela, 114,3 x 74 cm, collezione privata.




Mariana, personaggio sheakesperiano di “Misura per misura” e protagonista di un poema di Tennyson, si presta particolarmente come soggetto preraffaellita per la sua natura malinconica. La fanciulla è già stata rappresentata da Millais, ma Waterhouse sceglie di illustrare un passo della seconda poesia di Tennyson, “Mariana nel sud” che si sofferma sulla disperazione della donna. Mariana osserva con tristezza il suo riflesso nello specchio, contemplando la sua bellezza passando le mani tra i capelli in un gesto presente anche in “Hylas” e nell’ “Ophelia” del ‘94. Il suo fascino è destinato a morire in solitudine, lettere d’amore non corrisposto sono sparse sul pavimento; una scheggia di luce entra dalla porta socchiusa sullo sfondo, ma la donna non se ne cura, e rimane in contemplazione nella sua solitudine di penombra.


Juliet, John William Waterhouse,1898, olio su tela, 70 x 46,3 cm, collezione privata di Julian Hartnoll.




Il dipinto è realizzato durante un periodo di malattia, per questo motivo è di dimensioni ristrette ed adeguate al cavalletto, rispetto alle solite grandi tele. La composizione è semplice e basata sull’unica figura di Giulietta, la cui posa è ispirata ad una assunta per caso dalla modella (l’opera è anche conosciuta con il titolo “La collana blu”) che cammina lungo un canale in stile veneziano. E’ evidente che l’artista desidera evadere dalla realtà rifugiandosi in un quadro ottimista e più confortante rispetto alle elaborate visioni di donne femme-fatale. 

Sotto, Lady Macbeth si incorona Regina di Scozia