Dopo la fine della seconda guerra mondiale, lo stato polacco che era stato rifondato nel 1919 col trattato di Versailles, alla fine della prima guerra mondiale, subì notevoli cambiamenti.
La parte orientale venne annessa in parte alla Lituania (Vilnius), in parte alla Bielorussia (Pinsk) e in parte all'Ucraina (L'viv, ex Leopoli). I polacchi di quelle zone furono costretti da Stalin ad emigrare verso ovest nei territori della Slesia e della Prussia Orientale, che erano stati sottratti alla Germania. I tedeschi di quei luoghi furono in parte costretti a emigrare e in parte rinchiusi nei gulag staliniani in Siberia.
Le zone in rosso indicano le regioni polacche dove ha vinto il candidato liberale europeista, mentre le zone in azzurro indicando dove ha vinto il candidato della destra anti-europeista.
Un paese di quasi 40 milioni di abitanti, alla frontiera orientale della Nato e dell’Ue, integrato nel sistema economico tedesco senza condividerne la moneta.
In vent’anni, i polacchi hanno prodotto un miracolo: il reddito medio pro capite è passato da un quarto alla metà di quello tedesco; il tasso di crescita è stato mediamente di tre punti più alto che in Germania; solo l’economia della Polonia, fra quelle europee, ha evitato la recessione prodotta dalla crisi mondiale del 2007-2009, continuando a crescere, sia pure di poco, mentre l’Eurozona sprofondava. Chiunque percorra le vie di Varsavia e delle principali città polacche, ricordando come fossero alla fine dell’èra comunista, resta colpito dal senso di relativo benessere, di vitalità e di efficienza. Insieme alle privatizzazioni, al buon uso dei fondi di coesione europei, alla stabilità politica e macroeconomica con conseguente incentivo agli investimenti esteri, non c’è dubbio che la disponibilità di una moneta nazionale - dunque di un tasso di cambio flessibile - abbia alquanto contribuito al miracolo.
Ora che sperimentano i limiti della crescita, stimata sotto il punto percentuale nel 2013, e mentre il tasso di occupazione resta piuttosto basso, i polacchi guardano alla prospettiva dell’integrazione nell’area dell’euro con crescente scetticismo. I sondaggi indicano una netta maggioranza contraria all’ingresso nell’Eurozona. Il governo guidato dal moderato, prudentissimo Donald Tusk cerca di schivare il dibattito, mentre l’opposizione di destra, nazionalista con accenti xenofobi, dipinge l’Eurozona a tinte fosche.
Lo sfogo di Angela Merkel durante il vertice europeo del 19 dicembre - “presto o tardi, l’euro esploderà, senza la coesione necessaria” - eccita a Varsavia il timore che abbandonando la propria moneta il paese possa finire nell’occhio del ciclone, in un’Eurozona a rischio disintegrazione. I sondaggi sembrano indicare che alle elezioni europee di primavera e soprattutto alle politiche del 2015 Tusk possa essere battuto dalla destra di Diritto e Giustizia, guidata da Jarosław Kacziński, il quale usa la paura dell’euro per dipingere l’Unione Europea come una minaccia alla sovranità e all’identità nazionale.
Il successo di Kacziński nei sondaggi è alimentato dalla “religione di Smolensk”, la leggenda secondo cui la sciagura aerea nella quale perse la vita il presidente conservatore Lech Kacziński, gemello di Jarosław, sia stata frutto di un complotto ordito da Putin e Tusk. Teoria sostenuta dai settori più xenofobi della Polonia profonda, soprattutto dalla Chiesa locale, refrattaria al verbo di Francesco (tanto da censurarne alcuni discorsi). “Vogliamo portare Budapest a Varsavia”, affermano diversi esponenti dell’ultradestra polacca, come se l’Ungheria di Orbán possa costituire un antidoto all’Europa, che “priva i polacchi di beni, dignità e lavoro” per aggiogarli a una “dominazione straniera”.
Quando facciamo un bilancio dell’eurocrisi, non è dunque solo alle performance economiche che bisogna guardare, ma soprattutto alla rivincita degli egoismi xenofobi. Il laboratorio polacco, in bilico fra successo europeo e ritorno al passato, ci dirà molto su noi stessi.
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