Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
martedì 18 luglio 2017
lunedì 17 luglio 2017
domenica 16 luglio 2017
sabato 15 luglio 2017
Il Tao
Il Tao (道T, DàoP, TaoW; letteralmente la Via o il Sentiero) è uno dei principali concetti della storia del pensiero cinese. Si tratta di un termine di difficile traduzione, inizialmente volutamente concepito come una potenza inesauribile che sfugge a qualunque tentativo di definizione. Si può partire dal fatto che il carattere cinese 道 (la cui parte inferiore è il radicale cinese "piede") esprime innanzitutto il concetto di un movimento, un flusso. Per questo motivo si può tentare di definire il Tao come l'eterna, essenziale e fondamentale forza che scorre in perenne movimento attraverso tutta la materia dell'Universo. In ambito occidentale viene talvolta tradotto anche come il Principio[1]. Nella filosofia taoista tradizionale cinese, il Tao è l'Universo stesso: quell'eterno, inesauribile "divenire", costantemente in movimento[1]. Tenendo presenti questi riferimenti, volendolo dire con una parola, il Tao "è".
Nel contesto della storia del pensiero cinese, il concetto di Tao acquisisce grande importanza in seno alla tradizione taoista, salvo poi estendere la sua influenza a tutto il panorama filosofico e speculativo cinese, fino a venire integrato, riassorbito e reinterpretato da una molteplicità di scuole di pensiero, ivi inclusa quella confuciana. Nel corso dei secoli a venire, questa influenza si estenderà a molte altre delle cosiddette filosofie e scuole di pensiero orientali.
Struttura del Tao in origine
Il filosofo Lao-tzu, mitico fondatore del taoismo, mette in chiaro che prima di tutto vi era un non-essere trascendente e indifferenziato (che tuttavia non è il "nulla"), "la Via" (detta anche "origine", la "Madre", la "femmina oscura", ecc.), il Tao appunto, che diede origine all'essere (detto "la madre dei viventi"), ciò che esiste e da cui nacque il mondo[1]; anch'esso, tuttavia, è parte del Tao stesso, poiché della sua stessa natura, ma ha dei confini. Si tratta quindi di una filosofia del mutamento, in cui il Tao iniziale è però immutabile (e non può essere "detto", ma può essere mostrato[1]), eppure muta (e in questa forma "non è una via costante", dice Lao-tzu), una sorta di panenteismo (posizione che coniuga trascendenza e immanenza, in maniera monista), simile al brahman induista (per fare un paragone con la filosofia occidentale, invece, il Tao è paragonabile principalmente all'apeiron di Anassimandro[1], all'Essere immutabile e perfetto di Parmenide[2], al Logos di Eraclito, degli stoici e di Giovanni evangelista, all'Uno del platonismo, al Noumeno di Kant e dell'idealismo, e allo slancio vitale di Bergson; la sua differenziazione mutevole è paragonabile allo scorrere nel divenire, alle idee platoniche che forgiano le forme sensibili).[1]
Il Tao all'inizio del tempo - nello stato di non-essere - era in uno stato chiamato wu ji (无极 = assenza di differenziazioni/assenza di polarità). A un certo punto - nell'essere - si formarono due polarità di segno diverso che rappresentano i principi fondamentali dell'universo, presenti nella natura[1]:
- Yin, il principio negativo, freddo, luna, femminile ecc. rappresentano il nero.
- Yang, il principio positivo, caldo, sole, maschile, ecc. rappresentano il bianco.
Lo scopo del taoista è comprendere questa evoluzione e le successive, e tornare, tramite la meditazione e la retta pratica di vita, ad avvicinarsi all'unità iniziale del Tao: l'obiettivo finale è portare il discepolo, il praticante e lo studente, ad un completo stato di unificazione con l'universo, con il Tao quindi. Tutta la vita emerge dal Wuji, inconsapevolmente. Attraverso le pratiche taoiste è quindi possibile raggiungere l'immortalità (detta xian) e ritornare allo stato di Wuji, energia pura, dissolvendosi nell'Uno, quindi nel Tao.[1]
Evoluzione
Da essi deriva tutto il mondo visibile e invisibile della cosmologia taoista.
I due principi, il divino individuo immaginario maschile e il divino immaginario femminile, iniziarono subito a interagire, dando origine alla suprema polarità o T'ai Chi o Taiji (Pronuncia Wu-ci). Il simbolo da tutti conosciuto come Taijitu è il più famoso di molti simboli che rappresentano questa suprema polarità e che sono chiamati T'ai Chi T'u. È importante evidenziare che nella filosofia Taoista Yin e Yang non hanno alcun significato morale, come buono o cattivo, e sono considerati elementi di differenziazione complementari.
Da essi deriva il qi (detto anche ki o chi) l'energia che scorre nel mondo fisico, nell'orizzonte naturalista del taoismo, rappresentato dai cinque elementi (acqua, legno, fuoco, metallo, terra), che si combinano a loro volta nelle otto forze.
Descrizione
Essendo il Tao ineffabile, cioè indescrivibile, per comprenderlo si può ricorrere alla seguente analogia, tratta da Lao-tzu[1]: immagina una persona che cammina su una strada, portando sulle spalle un fusto di bambù. Alle due estremità del bambù, sono appesi due secchi. I due secchi rappresentano lo yin e lo yang. Il bambù rappresenta il Tai Chi, l'entità che collega lo yin e lo yang. La strada è il Tao.
Il Tao può essere interpretato come una "risonanza" che risiede nello spazio vuoto lasciato dagli oggetti solidi. Allo stesso tempo, esso scorre attraverso gli oggetti dando loro le caratteristiche. Nel Tao Te Ching si dice che il Tao nutra tutte le cose, che crea una trama nel caos. La caratteristica propria di questa trama è una condizione di inappagabile desiderio, per cui i filosofi taoisti associano il Tao al cambiamento; le rappresentazioni artistiche che tentano di rappresentare il Tao sono caratterizzate da flussi.
Note
Voci correlate
venerdì 14 luglio 2017
giovedì 13 luglio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 81. L'autunno del Patriarca
Dopo vari interventi chirurgici e un lunghissimo periodo di riabilitazione, alla fine Ettore Ricci riuscì a realizzare il suo ultimo desiderio: tornare nella sua terra da uomo libero.
Gli arresti domiciliari erano stati revocati e i processi si erano conclusi per lo più con assoluzioni o lievi condanne pecuniarie.
Tornò nella Contea di Casemurate nel mese di luglio del 1991.
Fu accolto con grande affetto dalla famiglia e in particolare da sua moglie.
Diana sapeva che quella, per suo marito, poteva essere l'ultima estate, e fece tutto il possibile affinché fosse perfetta.
Le figlie e i nipoti scattarono loro molte foto che li ritraggono felici, nello splendore della campagna del Feudo Orsini, la cui bellezza fortunatamente nascondeva i gravi problemi economici ai quali lo aveva condotto la catastrofica gestione del Commissario pro tempore Lambrugo Bava, detto "Tra Virgolette" e "Mattoncini Lego".
Il nuovo Consiglio di Amministrazione affidò ad Ettore la Presidenza onoraria, ma la gestione effettiva fu affidata congiuntamente ai due Soci Accomandatari, e cioè i suoi generi Ermanno Spreti da Serachieda e Saverio Zanetti Protonotari Campi.
La loro gestione fu molto oculata e risparmiosa, ma mancava di quella spregiudicatezza necessaria per incrementare i guadagni.
Gli altri soci e i creditori attendevano la dipartita del vecchio Patriarca.
Fintanto che Ettore fosse rimasto in vita, nessuno di loro avrebbe osato attaccarlo apertamente, ma dopo... tutto era possibile.
Riguardo ai traditori, Ettore era stato fin troppo indulgente.
Michele e Ida Braghiri rimasero a Villa Orsini.
<<Volevi prendere il mio posto e hai fallito>> disse Ettore a Michele <<Ed io ti condanno a rimanere te stesso per il resto dei tuoi giorni>>
Michele tentava disperatamente di aggrapparsi agli ultimi residui di orgoglio su cui poteva contare:
<<Vivrò comunque più a lungo di te>>
Ettore sorrise:
<<E dimmi, Michele, come farai, per tutti i giorni che ti restano, a convivere con la tua coscienza?>>
Michele cercò invano una risposta efficace e alla fine dovette arrendersi:
<<Non lo so... >>
E passò luglio e passò Ferragosto.
Il granturco nei campi era maturo.
Ettore e Diana si presentarono per l'ultima volta alla Festa danzante a Villa Spreti.
Lui non poteva più danzare come negli anni precedenti, eppure il ricordo dei balli del passato, che erano stati in apparenza così formali, divenne all'improvviso dolce, come se tra i due vecchi sposi fosse sempre esistita quell'intesa speciale che si era venuta a creare negli ultimi mesi.
Chi avrebbe mai detto che i due giovani che 56 anni prima si erano uniti in un matrimonio combinato e destinato per decenni ad essere quasi una guerra, si sarebbero infine innamorati da vecchi, quando ormai non c'era più tempo?
Anche questo fa parte dei misteri della vita, e dei suoi paradossi.
Quegli ultimi mesi furono per Ettore come il canto del cigno.
Le sue condizioni incominciarono a peggiorare ai primi di settembre.
La grande energia che per tutta la vita aveva continuato a erompere da lui come un vulcano, iniziò a declinare.
Il suo grande cuore era affaticato e all'epoca la chirurgia cardiovascolare era molto più rischiosa e meno efficace di adesso.
Anche i polmoni erano affaticati e appesantiti dall'edema.
Tutto questo accadeva in un uomo che moralmente si sentiva ancora giovane e che rifiutava l'idea della morte.
Gli uomini di successo faticano ad accettare la vecchiaia e la malattia e temono la morte molto più degli altri.
Paradossalmente sua moglie Diana, afflitta da atroci emicranie e da continue crisi di melanconia, aveva sempre pensato con sollievo all'idea della morte, vedendola come una liberazione da quella sostanziale fregatura che era la vita: eppure le toccò vivere molto più a lungo del marito, che invece amava la vita e odiava la morte.
Non c'era quindi nessuna ipocrisia retorica nella frase che Diana Orsini ripeteva spesso al marito:
<<Se potessi dare la mia vita in cambio della tua lo farei immediatamente. Se qualche divinità è in ascolto, prenda pure me, e lasci stare mio marito!>>
Ma lo stesso Ettore scuoteva il capo:
<<Le nostre figlie e i nostri nipoti hanno bisogno di te. Quando in una famiglia muore il padre, la madre riesce a tenere insieme il resto, ma quando succede il contrario, tutto si sfalda.
Hai visto cos'è successo quando Giulia Monterovere è morta? Il vedovo si è chiuso in se stesso e i figli si rivolgono a malapena la parola. No, mia cara Diana, tu hai il dovere di vivere e di tenere unita questa grande famiglia che io e te abbiamo creato>>
Sentendo la fine avvicinarsi, incominciò a provare quel sentimento comune a tutti gli uomini che si rendono conto di aver dedicato troppo tempo al lavoro e poco a tutto il resto.
Pensò alle cose che avrebbe voluto fare, ai luoghi che avrebbe voluto visitare, a quelli che non avrebbe mai visto, agli amici perduti, ai desideri infranti.
Gli anni erano trascorsi veloci danzando freneticamente come falene intorno al fuoco della sua vita, un fuoco che aveva scottato tutti coloro che si erano avvicinati troppo.
Se fosse stato un sentimentale, avrebbe confessato tutto questo a suo nipote e l'avrebbe svincolato dalla promessa di risollevare le sorti del Feudo Orsini.
Ma Ettore Ricci era tutto tranne che un sentimentale e quindi non disse mai a Riccardo quello che pure i suoi occhi sembravano tradire, e cioè che la vita è nel presente, ed il presente è l'unica cosa che abbiamo, l'unica occasione sicura per fare ciò che va fatto, finché siamo in tempo, finché siamo giovani, finché ne abbiamo la possibilità.
Un giorno anche suo nipote avrebbe imparato quella lezione, quando però gran parte delle occasioni più importanti erano andate perdute.
Finì l'estate e passò la vendemmia.
L'autunno del Patriarca era iniziato.
Ettore Ricci si spense un mese dopo, nel sonno.
Fu seppellito nella Cappella Ricci-Orsini, nel Cimitero di Casemurate.
Sulla lapide volle una riproduzione dell' "Entierro del Duque de Orgaz" di El Greco, e come epigrafe una citazione della "Memoria immortale del Duca di Osuna", di Francisco De Quevedo, in spagnolo e con traduzione in italiano
Faltar pudo su patria al grande Osuna,
Pero no a su defensa sus hazañas;
Diéronle muerte y cárcel las Españas,
De quien él hizo esclava la Fortuna.
Llloraron sus envidias una a una
Con las propias naciones las extrañas;
Su tumba son de Flandes las campañas,
Y su epitafio la sangrienta luna.
En sus exequias encendió el Vesubio
Parténope, y Trinacria al Mongibelo;
El llanto militar creció en diluvio.
Diole el mejor lugar Marte en su cielo;
La Mosa, el Rhin, el Tajo y el Danubio
Murmuran con dolor su desconsuelo.
Venir men poté la patria al grande Osuna,
ma non alla difesa le sue imprese;
morte e carcer la Spagna gli diede,
cui egli schiava aveva fatto la fortuna.
Pianser le loro invidie a una a una,
con la propria nazione quelle estranee.
Sua tomba son di Fiandra le campagne,
e il suo epitaffio la sanguigna Luna.
S'incendiò per le sue esequie anche il Vesuvio,
Partenope e Trinacria al Mongibello;
il pianto militar crebbe a diluvio.
Di Marte avrà in ciel luogo migliore;
la Mosa, il Reno, il Tago ed il Danubio
mormoreranno con lamento il lor dolore.
mercoledì 12 luglio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 80. La malattia di Ettore Ricci e le promesse di Riccardo Monterovere
Dopo l'ictus che l'aveva colto al termine del suo memorabile discorso alla Corte, Ettore Ricci fu ricoverato all'ospedale Morgagni di Forlì.
La metà destra del corpo era semi-paralizzata, ma aveva conservato quasi intatta la capacità di parlare.
Dopo una settimana di degenza, il patriarca della famiglia Ricci-Orsini incominciò a protestare perché non lo lasciavano tornare a casa.
Nonostante mezza bocca fosse un po' storta, la voce di Ettore era ancora forte e la capacità di parlare era rimasta incredibilmente non pregiudicata:
<<Poche pugnette, dottore! Io ho del lavoro da fare! Lei non ha idea di quante cose ho lasciato a mezzo per colpa di quel maledetto processo. Mi hanno fatto venire un colpo, letteralmente, ma se credono di avermi messo fuori gioco si sbagliano di grosso!>>
Non andò meglio al prete che era giunto per impartirgli l'Unzione degli Infermi.
<<Ma quale Unzione? Quali Infermi? Io sto benissimo e non voglio beccamorti e altri avvoltoi che mi roteano attorno!>>
<<Figliolo, sei ancora in tempo per pentirti dei tuoi peccati. Rinunci a Satana?>>
Ettore sorrise a mezza bocca:
<<Non è il momento di farsi ulteriori nemici>>
Il prete non aveva intenzione di demordere:
<<La tua anima può ancora librarsi in Cielo. Nessuno sa veramente che cosa è in grado di fare, fino a quando non osa saltare>>
Ettore fece un cenno vago:
<<La finestra è lì. Salta pure...>>
Il reverendo si rabbuiò:
<<Sei almeno pentito per i tuoi peccati?>>
<<Certo che sono pentito. E il rimorso mi tormenta più di questo letto.
Ma ho già scontato la mia pena. Prima i processi e poi l'ictus. Ho già espiato>>
Il sacerdote parve comprendere:
<<Almeno prega con me!>>
Ettore sospirò:
<<Lo faccia lei per entrambi.
Io ormai ho dimenticato le parole...>>
Il prete valutò quella risposta, poi, annuì e gli impartì la benedizione:
<<Ego te absolvo peccatis tuis...>>
I familiari si alternarono al capezzale del malato.
La moglie Diana Orsini parlò con lui più tempo in quei giorni che nei precedenti cinquantacinque anni di matrimonio.
Quello che si dissero appartiene soltanto a loro, e alla loro memoria.
Possiamo comunque testimoniare che la malattia li aveva riavvicinati a tal punto che sembravano essere la coppia più unita del mondo.
Talvolta il dolore unisce più della felicità.
Diversi furono i ruoli delle tre figlie e dei tre nipoti.
Margherita Spreti di Serachieda, per i suoi look ricercati e per i suoi modi da gran dama, era stata soprannominata da medici e infermieri "la Principessa di Galles".
Questo suo ascendente le consentì di ottenere per il padre un trattamento di riguardo.
Da quel momento fu incaricata di mantenere le pubbliche relazioni.
Silvia Monterovere, che era stata insegnante di almeno una dozzina di medici ospedalieri, più un'altra dozzina che erano stati studenti del marito, riuscì ad avere informazioni più precise sulla condizione del padre.
Le notizie purtroppo non erano incoraggianti.
Oltre alle conseguenze dell'ictus, erano stati riscontrati anche altri problemi che avrebbero richiesto un intervento chirurgico, una volta che le condizioni del paziente si fossero stabilizzate.
Comunicarlo al padre non fu facile.
Isabella Zanetti Protonotari Campi, che era sempre stata la più pragmatica delle tre figlie, fece subito chiamare il notaio per definire le questioni ereditarie e il commercialista per capire se era ancora possibile salvare il Feudo Orsini dalla bancarotta.
C'era ancora qualche speranza, ammesso che, naturalmente, i processi si fossero conclusi a buon fine.
I due nipoti maggiori, Fabrizio Spreti e Alessio Zanetti, all'epoca studenti universitari, si alternarono a fare compagnia al nonno, che predisse loro un avvenire luminoso in qualità di luminari della scienza.
Questo accadeva nelle ore diurne.
Quando però giungeva la sera, e ad Ettore Ricci sembrava che tutta la sua vita fosse sul punto di contrarsi e le pareti dell'ospedale gli si stringessero addosso, come le sbarre di una gabbia volte a imprigionare qualcosa di selvaggio, ecco che chiedeva la presenza del nipote più giovane, l'allora quindicenne Riccardo Monterovere.
In lui Ettore riponeva tutte le sue speranze di rivalsa contro coloro che l'avevano tradito e contro un'intera società che sembrava avergli voltato le spalle.
<<Ti ricordi quando ti ho portato a caccia? Quando ti ho detto che per intrappolare i lupi bisogna intingere il coltello nel miele? Ecco, il momento è arrivato.
Come vedi, i lupi ci circondano, e presto o tardi, quando io non ci sarò più, attaccheranno la nostra famiglia per fare a brandelli tutto ciò che ne resta. Prenderanno di mira tua nonna, tua madre, le tue zie, forse anche i tuoi cugini, ma risparmieranno te, perché sei ancora minorenne. Ecco perché sarai tu a doverti fare carico della nostra rivincita>>
Quanto possono valere le promesse fatte ad un parente in condizioni così gravi?
Quanto possono condizionare la vita successiva di chi ha giurato di mantenere quegli impegni?
Anche se alcuni potranno addurre la giovane età di Riccardo, all'epoca, come un'attenuante, lui non riuscì mai a perdonare se stesso per non essere stato all'altezza di ciò che aveva promesso in una di quelle notti interminabili al capezzale del nonno.
<<Devi promettermi che mai e poi mai il Feudo Orsini o la Villa Orsini saranno venduti. Naturalmente finché vivrà tua nonna nessuno avrà il coraggio di cacciarla dalla casa dei suoi avi, ma dopo le cose potrebbero mettersi male. Confido però nel fatto che gli Orsini hanno una vita lunga e che tua nonna Diana vivrà almeno un'altra ventina d'anni. Nel frattempo tu ti laureerai in Economia Aziendale in un'università prestigiosa, a Milano o a Roma, e farai tutti i master che servono per conoscere il mondo degli affari. A quel punto sarai in grado di prendere in mano la situazione e di riportare il nostro patrimonio al valore di un tempo>>
La faccia di Riccardo non dovette apparire molto convinta agli occhi del nonno, il quale tese la mano buona verso di lui e gli intimò:
<<Prometti, Riccardo!>>
E il nipote promise, e le conseguenze di quella promessa lo perseguitarono per il resto dei suoi giorni.
martedì 11 luglio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 79. Il Processo: le deposizioni di Diana Orsini e di Ettore Ricci
La procedura penale italiana è molto diversa da quella americana, a cui siamo stati abituati a partire dai tempi di Perry Mason fino ad arrivare ai legal thriller in stile John Grisham.
I processi americani sono molto teatrali, perché l'obiettivo è quello di convincere una giuria sostanzialmente ignorante riguardo alle questioni di diritto penale o di medicina legale o criminologia, a emettere una sentenza sull'onda dell'emozione del momento.
Niente di tutto questo nei processi italiani, prevalentemente burocratici, basati per lo più sul lavoro d'ufficio, sulle scartoffie, sull'esame meticoloso delle perizie e poco sul dibattimento in aula, che nei tribunali italiani è privo di tutta la drammatizzazione che si vede nei film americani.
Ciò non toglie che, data l'importanza dell'imputato e l'attenzione dei mass-media, il processo ad Ettore Ricci abbia finito per costituire un'eccezione alla regola.
Nel suo caso ci furono testimonianze di alto valore drammatico, nel senso teatrale del termine, dove tutti i testimoni cercarono di recitare, con la massima perizia, una parte da Premio Oscar.
Riporteremo qui soltanto alcuni passaggi.
Diana Orsini si presentò all'udienza in modo sobrio e dimesso, comunicando a tutti l'immagine di una semplice madre di famiglia e di una moglie affranta:
<<Non è mia intenzione dubitare della buona fede dei testimoni dell'accusa, ma è mio dovere rilevare che si è trattato di un terribile equivoco.
La loro ricostruzione dei fatti si basa su un completo fraintendimento.
Mio marito ha aiutato finanziariamente molte famiglie in difficoltà, senza chiedere nulla in cambio, e lo ha fatto con la massima discrezione, perché gli è stato insegnato che il bene va fatto senza vantarsene e senza compromettere la rispettabilità di coloro che sono stati aiutati.
Ci sono cose che bisogna passare sotto silenzio, e un atto ispirato da un sentimento di umanità elementare a volte è giudicato severamente dalla legge.
Mio marito non ama le parole vuote: sentiva il dovere di compiere delle concrete azioni di filantropia e lo ha fatto.
Io non mi intendo di questioni contabili, come del resto non se ne intende mio marito: ci siamo affidati a persone che ora ci accusano, mentre dovrebbero riflettere sulla loro competenza e sulla loro lealtà.
Le uniche colpe di mio marito sono state la generosità e l'ingenuità>>
Quando il Pubblico Ministero le chiese se aveva le prove per sostenere quanto affermava, Diana Orsini sospirò:
<<Ho ben presente tutto ciò che ho visto e sentito: è sempre vivo nella mia memoria, così come dovrebbe esserlo nella coscienza di chi, volontariamente o meno, ci ha arrecato un danno ingiusto.
So bene che la mia parola non è sufficiente, ma confido che le sia attribuito quanto meno lo stesso peso di chi ha testimoniato il contrario>>
Allora il Pubblico Ministero si limitò a sorridere, e nessuno di coloro che lo udirono dimenticò più l’orrore di quel sorriso.
Ma in quel momento arrivò il "barone" Lorenzo Monterovere, Cavaliere di Malta e Iniziato a chissà quali Misteri, e il riso del Procuratore morì sulle labbra.
La testimonianza di Diana Orsini era andata molto bene, tanto che l'avvocato Vanesio ingenuamente commentò:
<<Ecco il discorso di una donna innamorata! Del resto è noto che ogni donna sceglie l'uomo che la sceglierà>>
Le cose non erano andate affatto così, ma non era quello il momento di sottilizzare.
Si era creato un clima positivo in aula.
Naturalmente, però, Ettore Ricci, da par suo, rischiò di rovinare tutto con una deposizione spontanea destinata a rimanere impressa nella memoria dei presenti, non fosse altro che per il suo clamoroso finale:
Quando prese la parola tutti tremavano, compreso l'avvocato Vanesio.
<<Vostro Onore>> esordì Ettore Ricci rivolto al Presidente del Tribunale <<Signori della Corte, come è emerso da questo dibattimento, la mia unica colpa è stata quella di aver riposto la mia fiducia nelle persone sbagliate, che hanno approfittato della mia generosità e della mia ignoranza a livello contabile, per confondermi le idee.
Si è detto che io "non potevo non sapere", ma mi si fa troppo onore non riconoscendo la mia ingenuità e la mia ignoranza.
Si è obiettato che l'ignoranza della legge non è una scusante: ma ciò che io ignoravo era la contabilità, non la legge.
Io non ho studiato, ho fatto solo le elementari.
Vengo da una famiglia povera, di braccianti, di contadini.
Sono sempre stato fiero delle mie origini umili.
E forse magari agli occhi di molti è questa la mia vera colpa: essere quello che l'elite chiamerebbe un "arricchito", o come avrebbe detto mio suocero, "un parvenu".
Scommetto che molti, tra i banchi dell'accusa, ridono di me e dei miei modi contadini, e vogliono punirmi perché ai loro occhi sono rozzo e volgare. Ma questo non è un reato!
Coloro che mi accusano non vogliono punire i miei errori, per i quali io chiedo di essere giudicato tenendo conto della bontà delle intenzioni e della sincera volontà di rimediare, se sono state commesse delle irregolarità, ma il frutto del mio duro lavoro e delle mie fatiche di una vita.
E' questo il punto, Signori della Corte.
Rovinando me, i miei accusatori vogliono intimidire tutti coloro che, nati in una condizione sociale inferiore e oppressi in qualche modo dalla miseria, hanno avuto l'audacia di mescolarsi a quella che la presunzione dell'Elite altolocata chiama la "Buona Società">>
Quelle parole colpirono nel segno la platea del pubblico, che, pur essendo inizialmente ostile ad Ettore Ricci, alla fine lo applaudì calorosamente come se fosse un martire della causa del proletariato.
Ma quello che nessuno aveva previsto, ed Ettore Ricci meno di tutti, fu il malore che lo colpì al termine del discorso.
Dopo alcuni istanti di esitazione, Ettore barcollò, si aggrappò al microfono, che cadde.
Si accasciò infine sul banco dei testimoni, sentendo che metà del suo corpo perdeva i sensi, e scrutando le tenebre che s'infittivano davanti ai suoi occhi, pensò:
"Non ancora. Non è il momento. Lontano è il mio destino, ed io farò ritorno nella mia terra da uomo libero".
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