martedì 4 luglio 2017

L'evoluzione dell'universo: lo stato di Hartle-Hawking



Lo stato di Hartle-Hawking o teoria dello stato senza confini (in inglese detto anche "no-boundary proposal" cioè progetto senza confini) è una teoria fisica e un modello cosmologico sull'origine dell'universo, nell'ambito del modello standard, ipotizzata da James Hartle e Stephen Hawking a partire dal 1983.[1] In questa teoria il Big Bang non deriva da una singolarità gravitazionale iniziale ma da uno "stato iniziale senza confini" (da cui il nome di no-boundary proposal), descritto come una sorta di "cupola". L'universo - o meglio, uno stato primordiale a densità altissima di energia e temperatura, assai simile a un buco nero[2] - sarebbe quindi autosufficiente e auto-creato, mentre lo spaziotempo si sarebbe espanso ad un certo punto, per un evento come la fluttuazione da questo falso vuoto di tipo quantistico.[3]
Lo stato di Hartle-Hawking si collocherebbe cronologicamente come periodo precedente all'era di Planck e all'inflazione. Esso è inoltre descritto come l'inizio dell'universo o del multiverso, oltre il quale non ha senso domandare cosa esistesse prima: affermare che esistesse il nulla è un controsenso in termini. Il Big Bang sarebbe quindi una fase successiva a questo stato eterno precedente a tutto, essendo come un confine di una sfera o ellissoide; non si potrebbe viaggiare prima di esso (se non esiste il multiverso), come non si può essere più a nord del polo terrestre. Arrivare alla singolarità nuda diventa impossibile come nel paradosso dello stadio di Zenone.

Teoria


La forma a cupola o a parabola dell'universo primitivo o proto-universo che sostituisce, alla lunghezza di Planck (10-43cm), la singolarità puntiforme nella teoria di Hawking e Hartle. Non esiste un inizio improvviso: il tempo svanisce gradualmente verso la base del diagramma. Il centro della figura assomiglia ad un primo istante, ma questo è solo un effetto del modo in cui è disegnato; non esiste un inizio vero e definito, nonostante il tempo sia finito in direzione del passato.
La teoria venne elaborata per sopperire al problema della singolarità. Essendo il nostro universo senza confini sarebbe anche l'unico che si è potuto evolvere dall'indeterminata natura quantistica dell'universo primitivo. Il modello prevedeva al suo principio una singolarità (il Big Bang), in cui, essendo il luogo e il momento dove, secondo la stessa previsione, l'universo avrebbe avuto inizio, tutte le leggi della fisica (come la legge della conservazione della massa) perdono validità, generando paradossi e tendendo all'infinito.
Hawking rielaborò le leggi fisiche secondo una teoria matematica proposta da Richard Feynman (somma sulle storie o integrale sui cammini), introducendo così il "tempo immaginario", un'astrazione matematica che permette di relazionare due eventi casualmente non connessi o non connessi temporalmente. Con il tempo immaginario la singolarità può essere studiata. Hawking propone così un universo infinito o più precisamente senza contorno o confini, in espansione e con un inizio nel tempo immaginario. Tuttavia anche il modello ipotizzato da Hawking, è un modello che non può andare fino in fondo ed essere verificato fino a quando non si disporrà di una teoria che unifichi la gravità e la meccanica quantistica.[4]
Nella teoria dello stato senza confini, la funzione d'onda dell'universo – ossia un'immagine per spiegare come sia nato l'universo – è calcolata attraverso l'integrale sui cammini, una funzione di tensione metrica definita a (D-1) di superficie compatta, dove D è la dimensione spazio-temporale.[1] Questa funzione d'onda dell'universo può soddisfare l'Equazione Wheeler-DeWitt.[1]
Il modello cosmologico prevede che l'universo non abbia confini nello spaziotempo, sostituendo il Big bang inteso come singolarità gravitazionale iniziale, con un modello matematico descritto per analogia con la regione di un polo terrestre: nessuno può viaggiare più a nord o più a sud dei rispettivi poli, in quanto in tale luogo non esiste un contorno.[1]

Sono mostrati tre possibili percorsi che contribuiscono all'ampiezza di probabilità per una particella che si muove dal punto A in un tempo t0 al punto B in un differente tempo t1. Nell'integrale sui cammini ogni particella segue ogni possibile storia.
Originariamente la nuova proposta prevedeva una forma dell'universo di tipo chiuso destinato a terminare in un Big Crunch o Big Bounce[5], ma le discussioni con Neil Turok hanno portato a concludere che la proposta di assenza di condizioni al contorno è valida anche nel caso di un universo aperto o piatto, la cui tipica sorte dovrebbe essere il Big Freeze o morte termica; «La condizione al contorno dell'universo è che esso non ha un confine», è la descrizione del modello, modificato da una sfera a una possibile cupola.[1][6]
Questo modello è basato sulla cosmologia quantistica e la gravità quantistica, ma utilizza una geometria complessa quadridimensionale, con una particolare unità detta istantone. L'universo (o il multiverso) nascerebbe dal nulla come fluttuazione quantistica di particelle elementari, e all'inizio avrebbe avuto una forma a cupola o semi-sfera, al posto di una singolarità, come nel caso della Terra che è sferica o meglio ellittica.[7]

Cosmologia top-down

Insieme a Thomas Hertog, al CERN, nel 2006, Hawking ideò uno sviluppo ulteriore della sua proposta senza confini, la "cosmologia top-down" (un modello di Fine-tuned Universe), per cui l'universo non aveva alcuno stato unico iniziale, e quindi è inappropriato per i fisici tentare di formulare una teoria che cerchi di predire la configurazione attuale dell'universo partendo da un preciso stato iniziale. La cosmologia top-down, postula che il presente possa selezionare il passato da una sovrapposizione di molte possibili storie (sempre basato sulla somma sulle storie). Secondo questa teoria matematica è inevitabile scoprire le attuali costanti fisiche del nostro universo, dato che l'attuale universo "seleziona" soltanto quelle storie passate che hanno portato alle condizioni presenti. In questo modo si fornisce una spiegazione antropica per il motivo per cui ci troviamo in un universo che permette l'esistenza della materia e l'universo, senza per questo dover invocare l'esistenza di molteplici universi, cosa che Hawking comunque non esclude affatto[8]

Rapporti con altre teorie


La geometria locale dell'universo è determinata dal fatto che Omega sia minore, uguale o maggiore di 1. Dall'alto verso il basso abbiamo un universo sferico (chiuso), uno iperbolico e uno piatto (entrambi aperti). Hawking ha sostenuto il primo modello, ma ha affermato che anche il terzo è possibile e adeguato.
La teoria affronta la nascita dell'universo da una fluttuazione quantistica (cioè il Big Bang), ma la fine seguirà le altre teorie: un'inflazione infinita e nuovi universi, un "rimbalzo" o lo strappo del tessuto dello spaziotempo. L'universo dello stato di Hartle-Hawking non ha inizio, ma non è uguale alla teoria dello stato stazionario di Fred Hoyle (non è presente la cosiddetta creazione continua); esso semplicemente non ha confini iniziali, né di spazio né di tempo.
Questo modello vuole spiegare in particolare l'inizio di tutto, non la fine e, come Hawking ha proposto, si adatterebbe bene alle teorie standard come la teoria più accreditata, l'inflazione cosmologica proposta da Alexei Starobinski e Alan Guth (ma in particolare alla variante dell'inflazione eterna e inflazione caotica - o teoria delle bolle - di Andrej Linde, in quanto spiega la nascita da un nulla a-temporale, e, da questa bolla viene poi originato l'universo o gli universi, cioè il multiverso).
Il modello è adatto anche ad altre teorie sull'universo: in tal caso il vero stato di Hartle-Hawking non si colloca prima del Big Bang ma prima dell'ipotetica origine prima del multiverso e degli universi ciclici. Hawking in particolare ha approfondito anche le teorie del buco nero primordiale, e la teoria M (cfr. anche la teoria delle stringhe).[1]
Lo stato senza confini è posizionabile anche prima di un multiverso o di un mondo-brana o dovunque occorra parlare di infinito o di singolarità; nel modello ecpirotico delle brane lo stato senza confini è l'iperspazio dove fluttuano le d-brane.
Ahmed Farag Ali e Saurya Das hanno invece sostituito il modello a cupola senza confini di Hawking, con un fluido eterno di gravitoni, nella loro cosmologia del potenziale quantistico, mentre per Roger Penrose l'universo è costituito da infiniti cicli Big Bang-espansione (cosmologia ciclica conforme) e non necessita di uno stato iniziale.

Note

  1. ^ a b c d e f Stephen Hawking, The Beginning of Timehawking.org.ukURL consultato il 10 marzo 2014.
  2. ^ Stephen Hawking: spiega perché Dio non esiste
  3. ^ Hawking: la fisica dimostra che l'universo si auto-creato
  4. ^ L'Universo... cercandone il senso...
  5. ^ S. Hawking, La teoria del tutto, pp. 94-100
  6. ^ Paul Davies, La creazione senza creazione
  7. ^ Cosmologia quantistica
  8. ^ Stephen Hawking Sta Per Compiere 70 anni!

Bibliografia

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Filosofia della scienza

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La filosofia della scienza è la branca della filosofia che studia i fondamenti, gli assunti e le implicazioni della scienza, sia riguardo alla logica e alle scienze naturali, come la fisica, la chimica, la biochimica o la biologia, sia riguardo alle scienze sociali, come la sociologia, la psicologia o l'economia.
La filosofia della scienza è legata in generale alla filosofia della conoscenza e all'epistemologia. Essa cerca di spiegare la natura dei concetti e delle asserzioni scientifiche, i modi in cui essi vengono prodotti; come la scienza spiega la natura, come la predice e come la utilizza per i suoi fini; i mezzi per determinare la validità delle informazioni; la formulazione e l'uso del metodo scientifico; i tipi di ragionamento che si usano per arrivare a delle conclusioni; le implicazioni dei metodi scientifici, con modelli dell'ambiente scientifico e della società umana circostante.

Il rapporto con le discipline filosofiche e scientifiche

Nella più diffusa accezione, la filosofia della scienza è l'indagine su come avviene la conoscenza scientifica. Essa ha ampie sovrapposizioni con l'epistemologia e diversi temi in comune con il problema della demarcazione. Quando si deve identificare cosa esiste, quale che sia l'oggetto di cui si parla, saranno coinvolte anche l'ontologia e la gnoseologia. Nella filosofia della scienza ha una certa importanza anche la logica sia per i suoi rapporti con i metodi deduttivi, che per i suoi stretti legami con la filosofia della matematica.
La filosofia della scienza può anche essere declinata al plurale, come riflessione interna ad una comunità scientifica sugli aspetti filosofici relativi ad una comune disciplina di competenza, si ottengono così la filosofia della fisica, la filosofia della matematica ed altre filosofie settoriali.
In questo approccio, a volte circoscritto alle problematiche scientifiche, si evidenzia la sua principale differenza dall'epistemologia.
Il concetto della limitata possibilità della scienza di spiegare l'interezza dei fenomeni naturali è stato affrontato da numerosi autori, tra i quali nel XX secolo il francese Pierre Lecomte du Noüy.

Storia dei metodi di ricerca

Antichità

L'origine storica dei temi della filosofia della scienza nasce con la filosofia greca, e viene sviluppata in particolare nelle opere di Platone relative alla conoscenza e alla maieutica, nelle opere di Aristotele di Logica e di Metafisica e nelle opere dei filosofi stoici, in particolare di Crisippo su temi di Logica.

La rivoluzione scientifica: Galilei, Cartesio, Bacone

Nel periodo medioevale si ha uno sviluppo dei temi logici già trattati dagli autori classici antichi ed è con il "rinascimento scientifico" che vengono sviluppati in modo sistematico i temi di questa disciplina, in particolare da Galileo Galilei, da Renè Descartes e da Francesco Bacone.
Galilei indicò come elementi fondamentali del metodo scientifico due procedimenti: l'elaborazione di una teoria da esprimere in forma di deduzioni matematiche, e le conseguenti applicazioni tecniche su di essa in modo da poterla sottoporre a controlli sperimentali. In particolare indica questo metodo con alcuni cenni nei suoi dialoghi all'alternanza di due fasi specifiche nel procedimento di ricerca scientifica, che sono:[1]
  • "sensate esperienze" intese come osservazioni ed esperimenti scientifici
  • "necessarie dimostrazioni" intese come dimostrazioni geometriche e matematiche
Il filosofo francese Cartesio sviluppò poi i temi di filosofia della scienza in modo più sistematico nel Discorso sul metodo. La filosofia e il metodo di Cartesio sono considerati razionalisti in quanto è prevalente l'impostazione razionale e deduttiva rispetto alla componente sperimentale. La deduzione è il metodo con cui dai principi generali, si possono ricavare i teoremi matematici e la spiegazione dei fenomeni naturali.
Cartesio nel Discorso sul metodo [2] indicò in quattro punti i procedimenti della conoscenza razionale:
Il filosofo inglese Francesco Bacone sviluppò invece i primi studi sistematici sull'applicazione del metodo induttivo nella ricerca scientifica. L'induzione è il metodo con il quale si possono scoprire principi generali, partendo dall'osservazione e dal confronto di molti fenomeni naturali e sperimentazioni di laboratorio. Secondo Bacone [3] il procedimento induttivo viene sviluppato con l'ausilio di tre tavole nelle quali il ricercatore riporta diversi aspetti delle sue osservazioni naturalistiche e delle sue sperimentazioni di laboratorio. Le tre tavole descritte da Bacone sono:
  • "tavola della presenza" in cui riporta quando il fenomeno e le sue cause si verificano
  • "tavola dell'assenza" in cui riporta quando il fenomeno e le sue cause non si verificano
  • "tavola dei gradi" in cui riporta le variazioni rilevate negli esperimenti.

Newton

Agli studi innovativi compiuti dai tre grandi studiosi rinascimentali di Filosofia della scienza, Galileo, Cartesio e Bacone, seguirono gli approfondimenti fatti da Isaac Newton nella seconda metà del Seicento. Newton nel suo trattato fondamentale di fisica e meccanicaPrincipi matematici della filosofia naturale (1687) indicò in quattro punti i metodi della ricerca scientifica:[4]
  • Non dobbiamo ammettere spiegazioni superflue dei fenomeni naturali
  • A uguali fenomeni corrispondono uguali cause;
  • Le qualità uguali di corpi diversi debbono essere ritenute universali di tutti i corpi;
  • Proposizioni ricavate per induzione da esperimenti, si considerano vere fino a prova contraria.
In particolare l'ultima regola viene in genere ricollegata alla sua celebre frase: «Hypotheses non fingo», con la quale Newton intende rifiutare ogni teoria scientifica che non derivi da un'approfondita verifica sperimentale.

Illuminismo e Positivismo

Gli studi di filosofia della scienza ebbero ampio sviluppo nel Settecento, detto appunto secolo dei lumi. Fra i principali studiosi dell'epoca illuminista si ricordano gli inglesi John Locke e David Hume, il matematico svizzero Leonardo Eulero, e gli enciclopedisti francesi Jean Baptiste Le Rond d'Alembert e Denis Diderot.
Nell'Ottocento vennero poi sviluppati studi originali sui metodi induttivi dal filosofo inglese John Stuart Mill. È rilevante anche la classificazione delle scienze compiuta dal filosofo francese Auguste Comte. Gli studi di questi due filosofi si inquadrano in genere nel movimento del positivismo ottocentesco, che approfondì aspetti generali, in relazione al rapporto fra scienza e filosofia.

Il Novecento

Nel Novecento si è avuto un ampio dibattito sui temi di filosofia della scienza. Agli inizi del Novecento furono fondamentali gli studi degli storici e filosofi Pierre Duhem e Ernst Mach che ispirarono i filosofi riuniti nel Circolo di Vienna. Il "Circolo di Vienna" fu un gruppo di filosofi che si riunivano regolarmente a Vienna dal 1922 fino al 1936 per discutere su temi di filosofia della scienza. Fra gli elementi di questo gruppo sono stati attivi soprattutto Rudolf CarnapMoritz Schlick e Hans Hann. Da menzionare nel dibattito sulla filosofia della scienza, specie relativamente a Popper, Paul Karl Feyerabend.[5] Karl Popper, frequentatore occasionale del circolo di Vienna, contestò il tema della verificabilità sperimentale,[6] a cui contrappose il criterio della falsificabilità.
Più o meno negli stessi anni si sviluppò, grazie all'iniziativa di Hans Reichenbach, il Circolo di Berlino, il quale si occupò di tematiche analoghe, ma con particolare attenzione alla causalità, alla statistica ed al potere predittivo della scienza.
Dopo lo scioglimento del Circolo di Vienna nel 1936, gli studi in questa disciplina continuarono in varie università europee e americane. Fra gli sviluppi degli ultimi decenni del Novecento si ricordano gli importanti contributi del filosofo statunitense Thomas Kuhn e dell'ungherese Imre Lakatos legati ai programmi di ricerca e al progressivo sviluppo ed evoluzione delle teorie scientifiche.
In particolare, Kuhn criticò parzialmente il falsificazionismo popperiano sul punto relativo all'accantonamento della teoria in caso di confutazione di un suo elemento empirico, sostenendo che si sarebbe dovuto accantonare solamente quel singolo elemento e non la teoria nel suo complesso. Anche Lakatos, pur accogliendo favorevolmente l'impostazione filosofica popperiana, vi mosse dei rilievi, sostenendo che non sono mai le singole confutazioni di fatti empirici a determinare l'abbandono di una teoria, perché la messa in discussione della verità scientifica riguarderebbe solo un aspetto marginale di essa, non il suo nucleo centrale, che sebbene risulti indebolito nella sua certezza complessiva, continuerebbe ad essere accettato per vero. Affinché una teoria generale sia abbandonata, occorre piuttosto, secondo Lakatos, che si progetti un nuovo programma complessivo di ricerca scientifica che sappia meglio rendere ragione degli eventi: non è la falsificazione di per sé a far progredire la scienza, bensì lo spirito di ricerca e l'inventiva umana.
Nell'ambito di altre correnti filosofiche conseguenti allo scioglimento del Circolo di Vienna, notevole importanza assumeranno anche le ricerche della scuola di Poznań e di filosofi come Leszek Nowak, che ha introdotto il concetto di idealizzazione nella filosofia della scienza. Da menzionare anche il pensiero di Jacques Monod per i suoi contributi alla filosofia della biologia.

Filosofia della scienza in Italia nel Novecento

Fra gli scienziati e matematici italiani che hanno approfondito i temi di filosofia della scienza fra fine Ottocento e gli inizi del Novecento si ricordano in particolare Federigo Enriques e Giuseppe Peano.
Il matematico livornese Federico Enriques, oltre a numerosi trattati di didattica della matematica, sviluppò anche saggi molto approfonditi di storia della scienza e di filosofia della matematica, confutando alcune formulazioni scettiche in questo campo, in particolare elaborate dai filosofi idealistici e kantiani.
Il matematico torinese Giuseppe Peano sviluppò in particolare trattati di logica simbolica, con una impostazione deduttiva della matematica, dai fondamenti della geometria e dell'aritmetica, fino agli sviluppi più avanzati dell'analisi matematica.
Dopo la seconda guerra mondiale gli studi in questo campo furono condotti innanzitutto dal Centro Studi metodologici di Torino, ad opera di Ludovico Geymonat e Nicola Abbagnano. In particolare si devono a Geymonat i maggiori contributi in questa materia con la compilazione della grande opera sistematica Storia del pensiero filosofico e scientifico, stampata in più edizioni e numerosi volumi, in collaborazione con molti altri esperti delle varie discipline.
E'interessante notare che le materie filosofiche della scienza si collegano allo sviluppo delle scienze sociali, producendo dei contributi originali. Questi ultimi, sono utili per tracciare l'esistenza di una storia epistemologica, che si qualifica anche come conseguenza della mancata affermazione di una storiografia scientifica che, per alcune discipline, fosse in grado di sostituirsi alla 'storia del pensiero'. [7].
Alcuni studi di rilievo sono stati sviluppati da docenti di filosofia della scienza di varie università italiane. Fra questi si ricordano in particolare Paolo Rossi che si è occupato soprattutto di aspetti storiografici, Marcello Pera che ha fatto studi sull'induzione e il metodo scientifico e Giulio Giorello che ha scritto vari saggi di matematica, scienza e filosofia.

Aspetti complementari

Fa parte della filosofia della scienza anche l'etica della scienza, che si (pre) occupa degli aspetti morali dell'attività scientifica. "La scienza come istituzione implica un tacito contratto sociale tra gli scienziati così che ciascuno dipende dall'affidabilità degli altri [...] l'intero sistema cognitivo della scienza è radicato nell'integrità morale del complesso dei singoli scienziati".[8] In questo settore da rammentare il rapporto fra finanza e ricerca, le tecnologie e nuove definizioni scientifiche, la filosofia della medicina e filosofia della scienze biomediche, l'etica della manipolazione biomedica della vita; ha avuto per l'appunto particolare sviluppo negli ultimi anni la bioetica per le numerose implicazioni che si hanno nel campo delle attività sperimentali, mediche ed ospedaliere.
La filosofia della scienza inoltre considera inosservabili alcuni aspetti oggetti di studio come le particelle atomiche, la forza di gravità, la causa, la credenza o le motivazioni.

Note

  1. ^ "vedi Galileo GalileiDialogo dei massimi sistemi, Firenze, 1632
  2. ^ Renè DescartesDiscorso sul Metodo, Leida, 1637
  3. ^ vedi Francesco BaconeNovum Organum, 1620
  4. ^ vedi Isaac Newton Principi Matematici della filosofia naturale, libro 3º, capitolo sui Metodi del filosofare. Fra le edizioni in lingua italiana si fa riferimento in particolare a quella della collana “Classici della scienza”, Torino Utet, 1997
  5. ^ vedi Paul Karl FeyerabendDialogo sul metodo, Laterza, Roma-Bari, 1993) )
  6. ^ vedi Karl PopperLa logica delle rivoluzioni scientifiche (traduzione italiana: Torino, 1970)
  7. ^ Cfr. Guglielmo Rinzivillo, a cura di, Tra i concetti e le regole. Contesti filosofici ( e non) delle scienze sociali nel '900, Napoli, Scriptaweb, 2009 ISBN 978-88-6381-023-3
  8. ^ " Jacob Bronowski, citato in Alexander Kohn, Falsi profeti, Inganni ed errori della scienza, p. 1 (Zanichelli, 1991)

Bibliografia

  • Ludovico Geymonat, Lineamenti di Filosofia della Scienza, 1985, Milano, Mondadori.
  • Anna Ludovico, Dalla fisica alla filosofia, Roma: Editore Nuova Cultura 2011, ISBN 8861346081.

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venerdì 30 giugno 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 77. Lambrugo Bava, detto "Tra Virgolette", Commissario pro tempore del Feudo Orsini.

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Dopo le inevitabili dimissioni del Consiglio di Amministrazione, la gestione del Feudo Orsini fu affidata dal Tribunale ad un Commissario pro tempore.
La scelta cadde su un personaggio a dir poco sgradevole.
Si trattava di un certo Lambrugo Bava, detto "Tra Virgolette" a causa di un intercalare che usava in continuazione (accompagnandolo con un gesto delle dita di entrambe le mani, a mimare le suddette virgolette), un sessantenne afflitto da forfora e alitosi, con i capelli perennemente unti, la faccia sudata, i denti gialli, la voce stridula e nasale, gli abiti logori che forse erano stati di moda venticinque anni prima, e un modo di fare affettato e viscido, come del resto era anche la sua moscia stretta di mano.
Si presentò a Villa Orsini all'ora del tè, con un completo gessato scompagnato, che aveva decisamente visto tempi migliori, e un'orribile cravatta verde elettrico, e fu fatto accomodare nel Salotto Liberty.
Quando Diana Orsini gli chiese se voleva una tazza di tè, lui, con un sorrisetto lezioso e con voce querula in falsetto, dichiarò:
<<Preferirei un caffè doppio, alto e amaro>>
Nel dire questo divenne color lilla in faccia e nelle mani.
Fu a quel punto che tutti i presenti incominciarono a percepire l'odore del suo alito.
Inizialmente rimasero confusi per il fatto che si trattava di un alito diverso da quelli normalmente considerati pesanti, nel senso che quel lezzo era troppo fetido per poter provenire da una bocca umana.
Pertanto incominciarono a formulare mentalmente le più svariate ipotesi.
Come poi emerse, dopo che "Tra Virgolette" se ne fu andato, tutti i presenti avevano inizialmente pensato che quel fetore rivoltante dovesse provenire da una cacca di cane pestata dal dottor Lambrugo Bava.
Purtroppo però avevano dovuto ricredersi.
Quell'inequivocabile puzza di merda (perdonateci il francesismo) proveniva altrettanto inequivocabilmente dall'alito del dottor Bava.
Il caffè doppio amaro non fece che peggiorare la situazione.
Ben presto la maggior parte dei presenti lasciò la stanza in preda alla nausea e al disgusto.
Ettore Ricci e sua figlia Isabella resistettero, perché era di vitale importanza capire se quel fetido e viscido personaggio fosse almeno in grado di gestire un'azienda.
La sua frase d'esordio lasciò al riguardo ben poche speranze.
Con un ghigno untuoso e una voce nasale e petulante, emise una zaffata micidiale:
<<Io concepisco l'amministrazione di un'azienda come se fosse, tra virgolette, un insieme di "mattoncini lego">>
Cercando di evitare l'impatto massiccio dell'ultima zaffata del signor Tra Virgolette (detto da allora anche Mattoncini Lego), Ettore Ricci gli chiese di spiegarsi meglio.
Lambrugo Bava continuò a parlare per un'ora, appestando non solo il Salotto, ma tutta la casa, perché la pesantezza puzzolente del suo fiato sembrava penetrare attraverso ogni interstizio:
<<Intendo dire che per me un'azienda è, tra virgolette, un "investimento diversificato", fatto di tanti diversi mattoncini da combinare in modo tale che, tra virgolette, "il paniere" sia ben equilibrato>>
Ettore Ricci, asfissiato dalla mancanza d'ossigeno in quella stanza ormai piena di zolfo, si allarmò a tal punto da perdere quasi conoscenza, e solo con grande sforzo alla fine protestò:
<<Ma amministrare un'azienda non è come gestire un portafoglio azionario! Il concetto di diversificazione del rischio non si può applicare allo stesso modo. Un'azienda ha una sua attività principale che non deve in nessun modo essere sacrificata>>
"Tra Virgolette" Bava continuò a ghignare e ad emettere gas mefitico da quella bocca che sembrava una cloaca:
<<Stia tranquillo, signor Ricci, con me la sua azienda si trova, tra virgolette, "in una botte di ferro". Vedrà che un mattoncino dopo l'altro io costruirò un'azienda nuova, con agriturismi, campi da golf, laghi di pesca sportiva, parchi da gioco per bambini e per cani, alberghi, insomma tra virgolette, un "resort">>
A quel punto Ettore Ricci esplose:
<<Questa non è una zona turistica! Ci sono porcili e pollai e inceneritori di biomassa! Lo sa chi sperperò tutto il suo patrimonio in minchiate simili a quelle che ha detto lei? Lo fece il mio defunto suocero, il Conte Achille Orsini di Casemurate, e la sua famiglia andò in rovina!>>
Lambrugo Bava non si lasciò minimamente scalfire ed emise l'ennesima nube tossica di alito:
<<Ma quelli erano altri tempi! Adesso viviamo in un mondo, tra virgolette, "green", che cerca un divertimento, tra virgolette, "eco", mi verrebbe da dire che la presenza di porcili e pollai, con il loro odore così caratteristico, sia un fattore, tra virgolette "folk" e tra virgolette "etno" che conferisce al tutto quel sapore tra virgolette "vintage" che è così tra virgolette "trendy"...>>
A quel punto Ettore Ricci non riuscì più a contenersi:
<<Basta con queste cazzate! Le ricordo che un Commissario pro tempore deve occuparsi solo dell'ordinaria amministrazione e non degli investimenti straordinari! Lo tenga bene a mente! Non le permetterò di buttar via il lavoro di tutta la mia vita! E adesso fuori da casa mia! 
E se vuole un consiglio, si lavi i denti, prima di andare ad appestare la casa della gente!>>
Poco ci mancò che lo prendesse a calci.
Dopo che finalmente Lambrugo Bava ebbe preso congedo, salutando con la mano sudaticcia i pochi presenti che si erano avventurati nell'atrio completamente invaso dal gas tossico, fu necessario tenere aperte tutte le finestre di Villa Orsini per tre giorni e tre notti, al fine di cacciare via quell'orrendo tanfo che era penetrato fin nei suoi angoli più reconditi.

giovedì 29 giugno 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 76. Lo zio Lorenzo Monterovere, il Barone Rampante

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Quando per Ettore Ricci scattarono gli arresti domiciliari, secondo la normativa della custodia cautelare, la famiglia Monterovere si divise riguardo all'atteggiamento da tenere di fronte al clan Ricci-Orsini.
Francesco Monterovere, genero di Ettore, si schierò naturalmente a suo favore, insieme al figlio Riccardo.
I suoi zii Tommaso e Anita si schierarono invece contro e comparvero persino come testimoni dell'accusa per quel che riguardava i rapporti tra l'Azienda Fratelli Monterovere e il Feudo Orsini.
Il capofamiglia, il vecchio Romano Monterovere, e sua figlia Enrichetta (dirigente dell'Azienda), dichiararono la propria neutralità.
Inaspettatamente Francesco trovò un sostenitore nel suo fratello minore Lorenzo, divenuto nel frattempo Professore Ordinario di Storia delle Religioni all'Università di Bologna, nonché illustre accademico e cattedratico.
Si diceva che fosse affiliato alla Massoneria, ma lui smentì.
Le uniche cose che si sapevano realmente erano legate alla straordinaria carriera che aveva fatto sia nell'ambito dell'università, sia all'interno di numerosi enti culturali e filantropici, di cui era amministratore, con emolumenti molto generosi, che gli avevano permesso di comprare e ristrutturare il Castello di Monterovere Boica nell'Appennino Modenese.

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Da dove gli derivassero tutti quei soldi era un mistero insondabile: evidentemente l'Ordine di iniziati di cui faceva parte non gli permetteva di rivelare ulteriori dettagli.
Molti anni dopo suo nipote Riccardo, nei suoi anni di residenza bolognese, avrebbe finalmente svelato gli arcani e scoperto la vera natura iniziatica della società segreta di cui lo zio Lorenzo faceva parte.
Lorenzo, che molto probabilmente era omosessuale, aveva comunque bisogno di un erede e per questo sembrava aver scelto il figlio di suo fratello Francesco.
Forse fu per questo che, dopo anni di lontananza, riprese i rapporti col fratello.
Quando si incontrarono, finiti i vari salamelecchi, Lorenzo venne al punto.
<<Io ho molte conoscenze, Francesco, e posso aiutare tuo suocero. Ma se lo faccio sarà solo per salvare l'eredità di Riccardo e la sua reputazione futura>>
Francesco non aveva una particolare simpatia per quel pomposo fratello, ma in un momento così difficile, decise che valeva la pena rischiare ed accettare il suo aiuto.
Lo mise così in contatto con l'Avvocato Vanesio.
Tra Lorenzo Monterovere e Marco Tullio Vanesio nacque immediatamente un'amicizia che fece molto discutere.
Tra i due c'era una certa comunanza anche fisica.
Entrambi avevano un'eccessiva leziosità, una voce stridula, una risatina querula, un atteggiamento petulante, un viso dai tratti effeminati, con labbra tumide, colorito acceso, sopracciglia curate, capigliatura chiara, predilezione per i colori pastello, specie il rosa e il lavanda, e altri piccoli dettagli rivelatori.
Monterovere ogni anni faceva un "viaggio di ricerca" di qualche mese in Grecia o in Israele o in altre località esotiche, portandosi dietro alcuni suoi giovani allievi, tutti molto prestanti, che poi vincevano cospicue borse di studio e importanti concorsi per diventare dottore di ricerca e poi ricercatore confermato.
Ma tutti questi aspetti folkloristici del Chiarissimo Professore Ordinario Lorenzo Monterovere, nascondevano una realtà molto oscura e pericolosa, di cui per il momento è prematuro parlare.

mercoledì 28 giugno 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 75. L'Avvocato Marco Tullio Vanesio, specialista in cause perse

Il quarto socio dello studio legale Calderisi, Orbace, Rodagni e Vanesio era, per l'appunto 
l'illustre penalista Marco Tullio Vanesio, specialista in cause perse, relitti umani e casi disperati.
Non era sempre stato così.
I più anziani ricordavano i tempi in cui lo Studio Vanesio era ancora dotato di un certo prestigio, quando ancora era vivo il precedente titolare, ossia l'omonimo nonno Marco Tullio Vanesio Senior, un legale austero, insignito del rango di Cavaliere di Gran Croce.
La tragedia si era abbattuta sulla famiglia Vanesio per la prima volta quando il figlio del vecchio titolare, il tenente Cesare Giulio Vanesio, era caduto sul fronte russo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Come lo stesso Avvocato Vanesio amava ricordare:
<<Il mio caro padre, poco prima di procombere eroicamente in partibus infidelium et ab hoste adversa, conobbe, quale suo giovine commilitone e attendente, l'avvocato Gianni Agnelli, di cui ci scrisse in una delle sue ultime missive. Ci raccontava che il collega Agnelli, chiamato alle armi, accettò un 18 nell'esame di Scienza delle Finanze, la cui cattedra, a Torino, era tenuta nientemeno che da Luigi Einaudi. Ebbene, in cotale incombenza, il cattedratico Einaudi strigliò il giovane Agnelli dicendo: "Col cognome che porta, lei dovrebbe vergognarsi di accettare un 18 proprio in Scienza delle Finanze", e allora il caro Gianni rispose: "E lei, illustre Professor Einaudi, col cognome che porta, dovrebbe vergognarsi di insegnare in un'università che richiede l'iscrizione al Partito Fascista".
Eh, quelli sì che erano tempi! Pensate... mio padre e il collega Agnelli, tra le nevi della taiga, si confidavano i segreti delle loro vite. E poiché dulce et decorus est pro Patria mori, è opportuno e decente affermare che il mio caro padre ebbe la sorte migliore, lasciando in Russia "la vesta ch'al gran dì sarà sì clara". Il collega Agnelli invece, si dovette accontentare di tornarsene a Villar Perosa, a fare macchine di terza categoria, serbando, come unico ricordo della sua esperienza di milite, una gamba tinca, che lo costrinse, come voi m'insegnate, a servirsi di un bastone di malacca per il resto dei suoi giorni>>
Già da questo primo aneddoto, possiamo dedurre che l'eloquio di Marco Tullio Vanesio non godesse del dono della sintesi e men che meno di quello della modestia.
Fisicamente aveva l'aria di chi, in un lontanissimo giorno di gioventù, dovesse aver goduto di una qualche forma di prestanza, ben presto trasformatasi, tuttavia, in qualcosa di ambiguo, nel contempo ampolloso e stucchevole.
I capelli biondo platino, untuosi, le sopracciglia depilate, la pelle cadente carica di fondotinta, le labbra carnose e turgide, gli occhi chiari acquosi, la dentiera dondolante, la pappagorgia... tutto insomma contribuiva a comunicare l'immagine di un vecchio gagà diventato la caricatura di se stesso.
Nonostante volesse dare l'idea di essere un uomo estremamente ricco, l'avvocato Vanesio navigava da molto tempo in pessime acque.
L'inflazione aveva divorato i risparmi degli avi, così come un contenzioso legale con un parente aveva privato Vanesio di gran parte dei beni immobili che erano stati di proprietà di Marco Tullio Senior. E questo a riprova del fatto che Vanesio perdeva non solo le cause dei suoi clienti, ma anche quelle che lo riguardavano in prima persona.
Sua madre, che apparteneva alla facoltosa famiglia dei Marangoni, gli aveva lasciato in eredità un'intera vallata, nell'Appennino, con una villa, che sfortunatamente era andata distrutta durante un terremoto.
Gli rimaneva una vecchia e cadente dimora di campagna nei dintorni di Pievequinta, dove risiedeva insieme a una dozzina di cani.
Questa debacle finanziaria traspariva dalle condizioni stesse dei locali in cui era domiciliato il suo studio legale.
I più istruiti avrebbero potuto dire che ricordava lo studio del dottor Azzeccagarbugli di manzoniana memoria.
Gli altri si limitavano a notare le macchie e gli strappi nella carta da parati e nella fodera delle poltrone, le ragnatele negli angoli del soffitto, i pavimenti sbeccati, i tappeti lisi, i legni tarlati, i tomi di diritto romano sfasciati e scomposti, le bottiglie di liquori inaciditi e i bicchierini sparsi in giro, con file di formiche ubriache intorno.
Tutto questo però sembrava al di fuori della consapevolezza dell'illustre Principe del Foro, che si comportava come se quelle "superbe ruine", per usare un termine a lui caro, fossero motivo di vanto e di giustificato orgoglio.
Era sempre stato molto pomposo.
Si faceva dare del Lei da tutti, anche dagli amici più intimi, che erano tenuti a chiamarlo Avvocato in ogni circostanza.
Parlava di se stesso usando spesso il pluralis maiestatis, a cui ormai non ricorreva più nemmeno la regina Elisabetta.
Una delle sue caratteristiche più ridicole era il fatto che millantasse con la massima convinzione amicizie altolocate inesistenti, specie quelle rare volte in cui si recava a Roma, alla Corte di Cassazione (almeno così diceva lui).
<<L'altro giorno in Cassazione ho incontrato il Ministro Martelli, che ha studiato su uno dei miei libri di diritto romano, ed ha voluto una dedica personale pro bono publico>>
E qui merita di essere aperta una parentesi sul suo eloquio classicheggiante.
Le sue citazioni latine, a dire il vero, non erano sempre del tutto appropriate. Anzi, a volte sembravano messe lì più che altro per gettare fumo negli occhi a quei "bravi villici" che si rivolgevano alle sue illustri consulenze.
In effetti la sua clientela era composta più che altro da sprovveduti totali conosciuti in piazza o in treno e attirati nella trappola della sua ragnatela dalle citazioni latine e dai continui riferimenti alle conoscenze in alto loco.
Fortuna volle, però, che un giorno bussasse alla sua porta nientemeno che (parole sue) "quella vecchia canaglia di Ettore Ricci".
E poiché, quanto ad essere una vecchia canaglia, l'avvocato Vanesio non era secondo a nessuno, si rese conto che se fosse riuscito, per una incredibile concomitanza di casi, a far assolvere Ettore Ricci, il suo studio legale sarebbe tornato ai fasti dei tempi di suo nonno, e lui avrebbe potuto aspirare a quello che riteneva "il minimo" che gli fosse dovuto, ossia un seggio in Senato.
Questo sogno ad occhi aperti di Vanesio era giunto alle orecchie dello stesso Ettore Ricci, il quale dichiarò:
<<Se mi fa vincere la causa, di seggi in Senato gliene faccio avere anche due, uno per ogni chiappa!>>

martedì 27 giugno 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 74. Iniziano i processi contro Ettore Ricci

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Una delle affermazioni che Ettore Ricci esprimeva più spesso e con maggior convinzione era la seguente: "Se qualcuno volesse rispettare tutte le leggi esistenti in Italia, non riuscirebbe più a muovere un dito". 
E in questo non aveva tutti i torti. La Repubblica Italiana, alla fine degli anni '80 del XX secolo, era già un paese soffocato dall'eccesso di leggi, regolamenti, direttive, usi, consuetudini, lacci e laccioli vari che avevano dato vita a un mostro burocratico tale da schiacciare sul nascere ogni iniziativa privata.
Non diciamo questo per giustificare gli errori di Ettore Ricci, alcuni dei quali erano così plateali e ingenui da farlo sembrare un banale ladro di polli, ma per ricordare che i procedimenti giudiziari in cui si trovò coinvolto, suo malgrado, gli offrirono un palcoscenico dal quale egli, grazie alle sue innate doti istrioniche, diede vita ad uno spettacolo satirico a sfondo socio-politico di cui fu, deliberatamente, primo attore, regista e capocomico.
Ma procediamo per gradi.
La prima grana legale fu una cosa relativamente di poco conto e cioè una denuncia per abuso edilizio riguardo alla costruzione delle tre case di Cervia su una specie di collinetta artificiale che oscurava la visuale dei vicini, in particolare quella del signor Mario Strambelli, che in precedenza si era già vendicato versando, nottetempo, secchi pieni di deiezioni liquide innominabili nel giardino della villa più alta, quella di Margherita Spreti di Serachieda, provocando olezzi nauseabondi e una moria di ortensie che fu causa di numerose afflizioni per la figlia primogenita di Ettore Ricci, e una rabbia incontenibile in suo padre.
Più preoccupante, anche se sotto molti aspetti scontata, fu l'inchiesta che vide Ettore indagato per evasione fiscale e falso in bilancio.
Furibondo, quando lo venne a sapere, il vecchio Ricci si sfogò con sua sorella Adriana:
<<Non hanno uno straccio di prova! Vogliono incastrarmi con una quisquilia contabile, manco fossi Al Capone! E allora io rispondo come fece lui: "Siete solo chiacchiere e distintivo! Chiacchiere e distintivo!>>
Fu la prima di una lunghissima serie di memorabili battute del prode Ettore nella lunga guerra che seguì.
Arrivarono poi altre indagini con l'accusa di corruzione di pubblico ufficiale, che coinvolse un numero imbarazzante di impiegati comunali, provinciali, regionali, statali e dipendenti degli enti pubblici economici.
<<E' una menzogna! E' forse una colpa aver regalato a qualche brav'uomo una cassa di ciliegie o un cesto con prosciutto e salame? Ma se credono che io mi faccia crocifiggere senza reagire si sbagliano di grosso! Se affondo io, mi tiro dietro tutti!>> sbottò Ettore Ricci <<Chi mi vuole spedire all'inferno, sprofonderà all'inferno insieme a me!>>
Lo diceva rivolto alla famiglia, ma con voce sufficientemente alta affinché tutti sentissero.
<<Non avresti dovuto rifiutarti di pagare i debiti di Alberico. In quel modo hai perso il sostegno del senatore Senatore Leandri>> fece notare sua sorella Adriana
Ettore batté un pugno sulla scrivania del suo studio:
<<Quell'idiota di Alberico se l'è cercata, nonostante io l'avessi avvertito mille volte. E si sarebbe messo nei guai di nuovo, buttando nel cesso i miei soldi e la mia fatica.
Quanto a Leandri, la cosa meno sgradevole che posso dire di lui è che è un gran figlio di puttana>>
Adriana sospirò:
<<Sì, ma era il "nostro" figlio di puttana. La politica funziona così. Me l'hai insegnato tu>>
Di fronte a quella pregnante osservazione, Ettore si limitò a ringhiare, come un cinghiale preso in trappola.
L'altra sorella, Carolina, gli rimproverava le bugie:
<<A volte sarebbe stato più utile dire la verità>>
Ettore scuoteva la testa, sdegnato:
<<La verità è così preziosa che deve sempre essere protetta da una cortina di bugie>>
Non la pensavano allo stesso modo i magistrati quando formularono ai suoi danni l'accusa più infamante e cioè quella di usura e riciclaggio di denaro sporco.
Che i Ricci fossero stati, almeno inizialmente, degli usurai e dei contrabbandieri, non era un segreto per nessuno, ma non c'erano mai state prove evidenti per sostenere quell'accusa in un tribunale.
<<Qualcuno ci ha traditi, ma non riesco a credere che possa essere stato Michele. E' il mio amministratore da cinquant'anni, e se io dovessi risultare colpevole, allora lui sarebbe considerato un mio complice. E poi non avrebbe nulla da guadagnarci>>
Non immaginava, Ettore, che la perfidia di un invidioso come Michele Braghiri poteva arrivare persino all'autolesionismo pur di vedere nella polvere e nel fango l'uomo che gli aveva fatto ombra per tutta la vita.
Ettore Ricci ebbe comunque il buon senso di non confidarsi con lui e di rivolgersi soltanto alla propria famiglia.
Inaspettatamente, a schierarsi in modo immediato e totale dalla parte di Ettore fu sua moglie Diana Orsini, che pure avrebbe avuto milioni di motivi per dubitare di lui, ma c'era in gioco l'onore della famiglia:
<<Vogliono infangare il buon nome dei Ricci-Orsini e distruggere la nostra famiglia. Ma noi dimostreremo a tutti di essere uniti e compatti. E ci difenderemo!>>
Lui rimase stupefatto:
<<Io credevo che tu mi considerassi colpevole... anche per colpe... come dire... ormai cadute in prescrizione...>>
Diana gli rivolse uno sguardo incredibilmente benevolo:
<<Non più di quanto fossi colpevole io stessa. Me ne rendo conto solo ora. 
Avevi bisogno di una moglie che ti comprendesse, che ti sostenesse, che ricambiasse i tuoi sentimenti. 
Se io fossi stata quel tipo di moglie, forse molto dolore si sarebbe potuto evitare
Ma siamo ancora in tempo, Ettore... 
Non so quanto tempo ci resta, ma ti prometto che d'ora in avanti sarò per te quello che sarei dovuta essere fin dall'inizio>>
Ettore era confuso e farfugliava:
<<Ma sono io a non essere mai stato alla tua altezza. Tu hai avuto con me fin troppa pazienza. Non merito il tuo perdono...>>
Lei sorrise, ed era una cosa talmente rara da essere meravigliosa a vedersi, come l'apparizione di una dea:
<<Qualunque possano essere state le tue responsabilità, hai già scontato la tua pena sopportando le mie filippiche, i miei musi lunghi e i miei silenzi ostinati. Ora è tempo di dimenticare i fantasmi del passato. Dimentichiamo i morti, le loro tombe sprofondano nella cenere. 
Pensiamo ai vivi, pensiamo a che meravigliosa famiglia abbiamo costruito: le nostre figlie, i nostri nipoti... se sono venuti su così bene, vorrà pur dire che qualcosa di buono l'abbiamo fatto, non trovi?>>
Ettore le prese la mano, quella mano ancora così bianca e diafana, come quella di una fata:
<<Sì. L'abbiamo fatto. Se le nostre figlie e i nostri nipoti ci vogliono così bene, forse, senza nemmeno rendercene conto, qualcosa di buono l'abbiamo fatto davvero>>

lunedì 26 giugno 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 73. Il Potere del Trio. Le indivisibili sorelle Ricci-Orsini

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Per quanto fossero molto diverse tra loro, le tre figlie di Ettore Ricci e Diana Orsini erano sempre state legate da un eccezionale rapporto di simbiosi, dovuto sia al forte senso di appartenenza ad una grande famiglia allargata, che si concepiva come una vera e propria dinastia, sia ad un'intesa psicologica profonda, basata sull'aver condiviso esperienze forti e terribili, a partire dagli anni della guerra, fino all'innumerevole serie di scandali, lutti e rovesci di fortuna che si erano abbattuti sul clan nato dal tormentato matrimonio dei loro genitori e sul Feudo che essi amministravano come se vivessero ai tempi del Medioevo, o in quelli dell'Ancien Regime.
Ma c'era qualcosa di più.
C'era in loro un profondo e maggiormente oscuro elemento condiviso e cioè il conflitto interiore tra i geni paterni dei Ricci (esuberanti, ruspanti, intraprendenti, instancabili, sanguigni e collerici) e i geni materni degli Orsini (malinconici, flemmatici, raffinati, decadenti, esausti e perseguitati dall'emicrania).
Allo stesso modo si manifestava nella personalità delle tre sorelle l'ulteriore conflitto tra gli insegnamenti del padre Ettore e quelli della madre Diana, così diversi e quasi opposti tra loro, a tal punto da creare nelle figlie una specie di eterna oscillazione tra forza e delicatezza, tenacia e dubbio, spontaneità schietta e sussiego aristocratico, energia e apprensione, collera e garbo, volontà e catastrofismo, estroversione e riservatezza, coraggio e paura, progettualità e pessimismo integrale e radicale.
In tutte queste coppie di opposti inconciliabili, il primo veniva da Ettore Ricci, il self-made-man, sanguigno, forte, ma plebeo e il secondo veniva da Diana Orsini, aristocratica, raffinata, ma perennemente malinconica e disillusa a tal punto da rasentare il cinismo.
Dire che erano una "coppia male assortita" non rendeva l'idea della totale differenza tra i due coniugi.
Mentre Ettore era il classico tipo che si prefiggeva obiettivi ambiziosi ed era disposto a fare qualunque cosa pur di ottenerli, sua moglie Diana ripeteva sovente alle figlie una frase dai contenuti opposti:<<Non ottenere quello che si vuole, a volte, può essere una benedizione>>
Ettore esaltava il coraggio, l'ardore, l'orgoglio.
Diana invitava alla prudenza, alla pazienza e all'umiltà.
Era fortemente critica riguardo al mito del successo, rispetto a cui si esprimeva con argomentazioni filosofiche: <<Com'è abituale nell'evoluzione concreta delle cose, colui che ha trionfato e conquistato il godimento e il potere, ne diviene schiavo e dipendente, mentre colui che ne è stato privato conserva la propria umanità>>
C'era forse un rimprovero nemmeno troppo velato alla parabola umana del coniuge?
Era naturale che le tre figlie crescessero dilaniate dal dilemma se schierarsi dalla parte del padre o da quella della madre, durante le interminabili liti di questi ultimi, che proseguivano all'interno della stessa psiche delle loro eredi.
Con genitori tanto diversi e conflittuali, un figlio unico non avrebbe potuto che soccombere alla nevrosi. Ma per fortuna le figlie erano tre.
La salvezza delle sorelle fu dunque quella di aiutarsi e sostenersi reciprocamente sempre, diventando quasi un'unica entità, una trimurti, una trinità, un trio da cui si sprigionava un potere simile a quello delle mitiche sorelle Halliwell nella serie tv "Streghe".
Mantennero quel rapporto strettissimo persino dopo i rispettivi matrimoni e la nascita dei loro figli, tra lui peraltro col tempo sorse un rapporto alquanto simile, anche perché i tre cugini erano invece figli unici, e molto bisognosi di reciproco sostegno, durante l'infanzia nel Feudo di Casemurate.
Ma cerchiamo di conoscere meglio, singolarmente, le sorelle Ricci-Orsini, chiamandole col cognome dei loro considerevoli mariti.
La primogenita, Margherita Spreti di Serachieda, aveva sviluppato, in perfetta armonia col suo nome, un particolare interesse, anzi, una vera e propria mania, per i fiori e il giardinaggio.
La sua residenza di via Spreti era dunque circondata da un bellissimo giardino fiorito, di cui lei stessa si occupava personalmente tutti i giorni e per tutto il giorno.
Ma non si trattava di un hobby: era qualcosa di totalizzante, come se non esistesse altro nella vita.
Il problema, che potrebbe anche essere visto come una fortuna, sotto certi aspetti, era che il suo mondo iniziava e finiva in quel parco. Non le interessava minimamente tutto quello che succedeva al di fuori di quel microcosmo.
Poteva al massimo riservare una distratta attenzione alle notizie locali, riguardanti eventi accaduti entro un raggio di 15 km da casa sua, e pertanto di scarso interesse, se non per chi c'era andato di mezzo: incidenti stradali, furti, rapine in villa, grandinate, gatti smarriti, galline investite da un trattore, ubriachi finiti nel fosso Serachieda che si giustificavano dicendo che "il fosso mi è venuto addosso"
La Tenuta Spreti di Serachieda era considerata una specie di Svizzera in mezzo alla steppa dell'arida Romagna Centrale, le cui estati secche e roventi e i cui inverni rigidi e gelati avrebbero provocato una desertificazione simile a quella dell'Afghanistan se non ci fossero state le due grandi opere idrauliche realizzate dall'Azienda Monterovere dietro appalto pubblico della Regione, della Province e dei Comuni interessati, ossia il Canale di irrigazione Emiliano Romagnolo e l'imponente Diga di Ridracoli.
Il fatto che la seconda sorella Ricci-Orsini, Silvia,  l'unica ad aver proseguito gli studi fino alla laurea in lettere classiche, avesse sposato Francesco Monterovere, membro della stessa famiglia realizzatrice di quelle fondamentali infrastrutture, oltre che noto e apprezzato docente di matematica e fisica, ne aveva accresciuto il prestigio e anche il ruolo di "intellettuale di famiglia".
Silvia Monterovere viveva in città, insegnava al Liceo Classico, e il suo salotto era frequentato dall'elite, anche se già alla fine degli Anni Ottanta incominciavano a manifestarsi, sia per i lutti che per gli attriti e gli iniziali sospetti dello scricchiolio del Feudo Orsini (e dei problemi giudiziari di Ettore Ricci), le prime illustri defezioni.
Ma Silvia, in quegli anni, non se ne preoccupava affatto.
All'epoca era una donna giovane, bella, sana e riponeva notevoli (e oggettivamente eccessive) speranze nel figlio, le cui doti sembravano promettere un luminoso futuro, magari come dirigente d'azienda ed erede dello stesso Ettore Ricci alla guida dell'intero clan degli Orsini.
Purtroppo accade spesso che gli enfant prodiges non si rivelino, da adulti, all'altezza delle aspettative createsi nei loro confronti.
Ma questa è un'altra storia, e sarà raccontata un'altra volta.
Più defilata, ma in realtà più perspicace e abile negli affari e nelle relazioni politiche era la terza sorella, la più giovane, Isabella Ricci-Orsini, nata nel 1943, l'anno del suicidio della sua omonima zia. Sposatasi con Saverio Zanetti Protonotari Campi, proprietario dell'azienda vinicola dell'Erbosa, Isabella aveva subito preso in mano la situazione, investendo cifre ingenti nell'impianto di nuove vigne di primissima qualità, che produssero negli anni successivi il migliore Trebbiano di Romagna che si fosse mai conosciuto, poiché quella terra argillosa e secca era perfetta per quel tipo d'uva.
Per quanto fisicamente molto simile alla madre, Isabella aveva ereditato dal padre una personalità capace di comprendere meglio, rispetto alle sorelle, le dinamiche degli affari e della politica.
Per questo appariva la più adatta ad ereditare il ruolo paterno, se le cose fossero andate nella giusta direzione.
Le diverse doti delle tre sorelle rendevano la loro unione ancora più efficace, poiché si completavano a vicenda e solo quando erano unite potevano riuscire a gestire nel modo migliore le questioni di famiglia. Col passare degli anni e il superamento delle crisi familiari, anche grazie alla loro capacità di rimanere unite e compatte, incominciarono a percepirsi come un unico monolite indistruttibile.
E questo fu il loro errore, da cui peraltro la loro madre le aveva messe in guardia.
<<Niente è indistruttibile>> era solita ripetere Diana Orsini.
Le sue figlie non le davano ascolto.
Non tenevano conto, però, del fatto che, come spesso Diana aveva sperimentato a sue spese, la vita può essere crudele al punto di accanirsi rabbiosamente e ripetutamente contro i propri bersagli,  specie quelli che agli occhi degli estranei sembravano i più forti, per ricordare al mondo intero che, senza ombra di dubbio,  niente è indistruttibile.