lunedì 5 giugno 2017

Satira e caricature


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La vignetta di Alfio Krancic, imperdibile, sulla querelle dei mancati applausi del presidente della Camera Laura Boldrini al passaggio della Folgore il 2 Giugno a Roma...






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Il concetto di Samsara

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Il termine sanscrito (devanāgarī संसार, "scorrere insieme") indica, nelle religioni dell'India quali il Brahmanesimo, il Buddhismo, il Giainismo e l'Induismo, la dottrina inerente al ciclo di vita, morte e rinascita. È talora raffigurato come una ruota.
In senso lato e in un significato più tardo, viene ad indicare anche "l'oceano dell'esistenza", la vita terrena, il mondo materiale, che è permeato di dolore e di sofferenza, ed è, soprattutto, insustanziale: infatti, il mondo quale noi lo vediamo, e nel quale viviamo, altro non è che miraggio, illusione māyā. Immerso in questa illusione, l'uomo è afflitto da una sorta di ignoranza metafisica (avidyā), ossia da una visione inadeguata della vita terrena e di quella ultraterrena: tale ignoranza conduce l'uomo ad agire trattenendolo così nel saṃsāra.

Origine della dottrina

Non vi sono riferimenti alla dottrina del saṃsāra nella religione vedica (XX-VIII secolo a.C.), la quale è piuttosto concentrata ad ottenere mediante i sacrifici e i riti il godimento (bhukti) della vita terrena[1].
Il primo riferimento alla dottrina del saṃsāra sembra infatti comparire nel XVI verso del II brāhmaṇa nel VI adhiyāya della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (IX-VIII secolo a.C.):
« Coloro che conquistano i mondi celesti con il sacrificio, l'elemosina, l'ascesi, costoro entrano nel fumo, dal fumo [passano] nella notte, dalla notte nella quindicina della luna calante, dalla quindicina della luna calante nel semestre in cui il sole si muove verso il Sud, da questo semestre nel "mondo dei Mani, dal mondo dei Mani nella luna. Giunti che siano alla luna, essi diventano nutrimento e gli dei quivi se ne cibano come si cibano della luna con le parole ""Accresciti, riduciti!"". Poiché questa [sosta] è per essi terminata, allora ritornano nello spazio, dallo spazio passano nel vento, dal vento nella pioggia, dalla pioggia sulla terra. Giunti che siano sulla terra, diventano cibo e di nuovo sono sacrificati in quel fuoco che è l'uomo e rinascono in quel fuoco che è la donna. Giungendo ai diversi mondi, continuano così il loro ciclo. Ma coloro che non conoscono queste due vie, rinascono come vermi, insetti e tutte le specie che mordono. »
(Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad. VI, 2, 16)
Tale testo, databile tra l'VIII e il V secolo a.C. appartiene all'ultimo capitolo del Śatapatha Brāhmaṇa ovvero al commentario delle formule recitate dall'officiante dello Śukla Yajurveda (Yajurveda bianco) denominato adhvaryu.
Mentre il primo riferimento esplicito alla dottrina del Saṃsāra, nell'ambito della letteratura vedica, si ha nel VII verso della III valli della Kāṭha Upaniṣad:
« Colui che è privo di ragione, senza criterio, sempre impuro, costui non giunge alla sede [suprema], ma ricade nel ciclo delle esistenze. »
(Kāṭha Upaniṣad. III, 6)
La Kāṭha Upaniṣad, databile probabilmente dopo il V secolo a.C. in quanto conterrebbe delle influenze buddhiste, appartiene alla scuola dei Kaṭaka del Kṛṣṇa Yajurveda (Yajurveda nero).
Riferimenti alla dottrina del Saṃsāra sono cospicuamente presenti nella letteratura buddhista e jainista, religioni coeve a buona parte delle Upaniṣad.
Così, nel Canone buddhista in lingua pāli viene spiegata la nostra esistenza nel saṃsāra (pāli samsāra):
« A Savatthi. Là il Benedetto del Cielo disse: "È a partire da un inconoscibile principio che viene la trasmigrazione. Il punto di principio non è evidente, sebbene degli esseri impediti dall'ignoranza ed incatenati per l'invidia insaziabile trasmigrano e continuano ad errare. Che ne pensate, monaci,: Che cosa è più grande, le lacrime che avete versato mentre voi trasmigrate ed erravate in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - o l'acqua dei quattro grandi oceani"? "Così come noi comprendiamo il Dhamma a noi insegnato dal Benedetto del Cielo, questo è il più grande: le lacrime che abbiamo versato mentre noi trasmigravamo ed erravamo in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - non l'acqua dei quattro grandi oceani." "Eccellente, monaci. Eccellente. È eccellente che comprendiate così il Dhamma che insegno." "Questo è il più grande: le lacrime che avete versato mentre voi trasmigravate ed erravate in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - non l'acqua dei quattro grandi oceani."
Voi avete molto tempo, fatta l'esperienza della morte di una madre. Le lacrime che avete versato sulla morte di una madre mentre voi trasmigravate ed erravate in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - sono più grandi dell'acqua dei quattro grandi oceani. Voi avete molto tempo, fatta l'esperienza della morte di un padre... della morte di un fratello... della morte di una sorella... della morte di un figlio... della morte di una ragazza... di una perdita rispetto ai genitori... di una perdita rispetto alla ricchezza... di una perdita rispetto alla malattia. Le lacrime che avete versato su una perdita rispetto alla malattia mentre voi trasmigravate ed erravate in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - sono più grandi dell'acqua dei quattro grandi oceani. "Qual è la ragione? È a partire da un inconoscibile principio che viene la trasmigrazione. Il punto di principio non è evidente, sebbene degli esseri impediti dall'ignoranza ed incatenati per l'invidia insaziabile trasmigrano e continuano ad errare. Voi avete molto tempo così fatta l'esperienza del dolore, fatta l'esperienza della sofferenza, fatta l'esperienza della perdita che riempie i cimiteri - abbastanza per disingannarvi da ogni cosa fabbricata, abbastanza per voi di non avere passioni, abbastanza per liberarvi." »
(Samyutta Nikaya. XV,3)
L'origine della dottrina del Saṃsāra è dunque tutt'oggi controversa, ma come nota Brian K. Smith[2]:
« In ogni caso, con il VI secolo a.C. periodo in cui presero forma il Buddhismo antico e il Jainismo da una parte e le Upaniṣad dall'altra, la teoria della rinascita fu pressoché universalmente accettata »
Inoltre, come nota sempre Brian K. Smith[3]:
« Non c'è una visione univoca della visione del saṃsāra e del processo di rinascita. Ogni religione ha la posizione propria e all'interno di ogni religione ci sono variazioni settarie »

Il saṃsāra nel Buddhismo

Per il Buddhismo dei Nikaya è il ciclo vitale al quale tutti gli esseri senzienti sono sottoposti data la condizione indisciplinata della loro mente. Accumulando karma negativo di fatto gli esseri senzienti si "condannano" ad una nuova rinascita di sofferenza in un livello inferiore dell'esistenza (es. nel "regno animale" o degli "spiriti") aumentando così la probabilità di essere più facilmente vittima delle emozioni perturbatrici e precipitare dunque in un livello ancora più basso d'esistenza. Anche l'accumulo di karma (pālikarmasanscrito) positivo comporta una rinascita nel ciclo, anche se in condizioni più favorevoli, e, dato che è la vita in quanto tale che fa sperimentare la sofferenza (vedi Quattro Nobili Verità), la condizione migliore è quella di un abbandono del Samsāra (Nibbāna).
Per le scuole del Buddhismo Mahayana non vi è invece differenza tra samsara e nirvana. È nel regno in cui la vita rinasce che si realizza il nirvana, ambedue i mondi sono vuoti (sunyata) di qualsiasi proprietà inerente. La realizzazione di questa profonda verità porta alla liberazione completa (bodhi). Così Nagarjuna:
« Non vi è la minima differenza fra samsara e nirvana, né la minima differenza fra nirvana e samsara »
(Madhyamakakarika, XXV, 19)
Iconograficamente il Saṃsāra viene rappresento nel Buddhismo con la ruota dell'esistenza.

Il saṃsāra nel Jainismo

Saṃsāra nel Jainismo si pone nella via della salvezza attraverso la rigida applicazione di una retta condotta di vita atta a non produrre più i frutti dell'azione (karman) e a esaurire quelli accumulati nelle esistenze precedenti. Sull'esempio del fondatore, ciò si ottiene perseguendo l'ascesi, la rinuncia, la mortificazione del corpo e la radicale non violenza (ahimsa) nei confronti di ogni creatura animata, che per i jaina significa ogni elemento e fenomeno naturale.
Non vi è devozione né nei confronti degli dei né nel fondatore (detto anche Mahavira, “grande eroe”) o degli altri ventitré tirthankara (“creatori del guado”), profeti che compaiono nelle diverse epoche per ricostruire la giusta conoscenza della dottrina. Solamente l'esempio dei siddha (“perfetti”), le anime che sono riuscite a sottrarsi al samsara, è realmente utile al credente. La fortissima base etica del jainismo si riflette sia nella tolleranza nei confronti di tutti gli altri culti, sia nella forte diffusione tra i credenti di mestieri non violenti quali soprattutto il commercio e la finanza, aspetto che ha contribuito a rendere molto influente la ristretta ma compatta comunità jaina.

Il saṃsāra nell'Induismo

Il ciclo delle rinascite, e delle rimorti, è uno dei pochi concetti su cui concordano quasi tutte le scuole dell'Induismo. Il motore di questo ciclo è riconosciuto nel karman (azione; in modo non corretto, d'uso corrente, il termine viene scritto karma). Secondo la dottrina del karman, qualsiasi azione, e qualsiasi volizione, generano come effetto l'accumulo di karman, che va considerato alla stregua di un bagaglio gravato da tutto ciò che una persona ha compiuto, tanto nel bene quanto nel male. Ciò comporta che, alla morte, l'elemento individuale sia costretto a rinascere nuovamente, in forma umana ma anche divina, demoniaca, animale o vegetale. Nella nuova esistenza l'individuo si troverà in una condizione migliore o peggiore della precedente a seconda della qualità morale del karman accumulato. Agendo in modo corretto, il nuovo individuo si guadagnerà la possibilità di ottenere una rinascita migliore; in caso contrario, rinascerà in una condizione peggiore. Il fine ultimo è naturalmente estinguere il proprio debito karmico fino a raggiungere il Mokṣa, la liberazione, ovvero la definitiva uscita dal Saṃsāra.
Si rimane quindi prigionieri nel Saṃsāra per un numero indefinito di volte, fino al totale esaurimento del proprio bagaglio karmico. Le vie (mārga) che possono essere seguite per giungere a tale obiettivo sono in buona sostanza tre: la via del sacrificio rituale (karma-mārga), la via della gnosi (jñāna-mārga) e la via della dedizione amorosa a un dio (bhakti-mārga). Il Mokṣa è di norma descritto come una sorta di condizione indistinta (ossia uno stato del quale non è possibile dare una definizione positiva) ove non si prova più né gioia né dolore. Gran parte delle correnti devozionali, che seguono la corrente religiosa della bhakti, identifica invece la liberazione come l'immergersi per sempre nella perfetta e beata unione con l'amato dio.
Nella vita attuale ogni individuo deve necessariamente compiere la propria esperienza, per poi poter giungere alla liberazione definitiva (Mukti o Mokṣa: il termine sanscrito significa, letteralmente, scioglimento), che è il fine delle religioni e delle filosofie dell'India con l'eccezione delle scuole materialiste (che ripudiano questa dottrina).

Note

  1. ^ Anne-Marie Esnoul (in Enciclopedia delle Religioni vol.9. Milano, Jaca Book, 2004 pag.250) evidenzia come nella civiltà e nella letteratura religiosa vedica (comprensiva in questo caso dei Veda e dei loro commentari Brāhmaṇa) non si riscontra alcuna riflessione sulla 'sofferenza' nel mondo, sul ciclo delle rinascite (saṃsāra) e, di conseguenza sui percorsi di liberazione da esso quanto piuttosto il godimento (bhukti) della vita terrena. È quindi solo con le prime Upaniṣad (IX secolo a.C.) che si avvia la riflessione teologica indiana sulla sofferenza nel mondo e sulla necessità di un percorso di liberazione da essa. E questo corrisponderebbe all'avvio del periodo assiale individuato da Karl Jaspers.
  2. ^ Encyclopedia of Religion. NY, MacMillan, 2005, vol.12 pagg. 8097 e segg. e Enciclopedia delle Religioni. Milano, Jaca Book, 2004, vol.9 pag.331.
  3. ^ Op. cit

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domenica 4 giugno 2017

Il concetto di Dharma

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Dharma (in devanāgarī: "धर्म") è un termine sanscrito che presso le religioni dell'Asia meridionale riveste numerosi significati. Può essere tradotto come "Dovere", "Legge", "Legge cosmica", "Legge Naturale", oppure "il modo in cui le cose sono" o come equivalente del termine occidentale "Religione"[1][2].
La parola Dharma è usata nella maggior parte delle filosofie religiose o religioni di origine indianaInduismo (Sanātana Dharma), Buddhismo (Buddha Dharma), Jainismo (Jain Dharma) e Sikhismo (Sikh Dharma).

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Significati e origini della parola Dharma e Ṛta nella cultura vedica

Il termine Dharma deriva dalla radice sanscrita dhṛ traducibile in italiano come "fornire una base", ovvero come "fondamento della realtà", "verità", "obbligo morale", "giusto", "come le cose sono" oppure "come le cose dovrebbero essere".
Nella sua forma più antica, dharmāṇ, il termine compare per la prima volta nel Ṛgveda collegato alla nozione di Ṛta (ऋत) e alle due divinità di Mitra e Varuṇa.
(SA)
« Ṛtasya gopāv adhi tiṣṭhatho rathaṃ satyadharmāṇā parame vyomani
yam atra mitrāvaruṇāvatho yuvaṃ tasmai vṛṣṭir madhumat pinvate divaḥ »
(IT)
« O guardiani dell'ordine cosmico (Ṛta), o Dei le cui leggi (Dharma) sono sempre realizzate, voi salite sul vasto carro del cielo più alto; a chi, Mitra e Varuṇa, mostrate il vostro favore, la pioggia del cielo dona abbondanza di miele »
(Ṛgveda, V 63,1 a-c)
(SA)
« dharmāṇa mitrāvaruṇā vipaścitā vratā rakṣethe asurasya māyayā
Ṛtena viśvam bhuvanaṃ vi rājathaḥ sūryam ā dhattho divi citryaṃ ratham »
(IT)
« Voi Mitra e Varuṇa, o Dei sapienti, grazie alla forza misteriosa degli asura custodite secondo la vostra Legge le norme cerimoniali (vrata) che sostengono l'intero mondo (Dharma) secondo l'ordine cosmico (Ṛta), voi avete collocato il sole nel cielo, questo carro brillante »
(Ṛgveda, V 63,7 a-c)
Questi brani indicano come a partire dalla stessa cultura vedica, l'ordine cosmico (Ṛta) e ciò che 'sostiene' l'intero mondo (Dharma), ovvero ciò che si oppone al caos, è considerato protetto dall'azione degli dèi (deva) e dai riti cerimoniali degli uomini a favore degli stessi.
La sostanziale differenza tra Ṛta e Dharma risiede nel fatto che
« mentre ṛta è una legge impersonale, dharman caratterizza quelle azioni personali che generano o mantengono l'ordine cosmico »
(William K. MahonyOp. cit.)
In ultima analisi il termine Dharma assurge a significato di ciò che è coerente con l'ordine dell'universo, quindi di "verità" e di giustizia.
Allo stesso modo molti Dei vedici assumono il nome di Dharma[3] e Dharma stesso acquisisce lo status di divinità[4].

Il Dharma nel Brāhmanesimo e nell'Induismo

Con la composizione dei Brāhmaṇa (a partire dal X secolo fino al VII secolo a.C.), commentari sacerdotali dei più antichi Veda, il termine Dharma si impone viepiù a significare le azioni corrette che consentono al Cosmo di mantenere il suo ordine.
Così Gianluca Magi:
« Originariamente, nel periodo vedico e in particolar modo nei testi sacerdotali chiamati Brāhmaṇa - testi in cui domina l'idea per cui il rito sacrificale è il produttore, l'organizzatore e e il reggitore dell'ordine cosmico stesso - il termine Dharma indica quella norma di armonia perché un universo rimanga in equilibrio e possa reggersi »
(Gianluca MagiOp. cit.)
Il mantenimento dell'ordine del Cosmo non poteva che riflettersi nel destino dell'individuo che se ne faceva portatore, ovvero nel suo karman, ne consegue che progressivamente i due termini vengono a collegarsi fino a che, nel II secolo a.C.
« Infatti l'essere umano che adempie al Dharma così come esposto dal canone rivelato e dalla tradizione ottiene fama in questo mondo e incomparabile felicità dopo la morte »
(Manusmṛti (Le leggi di Manu) II,9)
« Da questa posizione sacerdotale ed escatologica sorge una dimensione normativa del dharma nella quale il termine viene a significare la somma totale dei propri obblighi per il cui mezzo ci si "adegua" al mondo naturale e in particolar modo al mondo sociale »
(Op. cit.)
« I nati due volte non devono invitare una vedova ad [avere figli con] un altro uomo, poiché invitandola così essi distruggono il Dharma »
(Manusmṛti (Le leggi di Manu) IX, 64)
Quindi rispettare il Dharma diviene il rispetto di una serie di norme che sono alla base dell'universo naturale e di quello sociale il cui ordine va sempre garantito. L'individuo inserito in questo contesto deve accertarsi di rispettare le norme dharmiche della propria casta sociale (varṇa) e del proprio periodo di vita (āśrama).
Questi insieme di criteri normativi. denominati varṇāśramadharma[5] fanno sì che l'hindū di casta brahmanica sa che il suo compito è quello di compiere i riti per sollecitare la benevolenza dei deva nei confronti dell'intera comunità; lo kṣatriya invece è consapevole del suo compito di amministratore e difensore, così come il vaiśya e lo śūdra nei loro rispettivi ruoli[6].
Allo stesso modo, a seconda degli stadi della vita, il giovane studente (brahmacārin) deve impegnarsi a studiare le sacre scritture; divenuto capofamiglia (grhastha) deve sostenerla e proteggerla dando continuazione all'intera comunità; trasformatosi in asceta delle foreste (vanaprastha) beneficia la comunità con le sue offerte rituali prima di entrare nella liberazione totale del saṃnyāsin[6].
Accanto al varṇāśramadharma (Dharma della propria condizione individuale detto anche svadharma) si pone il più generale sādhāraṇadharma (anche sāmānyadharma), il Dharma degli imperativi morali generali comuni a tutti gli hindū ovvero quelli elencati, ad esempio, nello Arthaśāstra (I,3,13), nel Manusmṛti o nell'ancora più completo Vāmana Puraṇa che si possono esemplificare nelle regole del tipo 'non uccidere', 'non mentire', 'mantenere la purezza' etc..
E se in alcune circostanze eccezionali (ad es. calamità naturali) l'intera normativa dharmica può essere sospesa (āppadharma), come nel caso di un brahmano che assume i compiti di uno kṣatriya, resta che
« Talora, tuttavia, gli obblighi derivanti dallo svadharma contraddicono direttamente gli imperativi del sādhāraṇadharma, e una persona che si sforzi di prendere una decisione etica deve scegliere tra esigenze contrapposte »
(William K. Mahony op. cit.)
Così se tradizionalmente la scelta della prevalenza tra gli imperativi etici contraddittori (ad esempio l'uccisione di un nemico in guerra di contro alla proibizione della violenza) viene affidata alla interpretazioni della letteratura vedica e dei suoi commentari (quindi dai Veda fino al Manusmṛti passando per i Puraṇa e i Kalpasūtra), questi stessi testi prevedono che se le śrūti (VedaBrāhmaṇaĀraṇyaka e Upaniṣad) e le smṛti (i sei Vedāńga, il Mahābhārata, il Ramāyāna e i Puraṇa) non riescono a risolvere un dilemma la soluzione possa venire offerta da una persona riconosciuta come giusta (sadācāra, da qui il sadācāradharma) o che si comporta in modo conforme ai Veda (siṣṭācāra da qui il siṣṭācāradharma).
Temi di non poco conto nella tradizione indiana che hanno riverberato anche nella legislazione moderna.
Ariel Glucklich[7] evidenzia come la modalità interpretativa, unitamente alla possibilità dell'āppadharma e delle regole stabilite per il Kālīyuga (Kālīvarjyas), ha consentito di rovesciare molte norme vediche. Così oggi un giovane di casta brāhmaṇa può studiare sotto un insegnante di casta kṣatriya o, ad esempio nel passato, la Bengal Satī Regulation del 1829 (che proibì l'immolazione delle mogli sulle pire dei mariti defunti, usanza peraltro contestata da diversi esegeti indiani come non vedica) sono frutto di un profondo dibattito religioso sulla correttezza dharmica dell'applicazione delle norme della tradizione religiosa.

Il Dharma nel buddhismo

Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Dharma (buddhismo).

Il dharmacakra, simbolo della religione buddhista, situato in cima al Tempio Jokang, a Lhasa in Tibet . Le gazzelle poste ai lati della Ruota del Dharma sono a ricordo del luogo, il Parco delle gazzelle, in cui il Buddha Śākyamuni predicò per la prima volta la dottrina buddhista.
Nel BuddhismoDharma indica gli insegnamenti del Buddha, a partire dall'origine del duḥkha (la sofferenza), la pratica di tali insegnamenti, la via verso l'Illuminazione e di conseguenza il Buddhismo stesso.
Il Dharma è anche la Legge universale che esprime l'intera realtà stessa e che il Buddhismo s'impegna a trasmettere e spiegare.
Il Dharma buddhista è simboleggiato da una ruota, il dharmacakra.
Il Dharma è il secondo dei Tre gioielli del Buddhismo.
Il discorso sul Dharma (sanscrito dharmyāṃ kathām) è un discorso pubblico tenuto da un maestro buddhista, sugli insegnamenti del Buddhismo stesso.
Il termine dharma, sempre nel Buddhismo, quando scritto con l'iniziale minuscola, indica anche i diversi fenomeni osservabili, ovvero: tutti gli oggetti conoscibili, quelli della mente, gli oggetti materiali, le regole e le tradizioni religiose e i comportamenti virtuosi.

Note

  1. ^
    « È abbastanza difficile trovare un'unica parola nell'area dell'Asia meridionale che denoti ciò che in italiano è definito "religione", un termine effettivamente piuttosto vago e dall'ampio raggio semantico. Forse il termine più appropriato potrebbe essere il sanscrito dharma, traducibile in diversi modi, tutti pertinenti alle idee e alle pratiche religiose indiane »
    (William K. MahonyInduismo, "Enciclopedia delle Religioni" vol. 9: "Dharma induista". Milano, Jaca Book, 2006, pag.99)
  2. ^ Gianluca Magi precisa tuttavia che il termine Dharma
    « è più ampio e complesso di quello cristiano di religione e, dall'altro, meno giuridico delle attuali concezioni occidentali di "dovere" o di "norma", poiché privilegia la consapevolezza e la libertà piuttosto che il concetto di religio od obbligo »
    (in Dharma, "Enciclopedia filosofica" vol.3. Milano, Bompiani, 2006, pag. 2786)
  3. ^ Ad esempio Agni diviene Svadharma.
  4. ^ Ariel GlucklichDharma, in "Encyclopedia of Religion" vol.4. NY, MacMillan, 2004, pp. 2327 e segg.
  5. ^ Viṣṇusmṛti I,48 e Yājñavalkyasmṛti I.1.
  6. ^ a b Manusmṛti I, 111-118.
  7. ^ op.cit.

Bibliografia

  • Austin Creel. Dharma in Hindu Ethics. Calcutta, South Asia Books, 1977. ISBN 978-0-88386-999-4
  • Ariel Glucklich. Dharma, in Encyclopedia of Religion vol. 4. NY, MacMillan, 2005
  • Gianluca Magi. Dharma, "Enciclopedia filosofica" vol. 3. Milano, Bompiani, 2006
  • William K. Mahony. Induismo, "Enciclopedia delle Religioni" vol. 9: "Dharma induista". Milano, Jaca Book, 2006
  • Le Leggi di Manu (a cura di Wendy Doniger). Milano, Adelphi, 1996.
  • Tadeusz Skorupski. Dharma: Buddhist Dharma and Dharmas "Encyclopedia of Religion" vol. 4. NY, MacMillan, 2005

Curiosità

  • Vi è una frequente allusione a "Dharma" nel telefilm Lost dell'emittente televisiva statunitense ABC. La "DHARMA Initiative" è il nome di un'organizzazione che controlla apparentemente molte cose che succedono sull'isola. È responsabile degli approvvigionamenti di cibo e medicine e dei bunkers (conosciuti anche come stazioni). È stato reso noto dai produttori del telefilm che DHARMA, in Lost, è un acronimo di "Department of Heuristics And Research on Material Applications" (in italiano: dipartimento di euristica e ricerca nelle applicazioni materiali).
  • Dharma è il nome del personaggio interpretato da Jenna Elfman nella serie televisiva Dharma & Greg.
  • I vagabondi del Dharma è uno dei più famosi romanzi scritti da Jack Kerouac.
  • "Dharma for one" è una canzone dei Jethro Tull presente sull'album This Was e sul doppio album Living in the Past
  • Dharma è lo pseudonimo con cui è noto Donald Roeser, chitarrista dei Blue Oyster Cult (gruppo rock "esoterico" anni settanta)
  • La Ruota del Dharma è menzionata spesso nella canzone Darkside Of Aquarius di Bruce Dickinson, contenuta nell'album Accident of Birth.
  • il Dharma svolge un ruolo fondamentale, e viene spesso menzionato dai personaggi, nel popolare manga giapponese Berserk.
  • "Dharma" è un brano del 2016 prodotto da Kshmr in collaborazione con Headhunterz.

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