Ātman (devanāgarī आत्म) è un termine sanscrito di genere maschile, che indica l'"essenza" o il "soffio vitale". Viene tradotto anche col pronome personale riflessivo di terza persona Sé[1].
Primi significati del termine
Tale termine compare per la prima volta nel Ṛgveda, la più antica raccolta degli inni vedici (XX-XV secolo a.C.) dove indica che l'essenza, il soffio vitale, di ogni cosa è identificabile nel Sole (Sūrya):
(SA)
« citraṃ devānām ud agād anīkaṃ cakṣur mitrasya varuṇasyāgneḥ āprā dyāvāpṛthivī antarikṣaṃ sūrya ātmā jagatas tasthuṣaś ca »
| (IT)
« Si è alzato il volto luminoso degli Dei, l'occhio di Mitra, di Varuṇa, di Agni, ha colmato il cielo la terra e l'aria: il Sole (Sūrya) è il soffio vitale di ciò che è animato e di ciò che non è animato »
|
(Ṛgveda I, 115,1) |
Esso trae il significato da varie radici an (respirare), at (andare) va (soffiare)[2].
Nel Śatapatha Brāhmaṇa[3], uno dei commentari in prosa dei Veda probabilmente composti in un periodo compreso tra il X secolo l'VIII secolo a.C., questa descrizione come "essenza" e "soffio che dà la vita" propria del Ṛgveda viene interpretata come una unità, trascendente ed immanente al tempo stesso, di tutta la Realtà cosmica[4] e in questo senso un analogo del Brahman, la formula sacrificale che genera e mantiene il Cosmo.
Le successive riflessioni degli Āraṇyaka, con l'importanza data alla «coscienza di Sé» (prajñātman), e poi delle Upaniṣad, intorno all'VII-IV secolo a.C., iniziano a delineare l'ātman come Sé individuale distinto eppure inscindibile dal Sé universale (Brahman).
L'ātman nelle Upaniṣad
Nelle Upaniṣad il termine "ātman" ricorre innumerevoli volte, è il perno centrale sul quale ruota tutta la riflessione upaniṣadica, una ricerca sull'essenza ultima dell'individuo. Il termine vi ricorre però con molti significati, che vanno intesi come analogie o aspetti volti a spiegare ciò che non è certo spiegabile con gli elementi del linguaggio. "Ātman" indica via via il corpo, il soffio vitale, la coscienza spirituale, il vero soggetto dell'uomo, il Sé del mondo, e come elemento ultimo in questa scala ricostruita, Brahman medesimo.[5] È questa identità fra ātman e Brahman il caposaldo che la letteratura critica delle Upaniṣad individua quale risultato rimarchevole.
Brahman e ātman
« Sì, in verità tutto questo è Brahman, questo ātman è Brahman. » |
(Māṇḍūkya Upaniṣad, 2; citato in R. Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, Op. cit.; p. 991) |
Secondo Raimon Panikkar quella fra ātman e Brahman può intendersi come un'identità qualificata: qualifica l'essenza individuale, il Sé, come la realtà del Tutto: la realtà ultima di ogni cosa non è che la realtà ultima in quanto tale, il che si può anche enunciare affermando che la trascendenza assume significato in relazione all'immanenza.[6]
Giuseppe Tucci interpreta scrivendo che Brahman è il polo oggettivo della realtà, la sua proiezione soggettiva è l'ātman.[7]
Conseguenza della relazione fra l'ātman e il Brahman, è uno dei concetti nucleari nelle religioni e correnti filosofiche hindu: la corrispondenza-equivalenza fra umano e divino, o, in altri termini, l'equivalenza fra microcosmo e macrocosmo[8]. L'essenza dell'umano è il divino; l'essenza ultima di ogni singolo vivente è il suo essere divino: questo è uno fra i più pregnanti aspetti dell'equivalenza fra ātman e Brahman. Questa corrispondenza la si ritrova, per esempio, in maniera evidente in alcuni culti tantrici, dove ogni parte del corpo umano è sede di un aspetto del divino; la si può cogliere nel rispetto per ogni essere vivente, essendo anche gli animali dotati di Sé (secondo alcune dottrine); nell'interpretazione dei fenomeni naturali come espressione del divino; nello Yoga, termine che vuol dire "unione", dove unione si riferisce proprio al legame, da conquistare, fra il Sé, l'ātman, e Brahman (spesso identificato con un Dio personale).
Un'altra notevole conseguenza dell'equivalenza fra l'ātman e Brahman la si ha sul piano teologico: Dio non è totalmente altro da noi, noi siamo fatti della stessa sostanza di Dio. Pensare a un Dio completamente trascendente è persino blasfemo:[9]
« Chiunque adori una divinità diversa dall'Immensità, pensando 'Essa è uno, io sono un altro', non sa. È come un capo di bestiame per gli dèi. » |
(da Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, I, 4, 10; citato in Alain Daniélou, Miti e dèi dell'India, traduzione di Verena Hefti, BUR, 2008) |
La realtà dell'ātman non è però immediatamente evidente, l'ātman va ri-conosciuto, e questo è il fine ultimo dell'uomo, la sua liberazione (mokṣa), quella che gli consente, dopo la morte, di ritornare in Brahman:
« Egli contiene tutte le opere, tutti i desideri, tutti i profumi e tutti i gusti. Egli abbraccia l'intero universo; egli è oltre la parola e oltre i desideri. Egli è il mio ātman all'interno del mio cuore, egli è Brahman. Andandomene di qui io mi fonderò in lui. Colui che dice così invero non ha dubbi. Così parlò Śāndilya, così Śāndilya. » |
(Chāndogya Upaniṣad III 14, 4; ciato in R. Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, Op. cit.; p. 984) |
L'invito a seguire questa strada, a meditare sull'ātman, è ripetuto più volte nelle Upaniṣad, ma c'è un passo che la letteratura critica ha evidenziato fra gli altri, un passo, anzi una frase, che è quasi il condensato dell'intera ricerca, perché enuncia in maniera evidente, semplice e molto espressiva il collegamento fra l'individuo, l'ātman e Brahman:
L'enunciazione, ripetuta più volte, è nel dialogo fra Uddālaka Āruṇi e suo figlio Śvetaketu, nella sesta parte della Chāndogya Upaniṣad. Śvetaketu, dopo aver studiato per dodici anni i Veda nel suo periodo di noviziato come brahmacārin, torna a casa. Il padre gli illustra allora quell'insegnamento per il quale ciò che non si è conosciuto è come se lo si avesse conosciuto[10]. Il dialogo fra padre e figlio procede, e:
(SA)
« tasya kva mūlaṃ syād anyatrādbhyaḥ adbhiḥ somya śuṅgena tejo mūlam anviccha tejasā somya śuṅgena sanmūlam anviccha sanmūlāḥ somyemāḥ sarvāḥ prajāḥ sad āyatanāḥ satpratiṣṭhāḥ yathā nu khalu somyemās tisro devatāḥ puruṣaṃ prāpya trivṛt trivṛd ekaikā bhavati tad uktaṃ purastād eva bhavati asya somya puruṣasya prayato vāṅ manasi saṃpadyate manaḥ prāṇe prāṇas tejasi tejaḥ parasyāṃ devatāyām sa ya eṣo 'ṇimaitad ātmyam idaṃ sarvam tat satyam sa ātmā tat tvam asi śvetaketo iti bhūya eva mā bhagavān vijñāpayatv iti tathā somyeti hovāca »
| (IT)
« "e dove sarà la sua radice altrimenti che nell'acqua? O caro, dal germoglio che è l'acqua tu devi risalire alla radice che è il tejas, dal germoglio che è il tejas, o caro, devi risalire alla radice che è il Sat. Tutte le creature, o caro, hanno la loro radice nel Sat, si basano sul Sat, sono fondate sul Sat. Come poi, o caro, queste tre divinità, una volta pervenute nell'uomo, diventino ognuna triplice, questo già è stato detto. Quando, o caro, un uomo muore, la sua parola si ritrae nella mente, la mente nel soffio vitale, il soffio vitale nel tejas, il tejas nella suprema divinità. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l'universo è costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è l'Ātman. Essa sei tu, o Śvetaketu". "Continua il tuo insegnamento, o venerabile". "Va bene, o caro", rispose quello." »
|
(Chāndogya Upaniṣad VI, 8, 6-7. Traduzione di Carlo Della Casa, in Upaniṣad (a cura di Carlo Della Casa). Torino, UTET, 1976, pag.248) |
Il padre sta dicendo, in altre parole[11]: tu, Śvetaketu, sei l'altro polo di Brahman, l'altro suo modo di essere, la sua tensione. Tu non sei l'Io, ma un io di Brahman. Śvetaketu, tu sei il Tu di Brahman, perché è in te che Brahman e ātman si identificano. Da notare che il soggetto della frase non è tu, ma quello: tat tvam asi, letteralmente: quello tu sei. Da notare ancora che, a differenza del termine ātman, il termine Brahman nelle Upaniṣad è di genere neutro, il che indica che esso non è riferito a qualcosa di particolare e definito.
Il Sé nelle correnti religiose e filosofiche hindu
Il significato di ātman, da quello originario di "soffio vitale", si è evoluto, come si è visto, fino a costituire un concetto metafisico precipuo della filosofia hindu. La traduzione del termine che più comunemente si riscontra in letteratura è "Sé".
Questo termine, "Sé", è più in genere adoperato per indicare quel principio trascendente e autonomo, accettato da quasi tutte le filosofie hindu, fatta eccezione dei buddhisti e materialisti[12]. Ognuna di queste correnti ha una propria visione del Sé.
Questo termine, "Sé", è più in genere adoperato per indicare quel principio trascendente e autonomo, accettato da quasi tutte le filosofie hindu, fatta eccezione dei buddhisti e materialisti[12]. Ognuna di queste correnti ha una propria visione del Sé.
Sāṃkhya
Il Sāṃkhya classico[13], dottrina codificata da Īśvarakṛṣṇa nel suo Sāṃkhyakārikā intorno al IV secolo CE, postula due principi metafisici fondamentali, eterni e antitetici: puruṣa e prakṛti.
Puruṣa è il principio trascendente insito in ogni essere, coscienza pura dell'individuo, il Sé[14]. Prakṛti è tradotto con "materia", o "natura", intendendo con questo termine non soltanto ciò che nella filosofia occidentale si intende, pur nelle varie interpretazioni, con "materia", ma anche l'insieme delle funzioni intellettiva e affettiva dell'essere senziente: il concetto di prakṛti include quello di "mente", essendo quest'ultima considerata un aspetto dell'evoluzione della materia stessa[15]. Puruṣa è in verità un'entità plurale, indicando l'insieme di tutti i Sé; Prakṛti ha affinità con ciò che in Occidente si indica con natura naturans[16], la natura che nel suo divenire genera sé stessa[17].
Il Sé (puruṣa) non va confuso con l'"Io" empirico, che è, questo sì, legato alla materia (prakṛti), e in quanto tale è considerato come non reale, illusorio. Il concetto di puruṣa si può pertanto dire simile a quello di ātman, sebbene il termine non sia utilizzato.
Quello del Sāṃkhya è dunque un sistema dualista, e ateistico, nel quale il Sé appare vincolato alla materia, ma in realtà ne è eternamente distinto. È l'"io" empirico a trasmigrare da un corpo all'altro (saṃsāra), in quello che è l'ininterrotto processo di trasformazione della materia, non il Sé. Ed è proprio la comprensione metafisica di questa fondamentale distinzione (viveka), la conoscenza metafisica che discrimina fra spirito e materia cioè, a condurre alla liberazione (kaivalya)[18][19]:
Puruṣa è il principio trascendente insito in ogni essere, coscienza pura dell'individuo, il Sé[14]. Prakṛti è tradotto con "materia", o "natura", intendendo con questo termine non soltanto ciò che nella filosofia occidentale si intende, pur nelle varie interpretazioni, con "materia", ma anche l'insieme delle funzioni intellettiva e affettiva dell'essere senziente: il concetto di prakṛti include quello di "mente", essendo quest'ultima considerata un aspetto dell'evoluzione della materia stessa[15]. Puruṣa è in verità un'entità plurale, indicando l'insieme di tutti i Sé; Prakṛti ha affinità con ciò che in Occidente si indica con natura naturans[16], la natura che nel suo divenire genera sé stessa[17].
Il Sé (puruṣa) non va confuso con l'"Io" empirico, che è, questo sì, legato alla materia (prakṛti), e in quanto tale è considerato come non reale, illusorio. Il concetto di puruṣa si può pertanto dire simile a quello di ātman, sebbene il termine non sia utilizzato.
Quello del Sāṃkhya è dunque un sistema dualista, e ateistico, nel quale il Sé appare vincolato alla materia, ma in realtà ne è eternamente distinto. È l'"io" empirico a trasmigrare da un corpo all'altro (saṃsāra), in quello che è l'ininterrotto processo di trasformazione della materia, non il Sé. Ed è proprio la comprensione metafisica di questa fondamentale distinzione (viveka), la conoscenza metafisica che discrimina fra spirito e materia cioè, a condurre alla liberazione (kaivalya)[18][19]:
« Nulla a mio vedere, è più sensibile della natura; la quale, non appena è conscia di essere stata vista, non si porge più allo sguardo dell'anima. » |
(Samkhyakarika, 61; traduzione di Corrado Pensa[20].) |
Yoga
Il sistema religioso-filosofico dello Yoga, così come esposto da Patañjali negli Yogasūtra[21] (composto fra il I e il V secolo CE), è molto vicino a quello del Sāṃkhya, con due principali differenze dottrinali. Lo Yoga ammette l'esistenza di un dio, o Signore (Īśvara), visto come uno speciale tipo di Sé (puruṣa) non vincolato in alcun modo alla materia (prakṛti), ed è quindi un sistema teistico, sebbene a Īśvara non sia assegnata una posizione preponderante nella dottrina[22]. L'altra differenza sussiste nel modo di intendere e classificare le funzioni intellettive[23].
Lo Yoga si distingue inoltre dal Sāṃkhya nel metodo: mentre quest'ultimo si serve della conoscenza metafisica (la gnosi), lo Yoga adopera tecniche psicofisiche per la sospensione degli stati normali di coscienza (l'ascesi), lungo un percorso costituito da esperienze sovrasensoriali ed extrarazionali che portano l'adepto al totale discernimento fra puruṣa e prakṛti, e quindi alla liberazione (mokṣa), intesa come identificazione con il Sé, o col Signore, nelle scuole che prediligono l'aspetto devozionale[24].
In conclusione, né il termine ātman né brahman sono centrali nello Yoga e nel Sāṃkhya, essendo questi concetti più propriamente pertinenti al Vedānta, sebbene il concetto di puruṣa abbia affinità con quello di ātman, ciò senza dimenticare però che il primo è concetto plurale, l'ātman certo no. Una differenza[25] fra il puruṣa e l'ātman vedantico è che il primo non è dotato dell'attributo della "felicità", poiché puruṣa è per definizione impassibile: piacere e dolore sono solo esperienze della mente.
Lo Yoga si distingue inoltre dal Sāṃkhya nel metodo: mentre quest'ultimo si serve della conoscenza metafisica (la gnosi), lo Yoga adopera tecniche psicofisiche per la sospensione degli stati normali di coscienza (l'ascesi), lungo un percorso costituito da esperienze sovrasensoriali ed extrarazionali che portano l'adepto al totale discernimento fra puruṣa e prakṛti, e quindi alla liberazione (mokṣa), intesa come identificazione con il Sé, o col Signore, nelle scuole che prediligono l'aspetto devozionale[24].
In conclusione, né il termine ātman né brahman sono centrali nello Yoga e nel Sāṃkhya, essendo questi concetti più propriamente pertinenti al Vedānta, sebbene il concetto di puruṣa abbia affinità con quello di ātman, ciò senza dimenticare però che il primo è concetto plurale, l'ātman certo no. Una differenza[25] fra il puruṣa e l'ātman vedantico è che il primo non è dotato dell'attributo della "felicità", poiché puruṣa è per definizione impassibile: piacere e dolore sono solo esperienze della mente.
Vedānta
Il Vedānta, altro sistema (darśana) ortodosso dell'induismo, prosegue la speculazione upaniṣadica sul Sé (ātman), prendendo avvio dai Brahmasūtra, testo datato fra il IV e il V secolo CE e attribuito a Bādarāyaṇa, e che ha come oggetto di ricerca il brahman. L'interpretazione dei 555 aforismi di questo testo, concisi ed ermetici, ha dato luogo a più di una scuola esegetica; fra le più note si ricordano: Advaita Vedānta ("Vedānta non dualista"); Viśiṣṭādvaita Vedānta ("Vedānta qualificato non duale"); Dvaita Vedānta ("Vedānta dualista").[26] Le differenze dottrinali vertono proprio sul modo di intendere il rapporto che sussiste fra Dio, il Sé e il mondo della materia.
Advaita Vedānta
Il fondatore nonché più noto esponente dell'Advaita Vedānta è Śaṇkara (788 – 820). Śaṇkara riprende i concetti di ātman e brahman delle Upaniṣad ed elabora una filosofia nella quale questi due princìpi sono presentati come ontologicamente identici. La liberazione (mokṣa) consiste nel discriminare fra ciò che è Sé (ātman) e ciò che non lo è, e quindi riconoscere nell'ātman il soggetto identico all'Assoluto (brahman). Il metodo che il filosofo indica per debellare l'ignoranza (āvidya) che offusca quest'unico soggetto, consiste nella corretta lettura e interpretazione dei testi rivelati, attraverso l'ascolto (śravaṇa), il pensiero (manana) e la meditazione (nidhidhyāsana)[27].
Non vi è spazio, nel pensiero di Śaṇkara, per l'azione (karmakāṇḍa), ossia per la ritualità, ma tutto è centrato sulla conoscenza (jñānakāṇḍa). Pur concedendo la possibilità di una fede (bhakti) in un Signore personale (Īśvara), Śaṇkara puntualizza che questa è una forma inferiore di conoscenza: concepire l'Assoluto come possessore di attributi (saguṇa) vuol dire ammettere ancora una distinzione fra l'Assoluto stesso e il Sé[28].
Ātman e Brahman, Sé e Dio, sono dunque per Śaṇkara sinonimi, rappresentando un'unica realtà spirituale. Il mondo sembra sì dotato di una sua realtà empirica, appare sì molteplice negli aspetti che si manifestano nello spazio e nel tempo, ma tutto ciò è soltanto frutto dell'ignoranza, non è opera di Brahman, ma conseguenza della maya, evoluzione irreale dal reale, illusione, diretta conseguenza della nostra limitata visione.[29]
Non vi è spazio, nel pensiero di Śaṇkara, per l'azione (karmakāṇḍa), ossia per la ritualità, ma tutto è centrato sulla conoscenza (jñānakāṇḍa). Pur concedendo la possibilità di una fede (bhakti) in un Signore personale (Īśvara), Śaṇkara puntualizza che questa è una forma inferiore di conoscenza: concepire l'Assoluto come possessore di attributi (saguṇa) vuol dire ammettere ancora una distinzione fra l'Assoluto stesso e il Sé[28].
Ātman e Brahman, Sé e Dio, sono dunque per Śaṇkara sinonimi, rappresentando un'unica realtà spirituale. Il mondo sembra sì dotato di una sua realtà empirica, appare sì molteplice negli aspetti che si manifestano nello spazio e nel tempo, ma tutto ciò è soltanto frutto dell'ignoranza, non è opera di Brahman, ma conseguenza della maya, evoluzione irreale dal reale, illusione, diretta conseguenza della nostra limitata visione.[29]
Viśiṣṭādvaita Vedānta
Rāmānuja (1017 – 1137 circa), il principale esponente del Viśiṣṭādvaita Vedānta, pur restando vicino alle posizioni del Vedānta, critica e rifiuta l'interpretazione di Śaṇkara, là dove costui afferma che il mondo dell'esperienza sia illusione (maya) frutto dell'ignoranza, e che la fede in un dio personale sia una forma di conoscenza inferiore. Rāmānuja usa il termine jīva per indicare il "sé individuale" e sostiene che questo sé è distinto e al contempo partecipe del divino, del Signore (Īśvara) cioè, causa efficiente e materiale del tutto. Ne è partecipe poiché e la materia (prakṛti) e i sé (jīva) sono il corpo del Signore, e nulla esisterebbe se non esistesse Dio; ne è distinto poiché il sé ha una sua propria autentica realtà. La liberazione non consiste nell'eliminazione dell'ignoranza (come con Śaṇkara), ma nella piena comprensione della vera natura di Dio e nell'eliminazione del karman passato. Dio, nel suo aspetto esteriore, si manifesta per mezzo della grazia, dell'amore e della generosità, qualità che lo rendono pertanto accessibile. La liberazione conduce all'unione della jīva con Dio, ed è in questo senso che la dottrina è detta ādvaita, cioè "non duale"[30].
Il Viśiṣṭādvaita Vedānta non fa quindi riferimento al concetto di ātman, ma a quello di jīva, concetto molto più vicino a quello occidentale di anima; la jīva è dotata di una sua realtà distinta da quella dell'Assoluto, pur essendo una manifestazione del corpo di Dio.
Il Viśiṣṭādvaita Vedānta non fa quindi riferimento al concetto di ātman, ma a quello di jīva, concetto molto più vicino a quello occidentale di anima; la jīva è dotata di una sua realtà distinta da quella dell'Assoluto, pur essendo una manifestazione del corpo di Dio.
Dvaita Vedānta
Nel XIII secolo Madhva propose una nuova interpretazione del Vedānta, elaborando una teologia dualista (dvaita, da cui appunto Dvaita Vedānta) secondo la quale sussiste una ferma distinzione (bheda) fra l'Assoluto (inteso come dio personale, Īśvara) e i sé (jīvātman). Secondo Madhva ogni cosa nell'universo è unica e non può essere ricondotta ad altra; sussiste una quintuplice differenza: fra il Signore e ogni sé; fra i singoli sé; fra il Signore e la materia (prakṛti); tra i sé e la materia; fra i singoli fenomeni della materia.[31] Il Signore, però, è causa efficiente, ma non materiale, di ogni cosa, è il sostrato comune di tutto e nulla esiste che non dipenda da Lui: la materia e i sé sono stati creati da Lui, ma hanno una loro distinta realtà.[32] Conseguenza di questa visione è che Dio, nella sua essenza ultima, non è conoscibile, essendo il principio interiore di ogni cosa. All'uomo resta soltanto la via della devozione (bakhti), mediante la quale il sé può essere partecipe della beatitudine (ānanda) del Signore.[33].
Śivādvaita e teologie śaiva
Nel fare riferimento a un Dio personale la tradizione vedantica è per lo più associata ai movimenti vaiṣṇava, al culto cioè di Viṣṇu, o anche di Kṛṣṇa, suo avatāra. Un'interpretazione vedantica del culto di Śiva, altra principale divinità hindu, la si ha nel XIII secolo con Śṛī Kaṇṭha. Al di là di questa dottrina, gli altri movimenti śaiva sono considerati non ortodossi nell'Induismo, in quanto non riconoscono come fonte principale della rivelazione i Veda, ma i Tantra[34].
Nello Śaivasiddhānta il Signore (pati) è altro dall'anima (paśu) e dal mondo (paśa). Si tratta quindi di una teologia essenzialmente dualista, che in ciò si differenzia dalle scuole moniste del Kashmir, per le quali il Sé, il mondo e il Signore costituiscono invece un'unica realtà. Secondo i principali pensatori della scuola monista del Pratyabhijñā, cioè Somānanda, Utpaladeva, Abhinavagupta e Kṣemarāja, vissuti fra il X e l'XI secolo, il Sé è caratterizzato da "coscienza" ed è identico a Dio (Śiva)[35].
In questa teologia, Dio, che è causa materiale ed efficiente dell'universo, opera servendosi della sua potenza (śakti), a Lui identica: il processo di espansione ed evoluzione della materia e delle funzioni umane si dispiega attraverso un insieme di categorie che ricalca in buona parte quelle del Sāṃkhya, aggiungendovi altre che appartengono al divino. In questo processo l'anima (puruṣa) si frammenta e si vede separata per effetto della maya, intesa qui come potenza creatrice e non come illusione[36][37]. La liberazione consta quindi nel riconoscimento[38] della propria natura divina, nell'unione con Śiva, nell'essere completamente consapevoli che, come afferma l'incipit degli Śivasūtra di Vasugupta, testo fondamentale nello shivaismo kashmiro:
Nello Śaivasiddhānta il Signore (pati) è altro dall'anima (paśu) e dal mondo (paśa). Si tratta quindi di una teologia essenzialmente dualista, che in ciò si differenzia dalle scuole moniste del Kashmir, per le quali il Sé, il mondo e il Signore costituiscono invece un'unica realtà. Secondo i principali pensatori della scuola monista del Pratyabhijñā, cioè Somānanda, Utpaladeva, Abhinavagupta e Kṣemarāja, vissuti fra il X e l'XI secolo, il Sé è caratterizzato da "coscienza" ed è identico a Dio (Śiva)[35].
In questa teologia, Dio, che è causa materiale ed efficiente dell'universo, opera servendosi della sua potenza (śakti), a Lui identica: il processo di espansione ed evoluzione della materia e delle funzioni umane si dispiega attraverso un insieme di categorie che ricalca in buona parte quelle del Sāṃkhya, aggiungendovi altre che appartengono al divino. In questo processo l'anima (puruṣa) si frammenta e si vede separata per effetto della maya, intesa qui come potenza creatrice e non come illusione[36][37]. La liberazione consta quindi nel riconoscimento[38] della propria natura divina, nell'unione con Śiva, nell'essere completamente consapevoli che, come afferma l'incipit degli Śivasūtra di Vasugupta, testo fondamentale nello shivaismo kashmiro:
(SA)
« caitanyam ātmā »
| (IT)
« Il sé è conoscenza »
|
(Śivasūtra, I, 1.[39]) |
La critica dell'ātman nel Buddhismo e l'insegnamento dell'anātman
In questo senso vi sarà la critica, nel Buddhismo dei Nikāya (IV secolo a.C.), dell'ātman (sans., atta, pāli) inteso come anima o Sé, riportata nell'insegnamento buddhista dell'anātman (sans., anatta, pāli). È da notare tuttavia che questa possibile assenza, negli insegnamenti buddhisti del Sutrapitaka (sans., Sutta Piṭaka, pāli) del canone buddhista (detti anche Āgama-Nikāya), di una struttura portante nel continuum di consapevolezza e nella retribuizione karmica causerà, nello sviluppo del Buddhismo, segnatamente nelle scuole Sarvāstivāda e Vatsīputrīya, l'elaborazione di dottrine in qualche modo analoghi a quella dell'ātman: svabhava e pudgala[40].
Ciò sarà comunque oggetto di dibattito e critica tra le scuole buddhiste nel corso del loro sviluppo storico, anche se la scuola Vatsīputrīya si estinse in India con la scomparsa in quel sub-continente dello stesso Buddhismo.
Note
- ^ Cfr ad esempio Dizionario sanscrito-italiano L'essenza è reale e immutabile e si trova in ogni essere vivente. (direzione scientifica di Saverio Sani), Pisa, ETS, 2009, p. 193
- ^ Monier Monier-Williams. Sanskrit-English Dictionary, ma anche Margaret Stutley e James Stutley. Dizionario dell'Induismo. Roma, Ubaldini, 1980, pag. 46.
- ^ Śatapatha Brāhmaṇa X, 5,3,2-3
- ^ Margaret Stutley e James Stutley. Dizionario dell'Induismo. Roma, Ubaldini, 1980, pag. 46.
- ^ R. Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, Op. cit.; p. 954.
- ^ R. Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, Op. cit.; p. 956.
- ^ Upaniṣad antiche e medie, Op. cit.; p. 474.
- ^ R. Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, Op. cit.; p. 961.
- ^ R. Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, Op. cit.; p. 999.
- ^ Upaniṣad antiche e medie, Op. cit.; p. 203.
- ^ R. Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, Op. cit.; p. 1031
- ^ M. Eliade, Lo Yoga, Op. cit., pp. 30 e 28.
- ^ Si fa riferimento qui alla dottrina classica dalla quale deriverà il Sāṃkhya inteso come darśana, ossia il sistema dottrinale ritenuto ortodosso nell'Induismo, e non a quello che alcuni studiosi hanno definito come proto-Sāṃkhya, il Sāṃkhya delle origini cioè, del quale invero poco si conosce.
- ^ L'uso del termine "Sé" è di Flood; Tucci adopera invece "anima" per riferirsi a puruṣa; Eliade usa invece sia il termine "Sé" sia "spirito".
- ^ G. Flood, L'induismo, Op. Cit.; p. 320.
- ^ L'espressione è adoperata da vari studiosi, per esempio Giuseppe Tucci, Op. cit., p. 73.
- ^ Il Sāṃkhya è simile al dualismo cartesiano, là dove il filosofo postula l'esistenza di res cogitans e res extensa.
- ^ Kaivalya vuol dire "separazione", con riferimento alla separazione fra i due princìpi.
- ^ G. Flood, L'induismo, Op. Cit.; p. 321.
- ^ Citato in M. Angelillo – E. Mucciarelli, Il brahmanesimo, Op. cit., p. 92.
- ^ Lo Yoga classico, cioè, noto anche come Raja Yoga o Aṣṭāṅga Yoga.
- ^ Dio, nello Yoga, non è il Creatore onnipotente, ma piuttosto un dio che assiste lo yogi nel suo percorso: essendo Dio stesso un puruṣa, Egli può agire sugli altri puruṣa, presentandosi anche come modello di perfezione (cfr. Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose. Vol. II, traduzione di Maria Anna Massimello e Giulio Schiavoni, BUR, 2008; p. 70).
- ^ G. Flood, L'induismo, Op. Cit.; p. 322.
- ^ M. Eliade, Lo Yoga, Op. cit., pp. 21, 29 e 48.
- ^ G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Op. cit., p. 76.
- ^ M. Angelillo – E. Mucciarelli, Il brahmanesimo, Op. cit., p. 105.
- ^ G. Flood, L'induismo, Op. Cit.; p. 330.
- ^ G. Flood, L'induismo, Op. Cit.; p. 332.
- ^ M. Angelillo – E. Mucciarelli, Il brahmanesimo, Op. cit., p. 111.
- ^ G. Flood, L'induismo, Op. Cit.; p. 334 e segg.
- ^ G. Flood, L'induismo, Op. Cit.; p. 337.
- ^ M. Angelillo – E. Mucciarelli, Il brahmanesimo, Op. cit., p. 107.
- ^ G. Flood, L'induismo, Op. Cit.; p. 337 e segg.
- ^ G. Flood, L'induismo, Op. Cit.; p. 338 e segg.
- ^ G. Flood, L'induismo, Op. Cit.; p. 339.
- ^ G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Op. cit., pp. 117-118.
- ^ Il significato originario del termine "maya" è difatti "costruzione", ed è soltanto nell'interpretazione vedantica che è reso sinonimo di "illusione".
- ^ È questo il significato del termine pratyabhijñā.
- ^ Citato in Gli aforismi di Śiva, con il commento di Kṣemarāja, a cura e traduzione di Raffaele Torella, Mimesis, 1999.
- ^ Va precisato che queste due dottrine, svabhava e pudgala, per quanto con funzioni, rispetto alla retribuzione karmica, analoghe a quelle di ātman non vanno confuse, sul piano dottrinale, con questo. Così Philippe Cornu rispetto alle scuole che propugnavano la dottrina del pudgala:
« Le scuole, però, si differenziavano rispetto alla dottrina non buddhista dell'atman, che sosteneva l'esistenza di un sé permanente e trascendente, il quale non prendeva parte attivamente all'esistenza dell'individuo » (in Dizionario del Buddhismo. Milano, Bruno Mondadori, 2003, pag.475)
Bibliografia
- Upaniṣad antiche e medie, a cura e traduzione di Pio Filippani-Ronconi, riveduta a cura di Antonella Serena Comba, Universale Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
- Maria Angelillo – Elena Mucciarelli, Il Brahmanesimo, Xenia edizioni, 2011.
- Mircea Eliade, Lo yoga. Immortalità e libertà, traduzione di Giorgio Pagliaro, BUR, 2010.
- Gavin Flood, L'induismo, traduzione di Mimma Congedo, Einaudi, 2006.
- Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, a cura di Milena Carrara Pavan, traduzioni di Alessandra Consolaro, Jolanda Guardi, Milena Carrara Pavan, BUR, Milano, 2001.
- Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Editori Laterza, Bari, 2005.
Voci correlate
Brahman (devanāgarī ब्रह्मन्, lett. "sviluppo") è un termine sanscrito all'origine di molteplici significati nelle religioni vedica, brahmanica e induista.
Differenti significati del termine Brahman
Il termine sanscrito Brahman possiede differenti significati:
- nella sua accezione di nome "maschile", brahmān indica nei Veda un officiante del sacrificio vedico in grado di pronunciare i mantra relativi alla conoscenza ispirata;
- nella sua accezione di nome "neutro", brāhman indica nei commentari degli inni vedici denominati Brāhmaṇa il potere che ispira i cantori ṛṣi deputati alla trasmissione orale del sapere cosmico, ovvero "l'effusione del cuore nell'adorazione degli Dei"[1] o la stessa invocazione (parola sacra opposta a vāc, parola umana);
- nella forma derivata brāhmaṇa indica sempre come nome "neutro":
- nella successiva riflessione teologica e filosofica propria delle Upaniṣad vediche con il termine Brahman (nella forma "neutra") si indica l'unità cosmica da cui tutto procede: questo il significato più diffuso del termine;
- nel successivo Induismo con Brahman si indica anche Brahmā, il deva creatore.
Da notare che nelle quattro raccolte degli "inni" dei Veda l'"origine primordiale" viene indicata con il termine Tat (Quello) e non ancora con il termine Brahman[2]:
(SA)
« na mṛtyur āsīd amṛtaṃ na tarhi na rātryā ahna āsīt praketaḥ ānīd avātaṃ svadhayā tad ekaṃ tasmād dhānyan na paraḥ kiṃ canāsa »
| (IT)
« Non c'era la morte allora, né l'immortalità. Non c'era differenza tra la notte e il giorno. Respirava, ma non c'era aria, per un suo potere, soltanto Quello, da solo. Oltre a Quello nulla esisteva »
|
(Ṛgveda, X,129,2) |
Nei Veda il termine brahman richiama esclusivamente l'attività sacerdotale e quindi la sua forma "maschile", ad esempio nel Ṛgveda (X, 141,3) Brahman è il nome di Bṛhaspati in qualità di sacerdote degli Dei.
(SA)
« somaṃ rājānam avase 'gniṃ gīrbhir havāmahe ādityān viṣṇuṃ sūryam brahmāṇaṃ ca bṛhaspatim »
| (IT)
« Invochiamo il re Soma in nostro aiuto, con i nostri canti e i nostri inni; gli Āditya, Viṣṇu , Sūrya e il sacerdote Bṛhaspati »
|
(Ṛgveda, X,141,3) |
Origine del termine
Numerosi studiosi si sono occupati di ricostruire l'origine del termine brahman:
- Jan Gonda[3] fa riferimento, come d'altronde la cultura tradizionale indiana, alla radice di bṛh (forza);
- George Dumézil[4] lo ha collegato al termine latino flamen;
- Paul Thieme[5] rifiutando l'ipotesi di Gonda collega questo termine al greco morphē, quindi nella sua accezione di "forma", "formula";
- Louis Renou[6] ritiene invece che il termine derivi dalla radice brah col significato di "esprimersi enigmaticamente";
- Jean C. Heesterman[7] riassume queste posizioni e ritiene che l'origine del termine Brahman vada ricercato nei suoi collegamenti con l'epressioni delle formule sacre anche se la poliedricità della radice brah rende di fatto impossibile chiarirne l'origine.
Brahman e Brahmodya nella prima cultura vedica e nei Brāhmaṇa
Secondo Jean C. Heesterman[8] il tema del Brahman è collegato, nelle quattro raccolte degli inni dei Veda alla contesa verbale, ovvero al rito del Brahmodya propria della cultura vedica con particolare riferimento al sacrificio del cavallo (aśvamedha). In questo contesto, prima del sacrificio i due officianti si sfidavano con domande enigmatiche, colui che riusciva a risolverle affermava di sé stesso:
(SA)
« brahmayāṃ vācaḥ paramaṃ vyoma »
| (IT)
« questo brahman è il cielo più alto della parola »
|
Heesterman ricorda come queste contese non erano affatto pacifiche, il concorrente che insisteva a sfidare il vincitore con ulteriori enigmi avrebbe pagato con la sua testa i suoi affronti.
Quindi il termine Brahman originerebbe da una figura sacerdotale dell'India vedica vincitore nelle gare sacrificali poetico-enigmatiche. Con l'ingresso della letteratura in prosa dei Brāhmaṇa si osserva, a partire dal X secolo a.C., un radicale cambiamento: al rituale agonistico si sostituisce il rituale rigidamente codificato e pacifico.
« Questo cambiamento fondamentale è espresso in modo interessante in un mito ritualistico che narra della competizione sacrificale decisiva tra Prajāpati e Mṛtyu, o morte (Jaiminīya Brāhmaṇa, 2,69-2,70). Prajāpati conquista la vittoria finale perché riesce a "vedere" l'analogia, che gli consente di assimilare la panoplia sacrificale dell'avversario e di eliminarlo quindi in maniera definitiva. Conclude il testo: "da allora non vi furono più contese sacrificali » |
(Jean C. Heesterman. Op.cit. pag.57) |
Nel contesto dei Brāhmaṇa il Brahman da espressione dell'"enigma cosmico" oggetto di competizione sacerdotale, diviene la stessa formula sacrificale oggettiva e trascendente che si concretizza nel rituale.
Come evidenzia David M. Knipe[9] la divinità che incarna e centralizza questo processo nei Brāhmaṇa è Prajāpati che lega l'antico Puruṣa vedico, ovvero colui che istituisce il sacrificio, l'impersonale Brahman (potere della formula sacra) e infine il dio personale Brahmā.
Così il Ṛgveda (X,90,7-8):
(SA)
« taṃ yajñam barhiṣi praukṣan puruṣaṃ jātam agrataḥ tena devā ayajanta sādhyā ṛṣayaś ca ye tasmād yajñāt sarvahutaḥ sambhṛtam pṛṣadājyam paśūn tāṃś cakre vāyavyān āraṇyān grāmyāś ca ye »
| (IT)
« Quel Puruṣa, nato ai primordi, essi [gli Dei] lo aspersero come vittima sacrificale sull'erba. Con lui gli Dei, i Sādhyā e i cantori compirono il sacrificio. Da quel sacrificio completamente offerto fu raccolto il burro coagulato: esso divenne animali, quelli dell'aria, quelli della foresta e quelli dei villaggi »
|
(Ṛgveda (X,90,7-8)) |
Così, ad esempio, il Samāvidhāna Brāhmaṇa (I,1,3)
(SA)
« brahma ha vā idam agra āsīt tasya tejoraso 'tyaricyata sa brahmā samabhavat sa tūṣṇīṃ manasādhyāyat tasya yan mana āsīt sa Prajāpatir abhavat »
| (IT)
« In origine vi era il Brahman soltanto; poiché il succo della sua forza si espandeva, divenne Brahmā. Brahmā meditò in silenzio con la mente e la sua mente divenne Prajāpati »
|
(Samāvidhāna Brāhmaṇa (I,1,3)) |
Sylvain Lévi[10] osserva:
« Il sacrificio come Prajāpati è anteriore a tutti gli esseri, poiché questi non potrebbero sussistere senza di esso; esso nasce anche dai soffi della mente, poiché è essenzialmente mentale. [...] [Prajāpati] è altresì figlio delle Acque, poiché le Acque sono il principio della purezza rituale; oppure del Brahman, la formula sacra, poiché non c'è separazione tra rito e liturgia » |
(Sylvain Lévi. La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa. Milano, Adelphi, 2009, pag.46) |
Il Brahman nelle Upaniṣad
Nato come sostantivo maschile negli inni dei Veda per indicare sia le figure sacerdotali che durante il sacrificio competitivo esprimono dei mantra enigmatici sul cosmo che lasciano non espressa la risposta[11] sia le stesse espressioni enigmatiche, nei Brāhmaṇa, il brahman (sostantivo neutro) diviene il mantra rituale codificato, e il suo potere, che deve essere semplicemente appreso e conservato a memoria dal brahmano e recitato durante i riti.
Con le Upaniṣad si passa ad indagare la natura di questo Brahman che diviene l'origine di ogni cosa, l'Assoluto:
« Invisibile, inafferrabile, senza famiglia né casta, senza occhi né orecchie, senza mani né piedi, eterno, onnipresente, onnipervadente, sottilissimo, non soggetto a deterioramento, Esso è ciò che i saggi considerano matrice di tutto il creato. Come il ragno emette [il filo] e lo riassorbe, come sulla terra crescono le erbe, come da un uomo vivo nascono i capelli e i peli, così dall'Indistruttibile si genera il tutto. » |
(Muṇḍaka Upaniṣad, I,1,6-7) |
E che si identifica con il principio individuale, l'ātman:
(SA)
« tasya kva mūlaṃ syād anyatrādbhyaḥ adbhiḥ somya śuṅgena tejo mūlam anviccha tejasā somya śuṅgena sanmūlam anviccha sanmūlāḥ somyemāḥ sarvāḥ prajāḥ sad āyatanāḥ satpratiṣṭhāḥ yathā nu khalu somyemās tisro devatāḥ puruṣaṃ prāpya trivṛt trivṛd ekaikā bhavati tad uktaṃ purastād eva bhavati asya somya puruṣasya prayato vāṅ manasi saṃpadyate manaḥ prāṇe prāṇas tejasi tejaḥ parasyāṃ devatāyām sa ya eṣo 'ṇimaitad ātmyam idaṃ sarvam tat satyam sa ātmā tat tvam asi śvetaketo iti bhūya eva mā bhagavān vijñāpayatv iti tathā somyeti hovāca »
| (IT)
« "E, dove risiederà la radice del corpo se non nell'acqua? Analogamente se riteniamo il germoglio l'acqua, figlio mio, il calore (tejas) sarà la sua radice. Se consideriamo il calore un germoglio l'essere (sat) sarà la radice. Tutti i viventi hanno le proprie radici nell'essere (sat), si basano sull'essere, si sostengono sull'essere. Ora mio caro ti è stato detto come queste tre divinità pervenute nell'uomo siano divenute triplici. Quando un uomo muore, mio caro, la parola rientra nella mente,la sua mente rientra nel soffio vitale, il soffio vitale rientra nel calore e questi rientra nella suprema divinità. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l'universo è costituito di essa, essa è la realtà di tutto, essa è l'Ātman. Quello sei tu (Tat tvam Asi) o Śvetaketu!". "Continua il tuo insegnamento o signore!". "Bene, mio caro" gli rispose. »
|
(Chāndogya Upaniṣad VI, 8, 6-7) |
Esso è illimitato e inconcepibile:
« Al principio in questo universo soltanto il Brahman esisteva. Illimitato verso l'oriente, illimitato verso il mezzogiorno, illimitato verso l'occidente, illimitato verso settentrione, illimitato di sopra, illimitato da ogni parte. Esso è costituito di etere. Da questo etere esso desta questo universo. Da questo esso sorge e in esso va a finire. Di questo Brahman la forma luminosa è quella che arde nel sole lassù, nel fuoco senza fumo [e nel cuore]. Quello che è nel fuoco e quello che è nel cuore e quello che è nel sole, sono in realtà una sola cosa. Nell'unità con l'Uno va colui che così sa » |
(Maitrāyaṇīa Upaniṣad VI,17) |
Esso è l'Oṁ:
« L'Oṁ è tutto l'universo. Ecco la sua spiegazione: Passato, presente e futuro, tutto ciò è Oṁ. E anche ciò che va oltre il tempo, che è stato, è e sarà è Oṁ. Infatti ogni cosa è il Brahman. L'Ātman è il Brahman » |
(Māṇḍūkya Upaniṣad, 1-2) |
La forma personale del Brahman (Brahman Saguṇa)
Con il progressivo sviluppo di approfondimenti teologici il Brahman impersonale indifferenziato (nirdvaṃdva) divenne oggetto di un processo di personalizzazione in divinità specifiche, principalmente nella figura dei deva Viṣṇu e Śiva[12].
Note
- ^ Dizionario sanscrito-italiano (direzione scientifica: Saverio Sani). Pisa, ETS, 2010, pag. 1108
- ^ Cfr., tra gli altri, Gianluca Magi. Enciclopedia filosofica vol.2. Milano, Bompiani, 2006, pag. 1445.
- ^ Jan Gonda. Notes on Brahman. Utrecht, 1950.
- ^ Georges Dumézil. Flamen-Brahman. Parigi, 1935.
- ^ in Brahman, Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft 102 (1952): 91–129. Consulta ZDMG online, menadoc.bibliothek.uni-halle.de.
- ^ Louis Renou e Liliane Silburn. L'Inde fondamentale. Parigi, 1978
- ^ in Encyclopedia Religion vol.2. NY, MacMillan, 2005, pagg. 1024-6
- ^ Op. cit.
- ^ David M. Knipe. Encyclopedia of Religion vol.11. NY, MacMillan, 2005, pag.7356.
- ^ Sylvain Lévi. La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa. Milano, Adelphi, 2009, pag.46
- ^ Brahman come:
« energie connective comprimée en énigmes » (Louis Renou Op.cit..) - ^ Gianluca Magi. Enciclopedia filosofica vol.2. Milano, Bompiani, 2006, pag.1446.
Bibliografia
- Sylvain Lévi. La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa. Milano, Adelphi, 2009.
- Louis Renou e Liliane Silburn. Sur la notion de brahman, in "Journal Asiatique" 1949, 237, 7-46.
- Gianluca Magi. Brahman. "Enciclopedia filosofica" vol.2. Milano, Bompiani, 2006
- Jean C. Heesterman. Brahman. "Enciclopedia delle Religioni" vol.9. Milano, Jaca Book, 2004.
- Upaniṣad (a cura di Carlo Della Casa). Torino, UTET, 1983.
- Fritjof Capra, "Il Tao della fisica". Adelphi, 1982.