sabato 17 dicembre 2016

Il concetto di Anima e la differenza tra Anima e Animo, e tra Anima (Psyche) e Spirito (Pneuma)

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L'anima (dal latino anima, connesso col greco ànemos, «soffio», «vento»), in molte religionitradizioni spirituali e filosofie, è la parte vitale e spirituale di un essere vivente, comunemente ritenuta distinta dal corpo fisico.[1] Tipicamente veniva assimilata al respiro (donde la sua etimologia).[2] Originariamente espressione dell'essenza di una personalità, intesa come sinonimo di «spirito», o «io», a partire dall'età moderna venne progressivamente identificata soltanto con la «mente» o la coscienza di un essere umano.[3]
Nell'anima è spesso implicita l'idea di una sostanziale unità e immutabilità di fondo che permane ai mutamenti del corpo e presiede alle sue funzioni.[4] Le religioni rivelate affermano che sia Dio a creare o generare le anime. In alcune culture si attribuisce l'anima ad esseri viventi non umani e, talvolta, anche ad oggetti (come i fiumi), una credenza nota come animismo.
I termini «anima» e «spirito» vengono spesso usati come sinonimi, anche se il primo è maggiormente legato al concetto di individualità di una persona.[5]
Anche le parole «anima» e «psiche» possono essere considerate come sinonimi, sebbene «psiche» abbia connotazioni relativamente più fisiche, mentre l'anima è collegata più strettamente alla metafisica e alla religione. Nella Grecia antica si faceva a volte riferimento all'anima con il termine psyche, da collegare con psychein, che analogamente ad anemossignifica «respirare», «soffiare».[6]
Nell'Induismo in generale si fa riferimento all'Atman.[7] Per gli antichi Egizi l'essenza spirituale dell'uomo è costituita da tre elementi soprannaturali: il ba, il ka e l'akh. Anche nello Zoroastrismo persiano esisteva l'idea dell'anima e di un giudizio dopo la morte, tanto che le anime dovevano attraversare un sottilissimo ponte, il Cinvat. E così pure il Mitraismoiranico predicava una via iniziatica per la salvezza dell'anima.
Una differenza di estensione concettuale esiste poi tra i termini italiani "anima" e "animo" dalla stessa origine etimologica ma che viene usato con significati più limitati rispetto ad anima. Animo infatti viene riferito a mente (attenzione, inclinazione), pensiero, memoria, luogo degli affetti e dei sentimenti, come origine della volontà (proposito), disposizione di spirito, coraggio.[8]

Il concetto di anima nella filosofia occidentale

Greci

Il concetto di anima compare la prima volta con Socrate, il quale ne fece il centro degli interessi della filosofia. Prima di lui, i filosofi erano soliti occuparsi di questioni attinenti al mondo o la natura, e la nozione di anima possedeva connotati esclusivamente mitologici, ad esempio negli autori epici come Omero e Virgilio, dove era assimilata ad un "soffio" che abbandona il corpo nel momento della morte;[9] allora si riteneva che essa avesse soltanto la consistenza di un'ombra, capace di sopravvivere nell'Ade ma senza più poter esplicare la sua energia vivificatrice.
È solo con Socrate, e col suo discepolo Platone, che sarà utilizzato il termine psyché (anima) per designare il mondo interiore dell'uomo, a cui viene ora assegnata piena dignità.[10]
« Il concetto di psiche inventato da Socrate e codificato da Platone è centrale a questo proposito: Socrate diceva che il compito dell'uomo è la cura dell'anima: la psicoterapia, potremmo dire. Che poi oggi l'anima venga interpretata in un altro senso, questo è relativamente importante. Socrate per esempio non si pronunciava sull'immortalità dell'anima, perché non aveva ancora gli elementi per farlo, elementi che solo con Platone emergeranno. Ma, nonostante più di duemila anni, ancora oggi si pensa che l'essenza dell'uomo sia la psyche. Molti, sbagliando, ritengono che il concetto di anima sia una creazione cristiana: è sbagliatissimo. Per certi aspetti il concetto di anima e di immortalità dell'anima è contrario alla dottrina cristiana, che parla invece di risurrezione dei corpi. Che poi i primi pensatori della Patristica abbiano utilizzato categorie filosofiche greche, e che quindi l'apparato concettuale del cristianesimo sia in parte ellenizzante, non deve far dimenticare che il concetto di psyche è una grandiosa creazione dei greci. L'Occidente viene da qui. »
(Giovanni RealeStoria della filosofia antica, Vita e pensiero, Milano 1975)
Secondo Platone, l'anima è per sua natura simbolo di purezza e spiritualità, in quanto affine alle idee. Essa infatti non ha un inizio, essendo ingenerata; ed è immortale e incorporea. Ha la sua origine nel soffio divino (da cui il significato stesso della parola, ossia: ventosoffio), ed è ripartita, secondo il mito del carro e dell'auriga, in tre attività: quella razionale (loghistòn) che funge da guida, quella volitiva-irascibile (thumoeidès) animata dal coraggio, e quella concupiscibile (epithymetikòn) soggetta ai desideri.[11] L'anima presente in ogni uomo sarebbe inoltre un frammento dell'anima del mondo.[12] Secondo la contrapposizione gnostica tra Dio (pura perfezione, bene) e materia (imperfezione, male), ripresa dallo stesso Platone, l'anima sarebbe stata calata da Dio in un corpo materiale e perciò contaminata dall'intrinseca malvagità della materia stessa.[13]
Nel tentativo di superare il dualismo platonico, Aristotele intende l'anima come entelechia: essa non è distinta dal corpo, ma coincide con la sua forma. L'anima per lui rappresenta la capacità di realizzare le potenzialità vitali del corpo, e dunque non è da questo separabile; per conseguenza, sarebbe mortale, anche se si tratta di una conclusione su cui egli non dà un giudizio definitivo.[14] Un principio di eternitàriposa in effetti nell'anima intellettiva, che però opera senza il supporto di un organo corporeo. Aristotele non chiarisce i rapporti tra quest'anima e le altre, né se l'eternità dell'anima intellettiva sia anche individuale; del problema discuterà la filosofia medievale.[15] Di tale principio Aristotele distingue invece le funzioni, personificandole in tre anime:
  • anima vegetativa, che governa le funzioni fisiologiche istintive (quelle che noi chiamiamo "animali", appunto: nutrizione, crescita, riproduzione);
  • anima sensitiva, che presiede al movimento e all'attività sensitiva;
  • anima intellettiva, che è la fonte del pensiero razionale e governa la conoscenza, la volontà e la scelta.
Per Plotino l'Anima è la terza ipostasi, la cui essenza è immortale, intellettiva e divina. Vi è un'anima universale, emanazione della sovra-realtà dell'Intelletto, che plasma e vitalizza l'intero universo (diventando Anima del mondo), e anime individuali, per tutti gli esseri viventi. Seguendo il Timeo di Platone, Plotino attribuisce anime anche agli astri e ai pianeti. La singolarità del pensiero di questo filosofo riguardo l'anima sta nel suo averla sdoppiata in "Anima superiore", originaria e legata al divino, e "Anima inferiore" (appunto Anima del mondo), preposta al governo del cosmo o, nel caso degli individui, al governo del corpo.
L'anima originaria per il filosofo non è mai oggetto di "caduta" e non discende mai nel mondo materiale. La discesa nel corpo consiste infatti in una propensione ("inclinazione") verso il sensibile e il particolare che si realizza in una sorta di emanazione.[16] L'anima originale (a. superiore) produce così una specie di riflesso, una seconda parte dell'anima (a. inferiore) la cui funzione consiste nel muovere e guidare il corpo. Ciò avviene sia a livello individuale (ogni essere vivente possiede infatti un'anima superiore rivolta all'Intelletto e in perenne contemplazione, e un'anima inferiore, visibile come governo dell'anima e identificata con l'Io terreno) che a livello universale (l'Anima ipostasi, che procede dall'intelletto, emana da sé l'anima del mondo - l'anima inferiore dell'universo - che plasma e muove armoniosamente il tutto). Per quanto riguarda l'etica, Plotino ritiene che l'anima superiore sia esente dal peccato e dalla corruzione,[17] questo perché i comportamenti e gli atteggiamenti scorretti sono esclusivamente da riferire all'anima inferiore e al suo commercio con la materia. Il percorso dell'anima e la sua conversione è un processo dell'anima inferiore, che può elevarsi verso le prime realtà attraverso l'unione e il riassorbimento con l'anima superiore. Le due anime possiedono ciascuna funzioni cognitive proprie:[18] entrambe sono dotate di capacità di pensiero, anche se si tratta di modalità di pensiero differenti e di immaginazione. Per Plotino - come per Platone e Aristotele - l'immaginazione è funzione della memoria, quindi il suo sdoppiamento dà luogo a due tipi diversi di ricordi[19] (per l'anima inferiore si tratta ricordi di oggetti sensibili e di esperienze terrene, mentre per l'anima superiore si tratta di reminiscenza). La comunicazione tra le due anime avviene continuamente in maniera spontanea proprio attraverso il continuo confronto dei ricordi sensibili provenienti dal basso con gli archetipi contemplati dalla parte superiore. Le passioni sono invece tipiche dell'anima inferiore, anche se in alcuni passi[20] si parla di passione in riferimento all'anima superiore, si tratta di un desiderio ancestrale che la tiene unita all'Intelletto.
A differenza delle concezioni fin qui prevalenti, Epicuro non credeva in un'anima immortale, pur ammettendone l'esistenza e ritenendola una sostanza corporea, composta di atomi, sparsi per l'organismo:[21]per lui la morte era qualcosa di definitivo che consisteva appunto nel dissolvimento dell'anima.[22]
Nel mondo dell'antica Grecia, secondo i riti misterici dell'orfismo il corpo fisico è una "prigione" per l'anima (σῶμα = σῆμα; corpo = tomba) da cui essa deve liberarsi attraverso riti iniziatici. Altri culti misterici a carattere soteriologico furono i Misteri di Eleusi e i misteri dionisiaci.

Latini

I latini, come è noto, non furono grandi speculatori di pensiero astratto, e utilizzarono serenamente per le proprie speculazioni filosofiche strutture provenienti da altre culture. Tanto che il grande filosofo-poeta epicureo Lucrezio, all'inizio del suo De rerum natura, afferma di non sapere in cosa consista la natura dell'anima, limitandosi ad accennare alle teorie correnti, compresa quella della reincarnazione, senza mostrare alcun interesse a privilegiarne una:
(LA)
« Ignoratur enim quae sit natura animai,
nata sit an contra nascentibus insinuetur
et simul intereat nobiscum morte dirempta
an tenebras Orci visat vastasque lacunas
an pecudes alias divinitus insinuet se
 »
(IT)
« S'ignora infatti quale sia la natura dell'anima,
se sia nata o al contrario s'insinui nei nascenti,
se perisca insieme con noi disgregata dalla morte
o vada a vedere le tenebre di Orco e gli immani abissi,
o per volere divino s'insinui in animali d'altra specie »
(Lucrezio, De rerum natura, I, 112-116)
Riecheggia questa indifferenza filosofica – accanto ad un sentimento personale di compassione – la piccola ode dell'imperatore Adriano, due secoli dopo (i cui primi versi sono noti ai moderni soprattutto per essere stati posti da Yourcenar in testa alle sue Memorie di Adriano):
(LA)
« Animula vagula, blandula,
Hospes comesque corporis,
Quæ nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos.
 »
(IT)
« Piccola anima smarrita e soave,
compagna e ospite del corpo,
ora t'appresti a scendere in luoghi
incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti. »

Anima Mundi

Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Anima del mondo.
Concetto di origine orientale denominato Atman e, probabilmente attraverso gli orfici o i pitagorici, arrivato a Platone che nel Timeo la chiama megàle psyché ("grande anima").[23] Richiamandosi alla tradizione dell'ilozoismo arcaico, per il quale il mondo è una sorta di grande animale, Platone lo vede supportato dall'Anima del Mondo, infusagli dal Demiurgo, che impregna il cosmo e gli dà vitalità generale.
Alcuni autori cristiani lo identificarono con lo Spirito Santo,[24] anche se il termine risultò piuttosto sospetto a qualche teologo cristiano in quanto evocava princìpi panteistici come il Logos degli stoici o la terza ipostasi di Plotino, chiamata appunto anima.
Attraverso il neoplatonismo di Plotino e dei suoi epigoni il concetto, con varie denominazioni, arriva alla cultura rinascimentale e ha un importante rilancio a cominciare da Marsilio Ficino,[25] seguito più tardi da Giordano Bruno.[26] È una nozione particolarmente cara al pensiero magico e mistico, che viene elaborata in occidente non oltre il periodo romantico (Schelling), e tende a riemergere in fasi culturali di crisi del razionalismo materialista.[27]

Il concetto di anima nelle religioni monoteiste


Un angelo prende l'anima di un morente (secolo XV)

Ebraismo

Il primo è Nèfesh (נפש in lingua ebraica) e indica l'uomo come essere vivente. Nel canone ebraico la parola nèfesh ricorre 754 volte, la prima delle quali in Genesi1.20. La costituzione dell'uomo come "Nefesh" è descritta in Genesi 2,7:La bibbia ebraica non ha una definizione sistematica dell'anima, anche se nella letteratura rabbinica classica, è possibile trovare diverse descrizioni dell'anima dell'uomo. Nella bibbia ebraica vi sono tuttavia più termini che, nelle elaborazioni successive delle varie religioni, sono stati collegati al concetto di anima.
« Dio il Signore [YHWH] formò l'uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici l'alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente.[28] »
Il nefesh non si identifica con il soffio di vita che proviene da Dio, ma indica il respiro. In questo senso l'essere animato Nèfesh va incontro alla morte, identificata con lo Sheol o Inferi, il luogo della morte.
  • Esiste inoltre il termine Ruach, in greco pnéuma e in latino spiritus. Pnèuma deriva dal verbo pnèo, che significa "respirare" o "soffiare", e si ritiene che anche l'ebraico rùach derivi da una radice che ha lo stesso significato, ed indica l'alito vitale comunicato da Dio all'uomo.
Saadia Gaon e Maimonide spiegano il classico insegnamento rabbinico sull'anima attraverso le lenti della filosofia neo aristotelica. Il primo sostiene che l'anima è quella parte dell'uomo che è costituita di desideri fisici, emozioni e pensiero.[29] Il secondo, (nella Guida dei Perplessi) intende l'anima come l'intelletto sviluppato privo di sostanza.
Nella Qabbalah e nello Zohar (un trattato di mistica) l'anima è vista come composta da tre elementi basilari, in rari casi con l'aggiunta dei più elevati: NefeshRu'ah, e Neshamah. Queste ultime due sono parti dell'anima non presenti dalla nascita ma si creano lentamente col passare del tempo. Il loro sviluppo dipende dall'agire e dalle credenze dell'individuo. Di esse si dice che esistano in forma completa negli individui spiritualmente avanzati. Essi sono solitamente spiegati in questi termini:
  • Nefesh La parte inferiore o "funzioni animali" dell'anima. Si riferisce agli istinti e funzioni vitali. Si trova in tutti gli uomini, ed entra nel corpo fisico al momento della nascita. È all'origine della natura fisica e psicologica.
    Le altre due parti dell'anima non esistono dalla nascita, ma si creano lentamente col passare del tempo. Il loro sviluppo dipende dall'agire e dalle credenze dell'individuo. Di esse si dice che esistano in forma completa negli individui spiritualmente avanzati
  • Ruach L'anima mediana, o spirito. Essa consiste nelle virtù morali e nella capacità di distinguere il bene dal male. Nel linguaggio moderno è analoga alla psiche o all'ego.
  • Neshamah L'anima superiore, il Sé più elevato. Essa distingue l'uomo da tutte le altre forme di vita. Ha a che fare con l'intelletto, e permette all'uomo di godere e beneficiare della vita dell'aldilà. Questa parte è comune ad ebrei e non ebrei al momento della nascita. È la parte che permette la consapevolezza dell'esistenza e presenza di Dio.
Nello Zohar si dice che, dopo la morte, il Nefesh si dissolve, il Ruach si trasferisce in una sorta di stato intermedio dove è sottoposto ad un processo di purificazione ed entra in una specie di "paradiso transitorio", mentre Neshamah ritorna alla sua fonte, il mondo delle idee platonico, dove gode del "bacio dell'amato". Si ritiene che dopo la resurrezione Ruach e Neshamah, anima e spirito, si riuniscano in una forma definitiva trasmutata.
Il Raaya Meheimna, un trattato cabbalistico pubblicato assieme allo Zohar, aggiunge due parti ulteriori all'anima umana: Chayyah e YehidahGershom Scholem scrive che essi sono considerati i livelli più sublimi della cognizione intuitiva e si trovano solo in pochi individui eletti:
  • Chayyah La parte dell'anima che permette la consapevolezza della forza della vita divina stessa
  • Yehidah Il livello più elevato dell'anima, nella quale si raggiunge la più intima unione con Dio.
Molti studiosi del Talmud ritengono che l'infusione dell'anima nell'embrione avvenga non prima del quarantesimo giorno.
Nei libri dell'Ecclesiaste e della Genesi, si trovano dei versi rilevanti per la distinzione, forte nel cristianesimo, fra uomo ed animale, o meglio fra persona e individuo:
« [19]. Poiché la sorte de' figliuoli degli uomini è la sorte delle bestie; agli uni e alle altre tocca la stessa sorte; come muore l'uno, così muore l'altra; hanno tutti un medesimo soffio e l'uomo non ha superiorità di sorta sulla bestia; poiché tutto è vanità.
[20]. Tutti vanno in un medesimo luogo; tutti vengon dalla polvere, e tutti ritornano alla polvere. [21]. Chi sa se il soffio dell'uomo sale in alto, e se il soffio della bestia scende in basso nella terra? »
(Ecclesiaste, cap. 3, versi 19-21)
« [18] Poi riguardo ai figli dell'uomo mi son detto: Dio vuol provarli e mostrare che essi di per sé sono come bestie.
[19] Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c'è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell'uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. [20] Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. [21] Chi sa se il soffio vitale dell'uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra? [22] Mi sono accorto che nulla c'è di meglio per l'uomo che godere delle sue opere, perché questa è la sua sorte. Chi potrà infatti condurlo a vedere ciò che avverrà dopo di lui? »
(Genesi, cap. 6, versi 19-22)

Cristianesimo


La presentazione dell'anima a Dio(Giacomo Zampa)
Nel Nuovo Testamento non esiste una definizione univoca di anima. Paolo di Tarso fa riferimento ad una tripartizione dell'uomo, nominando il corpo, l'anima e lo spirito,[30] già presente in Platone.[31] La parola psychè (ψυχή, in lingua greca) ricorre da sola 102 volte, la prima dei quali nel Vangelo di Matteo 2,20, ed è usata nelle citazioni di passi dell'Antico Testamento dove è presente il termine nefesh.[32] Talvolta le due parole psyche e pneuma finiscono per assumere il medesimo significato.
Il termine greco psychè, tra l'altro, poteva significare non solo l'“anima come personalità e carattere”, ma anche come "vita", o usato per indicare la persona stessa. Anche in opere greche non bibliche il termine includeva tutto il vivente e non solo la parte "pensante".[33] Naturalmente opere del genere si basano più che altro sugli scritti di autori greci classici, e includono tutti i significati attribuiti alla parola dai filosofi greci pagani, fra cui “anima” dei morti, “anima, come sussistente senza il corpo, o contrapposta ad esso”, ecc.
Dal momento che alcuni filosofi pagani pensavano che l'anima alla morte uscisse dal corpo, il termine psychè significava anche “farfalla”, creatura che subisce una metamorfosi, trasformandosi da crisalide in creatura alata.[34]
Ferma restando la terminologia adoperata nelle Scritture, che fa riferimento ad un'inconfutabile distinzione concettuale tra il corpo e lo spirito,[35] il Cristianesimo delle origini si concentrò, almeno nei primi tempi, sul concetto di resurrezione della carne più che su quello di «immortalità» dell'anima; quest'ultima sarebbe divenuta materia di riflessione soltanto dei teologi successivi.[36]

Teologia cattolica

La Chiesa cattolica non ha una definizione filosofica esplicita dell'anima, sebbene abbia respinto diverse dottrine come quelle gnostiche che sostenevano che l'anima individuale fosse increata perché della stessa sostanza divina, o la teoria della metempsicosi legata alla reincarnazione, o ancora altre ipotesi nelle quali l'anima (intesa come anima razionale e spirito) non fosse considerata individuale e immortale. Secondo la teologia cattolica, l'anima è personale, libera di scegliere il bene e il male, immortale, soggetta a una sola vita terrena senza possibilità di reincarnazione dopo la morte, presente da sempre nella mente di Dio come idea-progetto di amore per il singolo e per il bene di ogni vivente, ma che non preesiste al corpo ed inizia a "vivere" col nascituro. Fra gli autori ecclesiastici che hanno affrontato l'argomento, che si presenta quasi sempre connesso al tema della resurrezione, sono da annoverare Agostino di IpponaTommaso d'Aquino e Bonaventura da Bagnoregio. Mentre Agostino immagina l'anima come una specie di nocchiero del corpo, postulando un certo dualismo,[37] Tommaso d'Aquino insiste sull'unità inscindibile dell'uomo. L'anima è «tota in toto corpore», vale a dire interamente contenuta in ogni singola parte del corpo umano, e dunque ubiquitaria e non collocabile in un singolo organo (cuore piuttosto che cervello, ecc.), né dal corpo separabile (se non con la morte). L'anima intellettuale è per lui la forma del corpo, e la sua separazione dopo la morte è vista come un esilio, poiché essa è naturalmente unita al corpo, a cui tende con la resurrezione finale.[38]
Di seguito alcuni passi del catechismo della Chiesa Cattolica:
« II. «Corpore et anima unus» - Unità di anima e di corpo

L'anima umana, di Luis Ricardo Falero
362 La persona umana, creata a immagine di Dio, è un essere insieme corporeo e spirituale. Il racconto biblico esprime questa realtà con un linguaggio simbolico, quando dice: « Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l'uomo divenne un essere vivente » (Gn 2,7). L'uomo tutto intero è quindi voluto da Dio.
363 Spesso, nella Sacra Scrittura, il termine anima indica la vita umana, oppure tutta la persona umana. Ma designa anche tutto ciò che nell'uomo vi è di più intimo e di maggior valore, ciò per cui più particolarmente egli è immagine di Dio: « anima » significa il principio spirituale nell'uomo.
364 Il corpo dell'uomo partecipa alla dignità di « immagine di Dio »: è corpo umano proprio perché è animato dall'anima spirituale, ed è la persona umana tutta intera ad essere destinata a diventare, nel corpo di Cristo, il tempio dello Spirito.
« Unità di anima e di corpo, l'uomo sintetizza in sé, per la sua stessa condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi, attraverso di lui, toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. Allora, non è lecito all'uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell'ultimo giorno ».
365 L'unità dell'anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l'anima come la « forma » del corpo; ciò significa che grazie all'anima spirituale il corpo, composto di materia, è un corpo umano e vivente; lo spirito e la materia, nell'uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un'unica natura.
366 La Chiesa insegna che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio – non è « prodotta » dai genitori – ed è immortale: essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte, e di nuovo si unirà al corpo al momento della risurrezione finale.
367 Talvolta si dà il caso che l'anima sia distinta dallo spirito. Così san Paolo prega perché il nostro essere tutto intero, « spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore » (1 Ts 5,23). La Chiesa insegna che tale distinzione non introduce una dualità nell'anima. « Spirito » significa che sin dalla sua creazione l'uomo è ordinato al suo fine soprannaturale, e che la sua anima è capace di essere gratuitamente elevata alla comunione con Dio.
368 La tradizione spirituale della Chiesa insiste anche sul cuore, nel senso biblico di « profondità dell'essere » (« in visceribus »: Ger 31,33), dove la persona si decide o non si decide per Dio. »
(Compendio catechismo della Chiesa Cattolica (2005)[39])

Teologia ortodossa

Per gli ortodossi, corpo e anima compongono la persona, e alla fine, corpo e anima verranno riuniti; quindi, il corpo di un santo condivide la santità dell'anima del santo.

Teologia protestante

Secondo il teologo protestante Oscar Cullmann, autore di Immortalità dell'anima o risurrezione?, pubblicato nel 1986,
« Lo stato intermedio fra la morte e la risurrezione del corpo è caratterizzato da un periodo di sonno, in cui gli addormentati (Prima lettera ai Tessalonicesi, 4,13) aspettano la resurrezione finale. »
Cullmann inoltre nel suo libro fa notare che la dottrina dell'immortalità dell'anima risale al II secolo e che deriva dalla analoga dottrina ellenica, presa a prestito dal cristianesimo.
In seguito, nella stessa opera, scrive:
« [Esiste] una differenza radicale fra l'attesa cristiana della risurrezione dei morti e la credenza greca nell'immortalità dell'anima... Se poi il cristianesimo successivo ha stabilito, più tardi, un legame fra le due credenze e se il cristiano medio oggi le confonde bellamente fra loro, ciò non ci è parsa sufficiente ragione per tacere su un punto che, con la maggioranza degli esegeti, consideriamo come la verità... Tutta la vita e tutto il pensiero del Nuovo Testamento [sono] dominati dalla fede nella risurrezione... L'uomo intero, che era davvero morto, è richiamato alla vita da un nuovo atto creatore di Dio. »

Islamismo

Nella religione islamica si ritiene che l'infusione dell'anima avvenga al termine del quarto mese di gestazione.[40]

Il concetto di anima nelle religioni induiste

Nell'Induismo, e nelle religioni ad esso collegate, l'anima è l'aspetto più puro e sottile dell'esistenza umana, il principio che dà vita alla totalità, e che influenza e caratterizza l'evoluzione di un individuo nella sua completezza. Non ha "rivestimenti", viene infatti anche detta Anupadaka, cioè priva di aspetti che la separino dal resto della creazione. Il principio separativo, "ego", è soltanto un riflesso limitato di questa immensa energia.
Nelle diverse vite che l'uomo si trova a vivere attraverso la reincarnazione, le esperienze vissute entrano a far parte del bagaglio dell'anima, che ha così la possibilità di ricordarle tutte. Il fatto di non ricordare nulla delle vite passate può dare un'idea della distanza che si viene ogni volta a creare tra la percezione che l'uomo ha di sé stesso durante la vita (ego) e la sua vera natura (anima).
Soltanto gli iniziati e i maestri riescono a ricordare le vite precedenti, perché la loro identificazione non è più con l'ego inferiore ma con il vero principio unificatore, e la sintonia con la loro anima è pressoché perfetta.
Tutte le pratiche Yoga e le diverse filosofie e religioni orientali hanno sostanzialmente come obiettivo la liberazione dalla schiavitù dell'ego e la definitiva sintonizzazione con l'energia della propria anima.
Nella tradizione esoterica si parla di anima individuale (Jiva) e anima suprema (Ātman). Poiché lo Yoga si pone appunto come obiettivo la fusione del jiva nell'atman, del sé individuale con quello Supremo (Dio, Bhagwan), esso mira in tal modo alla vera realizzazione spirituale e alla fine della sofferenza. L'Ātman, propriamente «respiro», può quindi essere inteso in un doppia accezione, sia come "anima del mondo", sia come princìpio dell'anima individuale.

Il concetto di anima presso i popoli primitivi

Secondo le credenze sciamaniche, sono gli spiriti a muovere il creato, ancora prima degli dei. Gli spiriti sono presenti in tutti gli esseri viventi, e il loro rango è proporzionale alla creatura che animano. Ne conseguiva che con la morte, l'essere umano entrava nella dimensione degli spiriti, superiore a quella terrena. Da questo si deduceva la necessità di onorare il defunto, non solo per l'affetto, ma soprattutto perché da quel piano elevato poteva benedire i vivi. Da questo nasce anche la paura dei morti: se una persona, in vita era stata oppressa e maltrattata; giunta nel reame superiore poteva, in qualche modo vendicarsi.

Lessico, modi di dire, uso figurato

In generale, l'uso figurato di anima allude a qualcosa dotato di movimento e di vita (spesso più immaginaria che reale), oppure a qualcosa di segreto ma essenziale, che in qualche modo cambia la natura dell'oggetto in cui si installa.
  • Nei manufatti si definisce anima la componente dura, portante, interna, non visibile ma essenziale dell'oggetto, ad esempio:
    • bastone animato: è un bastone da passeggio che nasconde al proprio interno una lama affilata;
    • anima in polietilene o in poliuretano dentro pannelli in alluminio;
    • in liuteria si intende per anima il pezzetto di legno incastrato, non incollato, tra il fondo e la tavola degli strumenti ad arco.
  • cartoni animati sono disegni che, proiettati in rapida successione, danno l'illusione del movimento (come se prendessero vita e fossero dunque dotati di anima)
  • Un popolare proverbio recita: "La pubblicità è l'anima del commercio".
  • Anima può essere una metonimia per "persona" in espressioni come "Un villaggio di poche anime".
C'è poi uno spettro semantico nel quale l'anima si riferisce ai morti:
  • la buonanima di..., espressione popolare per alludere a un defunto;
  • le anime sante, frequentemente stazionanti in purgatorio.

Differenza tra Anima e Animo

Sia la differenza che la coincidenza dei due termini era già nei latini con la coppia animus-anima. Dice Isidoro (Etym. XI I 11): " anima vitae est, animus consilii. Unde dicunt philosophi etiam sine animo vitam manere, et sine mente animam durare: inde amentes ". Col primo termine quindi (anima=vita) viene indicato ciò per cui l'uomo è, con il secondo (animus=mens) ciò che ne caratterizza l'esistenza, cioè le facoltà spirituali comprese sotto il termine ‛ mente ' e prima fra tutte quella dell'intendere (consilium). Macrobio notava inoltre la divinità della mens rispetto all'anima (Comm. in Somn. Scip. I XIV 3): " animus... proprie mens est, quam diviniorem anima nemo dubitavit: sed non nunquam sic et animam usurpantes vocamus ".

Con la filosofia greca e romana e così nel corso di tutti i secoli successivi, assunse vari significati, molte volte opposti, che a tutt’oggi sono attuali e presenti: da sostanza spirituale, principio della vita, della sensibilità e delle attività intellettuali, a semplice funzione dell’organismo, concezione quest’ultima, che è alla base anche dell’odierno diffuso materialismo. Il “monismo spiritualistico” e così l’idealismo identificano l’anima come unica realtà, mentre le altre “aggiunte” umane sono ritenute parvenze precarie.
 Il panteismo, invece, si rivolge all’anima quale derivazione diretta del corpo, con tutti i suoi fenomeni psichici, ma tenta poi di salvaguardarla, elevandola a manifestazione di una realtà superiore, che contiene e domina sia l’anima individuale, sia tutti i suoi “addentellati” psichici. 

La parola “animo” si riferisce alla sede degli affetti e dei sentimenti, che è anche il centro dell'attività intellettuale e delle facoltà morali, che sono i componenti caratteristici ed esclusivi del carattere e del temperamento di ciascuno essere vivente. La Letteratura, con i suoi poeti e con i suoi scrittori, ha riconosciuto a quest’ultima parola anche altri contenuti, quelli del coraggio e dell’audacia, del proposito e dell’intenzione e perfino dell’animosità e del rancore. Corrono, infatti, nella lingua parlata numerose espressioni idiomatiche, come ad esempio, “applicare l’animo agli studi più severi” o “avere un animo meschino” o “mettere l’animo in pace”.
Come si evince da queste riflessioni, è opportuno che il lettore s’accorga dell’importanza di quanto sopra si è delineato, richiamando alla parola “anima” il suo più alto significato, appunto quello di principio primo e vitale della nostra esistenza e della nostra stessa coscienza, morale e religiosa, finalmente menzionata per la prima volta dai filosofi contemporanei.

La parola animo può essere collegata a quella di spirito, e di questo si parlerà in un prossimo articolo.


Anima e Animus secondo Jung


"Le persone, secondo Jung, vedono nell’altro la propria componente inconscia dell’altro sesso, ovvero l’Animus (componente maschile delle donne) oppure  l’Anima (componente femminile negli uomini) e l’attrazione che provano altro non è che per quella parte inconscia (insomma, ci si innamora di se stessi) e quindi velata di sé stessi. Ne consegue che, solo conoscendo bene questo archetipo o meglio questo lato della propria psiche è possibile interagire in modo armonico e diviene più facile avere una sana relazione e un rapporto di coppia ricco e gratificante. 


Questi due archetipi (Animus e Anima) ci danno forse meglio di altri (puer/senex ad esempio) una visione di quanto la psiche possa essere duale. Ogni archetipo, contiene un aspetto della vita e il suo opposto, lasciando intendere che entrambi hanno un loro valore; esattamente al contrario di Freud, che nelle sue ricerche sull’ambivalenza (affettiva: odio/amore) era focalizzato sulla conflittualità, tendendo cioè ad eliminare uno dei due poli. Nel pensiero junghiano, la psiche è duale (o doppia) venendo a significare che   ogni atteggiamento o sentimento contiene il suo opposto; ecco quindi che la sottomissione convive con la prevaricazione, l’odio con l’amore,  il conscio con l’inconscio… Da ciò si evince che tale dualità vale anche in ordine ai due generi biologici e Jung ci dice che anche la psiche ha in sé, sia una energia maschile che una femminile e quindi ogni uomo ha in sé un lato femminile e ogni donna ha in sé un lato maschile. Ogni essere umano esprime un’energia dominante, ma contiene, in secondo piano, anche quella opposta. Ecco perchè la psiche, quindi andrebbe vista come una combinazione di principi maschili e femminili. Nella Genesi dapprima c’è solo Adamo, Eva esce da una sua costola. Similmente Atena esce dalla testa di Zeus e nell’Olimpo abbiamo un Cielo e una Terra. Nei bassorilievi dei templi indiani, i due principi (maschile e femminile) sono rappresentati come un uomo e una donna abbracciati (Kamasutra); idealmente essi sono due entità metafisiche, due essenze universali. Nel Cantico dei Cantici (ma anche nella Bibbia) c’è un inno all’amore del maschile e del femminile come valenze universali. Mentre Freud costringeva ad una identità fissa (uomo-donna) nel pensiero Junghiano ognuno di noi è più di una cosa e nella persona bene integrata, le polarità della psiche sono complementari.

Jung chiama questa dualità: ANIMA e ANIMUS. L’ANIMA è la componente femminile presente nell’apparato psichico di ogni uomo e l’ANIMUS quello maschile per le donne. La vita è l’unione di energie complementari, ognuna delle quali tende verso l’altra, compensandola. “L’Animus è la figura che compensa l’energia femminile. L’Anima quella che compensa l’energia maschile”. 

I due archetipi, Anima (femminile) e Animus (maschile), sono da sempre presenti nell’inconscio collettivo. Li troviamo nei sogni e nelle rappresentazioni artistiche, spesso sotto forma di metafora. Per la coscienza, ANIMA significa: unione, protezione, affettività, cura, mantenimento, insieme… mentre per ANIMUS: riflessività, controllo, analisi, ponderazione, razionalità, calcolo, decisione, programmazione, distinzione.

Un esempio per tutti: è innegabile che l’accoglienza sia una virtù del femminile e da sempre viene affidata alle donne. quando si entra in una casa è la donna che prepara il caffè, i dolcetti, etc. Questo era ed è ancora sacro in alcune culture, un pò meno (anche se non del tutto scomparso) nella nostra.  

L’Ombra (il nostro aspetto peggiore)) evidenzia ciò che ignoriamo e che ribaltiamo all’esterno sotto forma di paura, rifiuto, desiderio, etc. Se nei sogni di un uomo compare una donna scocciante e noiosa oppure una principessa dolce e accogliente la possibile interpretazione è che l’inconscio ha trovato un modo ingegnoso per vedere i due aspetti (il lato in e out) dell’Anima di un uomo. La stessa cosa può accadere nei sogni di una donna (un uomo forte e valoroso oppure un uomo odioso e detestabile).

Cosa fare? lavorare e risolvere le negatività insite nell’Ombra.

Spesso uomini e donne non si capiscono e questo accade perchè i due archetipi (Anima e Animus) coesistono e non sempre li riconosciamo, li accettiamo, li integriamo; questa mancanza di sintesi sta alla base delle difficoltà di comunicazione tra due partner. Quindi, se noi non riusciamo a comprendere noi stessi come possiamo sperare di riuscire nell’interazione di coppia?  Diciamo che l’amore potrebbe essere in grado di reindirizzare l’energia che fluisce tra i partner promuovendo una possibile  integrazione. Non  è facile amare  perchè anche ove esistano dei sentimenti forti, rimane la fatica di quella lotta che avviene dentro di noi. Gli opposti si attraggono, diceva spesso Jung, ma è anche innegabile che la loro convivenza è, spesso, ardua.  Ecco perchè ogni rapporto raramente è tranquillo e ha potenzialmente in sé il massimo della gioia e il massimo del turbamento. Il nostro scopo è quindi realizzare l’armonia sia dentro di noi che nel rapporto con l’altro; il messaggio è che quanto più riusciremo ad armonizzare la nostra psiche tanto più riusciremo a realizzare una relazione soddisfacente con l’altro migliorando, tra l’altro, anche la convivenza sociale.

Quando si ha la fortuna (?)di incontrare (uomo e donna) la persona ‘giusta’, accade una cosa straordinaria … si accende qualcosa: l’archetipo si attiva; improvvisamente si accendono mille luci e tutti i nostri desideri collaborano a questo sfavillio di colori che qualcuno chiama  energia psichica, ed ecco che qualcosa dentro di noi ci fa dire: “...ecco, è arrivata!” Se siamo pronti, quando siamo pronti, semplicemente arriva. 

L’inconscio collettivo attiva l’archetipo che ci propone cose che sono in sintonia con il momento che del soggetto sta vivendo in quel momento che però non deve essere interpretato come assoluto ma soltanto  ‘giusta’ in quel momento. Infatti, pur ringraziando l’archetipo, dobbiamo sempre avere bene in mente che non è detto che quel partner sia realmente quello da cui avremmo la felicità (a cui tutti dovremmo tendere). Perchè? Perchè potremmo non essere ‘puliti, ma ancora sotto scacco dal complesso sistema di proiezioni. Ovvero la donna proietta il suo animus sul malcapitato mentre l’uomo la sua anima sulla sventurata. Le proiezioni partono dall’Ombra (il lato peggiore di noi stessi), quindi se non comprese e integrate, quell’incontro che inizialmente sembra magico (perchè frutto della proiezione) in seguito risulterà la peggiore scelta della nostra vita (proprio perchè abbiamo scelto …. noi stessi nel lato peggiore).

Oramai è comunemente noto che gran parte dei nostri contenuti sono, ahimè, inconsci e che ogni uomo porta dentro di sé un lato femminile di cui non è consapevole e ogni donna un lato maschile. Entrambi priettano nell’altro il proprio archetipo (Anima, Animus) e la relative energia. La proiezione potrebbe provenire dall’Ombra (il nostro lato peggiore). La mancata elaborazione dell’Ombra, ci porta a proiettare lati negative e quindi, ecco perchè spesso le relazioni sono disastrose. Questo perchè, com’è facilmente intuibile, nella proiezione, ciò che è inconscio diventa visibile perchè lo vediamo rispecchiato nell’altro.

Quante volte ci sentiamo dire: ‘sei tutto/a uguale a tua madre/padre’ e noi pronti subito a dire: ‘… chi io? Ma no, non hai capito nulla…’. Quante volte vediamo i difetti degli altri e raramente i nostri? Ecco, questa è l’Ombra. Vi ricordate cosa dice Cristo? ‘… è più facile vedere la pagliuzza negli occhi degli altri che la trave nei nostri? Trattando dell’anima (ma lo si potrebbe declinare anche con l’animus) dovremmo considerare che non è solo la controparte psichica dell’uomo ma anche la sua idea di donna ideale, cioè l’immagine idealizzata (quindi ottimale) che l’uomo ha del femminile. Ma, questa idea, potrebbe avere una derivazione legata alle donne della propria vita (madre, nonna, sorelle, zia, etc).

Quando l’archetipo si attiva e l’altro diventa o meglio incarna il nostro partner ideale, dovremmo chiederci se in realtà, non è altro che un riflesso del proprio passato affettivo. Nell’amore scattano giochi che coinvolgono l’Anima e l’Animus. In questo caso, che ha una connotazione nevrotica, dovremmo sempre considerare l’ipotesi che l’Anima/Animus spinge l’innamoramento verso un partner che corrisponde alla sua parte ombra, come se la cercasse in lui/lei. In questo caso, l’amore è solo ….. virtuale.  

Non si ama quel soggetto ma la sua proiezione. In questo caso l’evoluzione del rapporto evidenzia in modo spesso drammatico lo scarto tra l’ideale e il reale, mettendo in crisi il rapporto, perché la sua immagine è lontana dal vero anche se, all’inizio sembrava altro.

Concludo rilevando e ponendo in evidenza quanto le differenze culturali siano determinanti nella produzione degli stili di coppia. Infatti ogni paese ne ha uno. Pensate allo stile dei paesi della maggior parte del sud del nostro mondo rispetto a quello del nord. Come tratterà un indiano la propria donna rispetto ad un italiano, un inglese, un americano,un cinese, etc?… ci sono codici, aspettative, credenze, che dipendono da imprinting culturali, per cui nel rapporto di coppia le difficoltà si accrescono. Ecco perchè, spesso i matrimoni misti sono ancora più precari dei matrimoni monoculturali che, ahimè hanno già di suo infinite difficoltà"

Da Il significato degli archetipi nella nostra vita

Note

  1. ^ Emilio Morselli, Dizionario filosofico, p. 11, Milano, Signorelli editore, 1961.
  2. ^ E. Morselli, ivi.
  3. ^ Cioè con la res cogitans di Cartesio (Enciclopedia Treccani alla voce omonima).
  4. ^ Enciclopedia Treccani alla voce omonima.
  5. ^ Vocabolario Treccani.
  6. ^ Dizionario etimologico.
  7. ^ Atman analogamente è collegato al significato di «respirare», «soffiare» (Monier Monier-Williams, Sanskrit-English Dictionary; Margaret Stutley e James Stutley, Dizionario dell'Induismo, Roma, Ubaldini, 1980, pag. 46.
  8. ^ Vocabolario Treccani alla voce corrispondente.
  9. ^ Si tratta di una concezione evanescente dell'anima, ritenuta simile a un "soffio" o in certi casi al suono di un singhiozzo, che come ha illustrato Manara Valgimigli permeava l'immaginario greco fino a tutta l'età pre-socratica: «Il termine greco che designa l'anima ("psyche") indica in origine più genericamente la vita. Quando l'anima se ne vase ne va la vita; la morte è dunque un fuggire della vita o dell'anima. Si può parlare di una sopravvivenza dell'anima in qualche forma, proprio perché l'anima se ne va, ma si tratta comunque di una sopravvivenza in forma diminuita; l'anima del defunto è solo un'immagine ("èidolon") sbiadita, che ha perso il suo vigore vitale, cioè, in generale, le facoltà nelle quali consiste propriamente il vivere, dalla volontà alla coscienza» (cit. in Platone, Fedone, traduzione di Manara Valgimigli, a cura di Bruno Centrone, Biblioteca Filosofica Laterza, Bari 2005, pag. 8).
  10. ^ Francesco Sarri, Socrate e la genesi storica dell'idea occidentale di anima, Abete, 1975.
  11. ^ E. Morselli, op. cit., pag. 11. La stessa tripartizione viene riproposta da Platone nella concezione politica dello Stato organizzato secondo ragione, in analogia ad un organismo vivente
  12. ^ Platone, Timeo, VIII, 34-37.
  13. ^ «Le anime, pertanto, si accalcano e si urtano tra loro e, riempitesi di malvagità, perdono le ali e precipitano sulla terra dove si incarnano, dando avvio a un ciclo di reincarnazioni» (Platone, Fedro, trad. in Luciano Zamperini, Platone. Un maestro del pensiero occidentale, p. 90, Firenze, Giunti, 2003).
  14. ^ Aristotele afferma in proposito: «Se rimanga qualcosa dopo l'individuo, è una questione ancora da esaminare. In alcuni casi, nulla impedisce che qualcosa rimanga: per esempio, l'anima può essere una cosa di questo genere, non tutta, ma solo la parte intellettuale; perché è forse impossibile che tutta l'anima sussista anche dopo» (Metafisica, Λ 3, 1070 a 24-26).
  15. ^ Paolo Rossi (a cura di), Dizionario di filosofia, La Nuova Italia, Firenze, 2000
  16. ^ Plotino, Enneadi, I 1, 12.
  17. ^ Ibidem I, 1, 9.
  18. ^ Ibid. IV, 3, 31.
  19. ^ Ibid. IV, 3, 31.
  20. ^ Trattato III, 5 Sull'Amore.
  21. ^ Lettera di Epicuro a Erodoto.
  22. ^ Si può notare come a differenza del suo maestro Democrito, da cui riprende la dottrina, Epicuro attribuiva all'anima una qualità diversa rispetto al corpo, come la capacità di sentire o di patire, senza le quali il corpo, anche restando integro, di fatto non "vivrebbe" (cfr. Epicuro, Epistème ed éthos in Epicuro, a cura di L. Giancola, Roma, Armando Editore, 1998, pagg. 89-90).
  23. ^ Platone, Timeo, 34 b.
  24. ^ Tullio Gregory, Anima mundi. La filosofia di Guglielmo di Conches e la scuola di Chartres, Sansoni, Firenze 1955.
  25. ^ Sulla nozione di Anima Mundi in Ficino, si veda l'intervista a Cesare Vasoli, dall'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche.
  26. ^ E. Morselli, op. cit., pag. 12.
  27. ^ L'«Anima del Mondo» di cui parlava Schelling (Weltseele) si ricollegava a sua volta alla concezione immanente di Spinoza, che tuttavia postulava sempre la precedenza di Dio e dello Spirito sulla natura (V. Hösle, Introduzione a Spinoza, EMSF, 1994).
  28. ^ Ebr. Nèfesh hachaiyàh; latino animam viventem; greco psychè ton zòion.
  29. ^ Emunoth ve-Deoth 6:3.
  30. ^ «Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» (Paolo, Prima lettera ai Tessalonicesi, 5, 23).
  31. ^ Platone, come visto in precedenza, suddivideva la personalità umana in tre componenti: quella razionale-intellettiva (loghistòn), quella volitiva-irascibile (thumoeidès), e quella concupiscibile(epithymetikòn).
  32. ^ Umberto GalimbertiIdee: il catalogo è questo, p. 106, Milano, Feltrinelli, 2003.
  33. ^ Hans-Georg Gadamer, La responsabilità del pensare: saggi ermeneutici, p. 115, a cura di G. Reale, Vita e Pensiero, 2002.
  34. ^ L. Rocci, Vocabolario greco-italiano, pp. 2060, 2061.
  35. ^ Cfr. ad esempio Matteo 10, 28: «e non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l'anima».
  36. ^ La Jewish Encyclopedia sostiene in proposito: «La credenza che l'anima continui ad esistere dopo la dissoluzione del corpo è argomento di speculazione filosofica e teologica e di conseguenza non è espressamente insegnata in alcun punto della Sacra Scrittura». Anche Papa Benedetto XVI, parlando della Chiesa antica, ha tenuto a precisare: «Per la Chiesa antica è significativo che non esisteva alcuna affermazione dottrinale circa l'immortalità dell'anima» (Joseph Ratzinger, Escatologia: morte e vita eterna, pagina 146, Cittadella Editrice, Assisi 1979).
  37. ^ Si tratta comunque di un dualismo tra due parti della stessa anima, una rivolta allo spirito, l'altra alla materia (Battista MondinStoria della metafisica, vol. II, p. 217, Bologna, ESD, 1998.
  38. ^ Giovanni Kostko, Beatitudine e vita cristiana nella Summa theologiae di S. Tommaso d'Aquino, p. 228, Bologna, ESD, 2005.
  39. ^ Compendio catechismo della Chiesa Cattolica.
  40. ^ Dariusch Atighetchi, Islam e bioetica, p. 99, Roma, Armando editore, 2009.

Bibliografia

Voci correlate

Semiti, Camiti e Giapeti

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Secondo la mitologia biblica, i Camiti, ortografati anche come Chamiti o Kamiti, chiamati anche Hamiti, sono l'insieme di popolazioni discendenti da Cam, figlio di Noè, che popolano l'Africa e di cui fanno parte i Berberi, gli Etiopi, gli Egizi e i Cananei e tutte le popolazioni nere. Dagli altri figli di Noè sarebbero discesi altre importanti popolazioni: i Semiti da Sem e gli Europei da Jafet.

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Mentre da Sem discesero i Semiti e da Jafet gli Europei (o Jafesiti o Giapetiti), da Cam discesero gli uomini dalla pelle scura, i Camiti, che popolarono l'Africa.
« Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all'interno della sua tenda. Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori. Allora Sem e Jafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono il padre scoperto; avendo rivolto la faccia indietro, non videro il padre scoperto. Quando Noè si fu svegliato dall'ebbrezza, seppe quanto aveva fatto il figlio minore; allora gli disse: "Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!" E aggiunse: "Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia tuo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia tuo schiavo! »
(Gen.9,20-27)
Siccome Cam vide il proprio padre nudo, ricevette una maledizione e per questo i suoi discendenti erano considerati degenerati, impuri e maledetti.

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La nozione della "razza maledetta dei figli di Cam" venne comunemente accetta fino al XVII secolo, tanto da giustificare persino la schiavitù. I "negri" erano visti alla stregua di animali, privi di intelligenza e di pudore. Talvolta vi venivano compresi tutti i popoli pagani che vivevano alla periferia del mondo cristiano[1].
Sempre secondo la leggenda, Cam ebbe quattro figli: Mizraim, da cui discesero gli Egizi, Cus, da cui discesero i Cusciti o Nubi, Put da cui discesero gli Etiopi e Canaan da cui discesero i Cananei. Nella raccolta dei Midrashim Midrash Rabbah, nel Talmud ed in altri testi si afferma che, oltre agli Africani, come discendenti di Cam tra gli abitanti di Canaan vi sono le sette Nazioni dei Cananèi, GherghesèiChittèiEmorrèiChivvèiGhevussèi e Perizzèi.

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L'ipotesi hamitica


Napoleone Bonaparte davanti alla Sfinge di Giza di Jean-Léon Gérôme
Con la Campagna d'Egitto del 1798 di Napoleone Bonaparte ci si trova di fronte ad un paradosso: anche i "maledetti" Camiti potevano raggiungere un elevato grado di civiltà. Fu così che il conte De Volney arrivò a sostenere che gli Egizi non erano "negri", ma negroidi, cioè camiti imparentatesi con i Greci e con i Romani[2].
Nel XIX secolo, come applicazione del razzismo scientifico, la "razza camitica" è diventata un sottogruppo della razza caucasica, a fianco della razza semitica, raggruppando le popolazioni originarie del Nord Africa non-semitiche, del Corno d'Africa e Sud Arabia, tra cui gli antichi Egizi. La teoria hamitica ha suggerito che questa "razza camita" era superiore o più avanzata rispetto alle popolazioni negroidi dell'Africa sub-sahariana. Nella sua forma più estrema, negli scritti di Charles Gabriel Seligman, essa affermava che tutti i risultati significativi nella storia africana erano opera di "Camiti" che migrarono in Africa centrale, come pastori, portando con loro tecnologie ed abilità civilizzatrici.
A metà Ottocento Joseph Arthur de Gobineau, nel suo Essai sur l'inégalitéde des races humaines, sostiene l'idea di una diffusione antica della razza bianca nel continente africano, che avrebbe dato vita ad importanti civiltà e che si sarebbe poi mischiata con i neri.
L'esploratore John Hanning Speke, nel suo diario del viaggio nella terra centrafricana del 1864, di fronte alla sofisticata organizzazione politica del Regno del Burundi sostenne e divulgò l'idea di una certa parentela razziale tra gli europei ed alcune popolazioni africane[3].
Prende così via l'ipotesi di una razza hamitica[4], ramo camita della razza bianca, di cui i Berberi, gli Abissini, i Tutsi avrebbero fatto parte. La parola hamita sostituisce il camita per designare un africano "superiore"[5], talvolta definito "nilota" o galla, di origine caucasica o semitica. Si constata quindi una opposizione tra "hamita" e "negro": il primo sarebbe il discendente di una più recente ondata migratoria di genti semitiche camitizzate, originaria dal l'Egitto o dell'Etiopia. Questa sarà la teoria dei missionari Van der Burgt nel 1903 e del vescovo Gorju nel 1920 per spiegare l'origine dei Tutsi, del Burundi e del Ruanda.
Nel 1948 un medico di ritorno dal Ruanda scriveva[6]: "...li si chiama batutsi. In realtà sono degli hamiti, probabilmente di origine semitica o, seguendo talune ipotesi, hamiti o meglio adamiti. Rappresentano circa un decimo della popolazione e formano nella realtà una razza di signori"; ed ancora: "Gli hamiti sono alti 1,90 metri. Sono slanciati. Possiedono un naso diritto, la fronte alta e le labbra sottili. Si intravede in loro una sorta di furbizia, celata da una certa raffinatezza. Le donne giovani sono davvero molto belle e di una tinta talvolta leggermente più chiara di quella degli uomini".
Dal punto di vista linguistico, così come in altri campi, è stata ormai dimostrata la completa ascientificità di questo raggruppamento: "non si parla più ormai di lingue camitiche (le lingue africane, in senso proprio) in giustapposizione alle lingue semitiche come l'ebraico, l'arabo e le lingue etiopiche derivate dal geez": la vecchia famiglia camito-semitica viene modernamente riconsiderata nella famiglia delle lingue afro-asiatiche.[7]

Note

  1. ^ Mirella Zecchini, Oltre lo stereotipo nei media e nelle società, Armando editore, 2005, pag. 113.
  2. ^ Mirella Zecchini, Oltre lo stereotipo nei media e nelle società, cit., pag. 114.
  3. ^ Ugo Fabietti, Elementi di antropologia culturale, Mondadori, 2004, pag. 154.
  4. ^ J. P. Chrétien, Le deux visage de Chan, Paris, 1977, pag. 191.
  5. ^ J. L. Amselle e E. M'Bokolo, L'invenzione dell'etnia, Paris, 1985, pag. 167.
  6. ^ J. L. Amselle e E. M'Bokolo, L'invenzione dell'etnia, cit., pag. 169.
  7. ^ Novati e Valsecchi, pp. 14-15.

Bibliografia

Voci correlate

Il fondamento biblico e genealogico delle nazioni: Sem, Cam e Japhet (e i loro discendenti)

The 12 tribes of Ishmael, Abrahamic covenant, descendants of Noah and his sons:

Genesis 10, Genealogy of Shem:

Genealoy of Noah's Sons | Map of the Dispersal after the Flood:

Genealoy of japheth | Map of the Dispersal after the Flood:
Jafet o Iafet, anticamente anche italianizzato Giapeto (in ebraico יפת, pron. Iéfet) è un personaggio biblico, uno dei figli di Noè.
Viene sempre indicato come terzo dopo Sem e Cam, ma poiché in Gen. 9:24 Cham è definito "בנו הקטן" (trad. lett. "suo figlio il piccolo"), una tradizione parallela e più tarda vuole che Iafet sia in realtà il secondogenito, nato dopo Shem.
Egli fu ammesso con i fratelli a salire sull'arca assieme alla propria moglie, e superò con loro la strage del Diluvio (Gen. 7:13; 9:18). Tempo dopo, quando il padre ubriaco venne visto da Cham stordito e discinto, fu lui con suo fratello Shem a coprirne il corpo, mostrando - attraverso il gesto di procedere a ritroso verso il padre con un manto, così da non vederne la nudità - un rispetto assoluto per il proprio genitore. Per questa accortezza ricevette un'importante quanto oscura benedizione, che nella sua prima parte suona: יפת אלי ליפת וישכן באהליˉשם (trad. lett."Faccia ampio il Signore verso Jafet, ed egli abiti nelle tende di Shem" - Gen. 9:27).
Vi è una tradizione nell'Ebraismo secondo cui alla discendenza di Yafet corrispondono i Greci e il resto degli Europei, le cui caratteristiche corrispondono all'accostamento del significato della radice del nome Yafet con quello di bellezza; vi sono inoltre discendenti di Jefet con capelli di colore nero, "rosso", "biondi", ecc.

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La discendenza di Jafet

È comunque in quest'ultimo senso che venne intesa, considerato che nelle successive genealogie Iafet è l'unico ad avere avuto sette figli (nello specifico, Genesi 10:2: GomerMagogMadaiIavanTuvalMeshech e Tiras).
La genealogia è diversa nei nomi che troviamo in 1 Cronache 1:5, dove sono figli di Iafet: Gomer, Magòg, Media, Grecia, Tubal, Mesech e Tiras. Dal confronto delle due genealogie, risulta che Madai è sovrapponibile a Media, e Javan a Grecia.
Similmente a Jafet, stesso tipo di informazione (che scambia nomi di persona con nomi di nazioni) si ricava per la discendenza di Javan, confrontando:
  • Genesi 2:3-4: I figli di Gomer: Ashkenaz, Rifat e Togarma. I figliuoli di Javan: Elisha, Tarsis, Kittim e Dodanim.
  • 1 Cronache 1:6-7: Figli di Gomer: Ascanàz, Rifat e Togarmà. Figli di Grecia: Elisà, Tarsìs, quelli di Cipro e quelli di Rodi.
I nomi sono identici per i figli di Gomer, mentre differiscono soltanto per i figli di Javan, differenza che quindi nei testi sembra intenzionale per fornire informazioni geografiche. Di nuovo, dal confronto delle due genealogie, Kittim è sovrapponibile a Cipro, e Dodanim a Rodi.

Il significato del nome

Due sono le spiegazioni fornite per dare un significato al nome di Iafet, ed entrambe - benché discordanti - sono state materia di ampia riflessione. Secondo la versione più accettata "Iafet" deriva dalla radice del verbo פתה (p.t.h - essere spazioso, aprire; il medesimo usato nella benedizione), dunque intendendo l'ampiezza raggiunta dai suoi discendenti quanto a numero, a potenza ed espansione territoriale. Per altri, Saadia Gaon tra i primi, deriva invece dalla radice יפה (y.p.h - bello, ben fatto) con un'allusione palese al suo valore estetico, e - meno palese - alla minore saggezza rispetto ai fratelli, da cui l'essere costantemente citato come terzo tra i tre (Gen. 6:10; Sanh. 69b; Gen. R. 26). Senza nulla togliere alle parole dei rabbiniAbraham ibn Ezra rifiutò decisamente questa seconda versione.

Haggadah e Midrash

Analizzando l'evento che portò alla benedizione, l'interpretazione midrashica arrivò a considerare Shem come il vero ideatore dell'atto di pietà verso il padre, lasciando ad Iafet il solo compito di aiutarlo. Per questo egli ottenne una ricompensa minore rispetto a Shem, ovvero il Tempio costruito dai suoi discendenti sarà meno santo rispetto al primo (essendo l'imperatore Ciro il Grande considerato discendente di Iafet; PR 35, 160a). Tuttavia il gesto di amore filiale non venne sottovalutato, così Gog e la sua discendenza potranno avere sepoltura in Israele (Ez. 39:11), e parteciperanno della gioia dell'era messianica (Gen. R. 36:6).
La bellezza di Iafet, infine, venne associata alla bellezza della lingua e della cultura greca, intendendo con "abiti nelle tende di Shem" l'invito, o la speranza, che il popolo dei Kittim si convertisse alla fede di Israele attraverso la versione dei Settanta (Meg. 9b, Gen. R. 36:8); sia che il Signore avesse benedetto i discendenti di Iafet con una pelle candida e abbondanti terre fertili (Pirke R. El. 24).

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Uno sviluppo successivo

L'intero passo biblico di Genesi e in particolare la profezia sulla discendenza e la schiavitù di Canaanvenne spesso interpretato fin troppo alla lettera, tanto dai teologi cristiani che dagli eruditi laici.
Essi, dividendo la razza umana in tre grandi stirpi (Camiti per gli Africani, Semiti per i Mediorientali, Iafetiti o Giapetiti per gli Europei), postularono l'evidente superiorità del loro ceppo etnico rispetto a tutti gli altri, considerati come corrotti o corruttori (Mosse, 1980; Poliakov, 1974), e il diritto/dovere di assoggettare ed educare questa umanità sbandata.
La scoperta del Nuovo Mondo e dei suoi abitanti, identificati di volta in volta come i discendenti delle tribù perdute di Israele, come razze antidiluviane ingannate dal demonio, come specie semiumana, non incrinarono di molto questo concetto. Il sacerdote francese Guillaume Postel propose addirittura di rinominare l'Europa Iapezia, in quanto terra dei discendenti di Iafet.

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Il Principato del Galles


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Principato del Galles - Localizzazione

Il Principato del Galles (in lingua galleseTywysogaeth Cymru) esistette tra il 1216 ed il 1536, estendendosi per circa i due terzi dell'attuale Galles durante la sua maggiore estensione tra il 1267 ed il 1277. Per gran parte della propria storia, rimase "annesso ed unito" alla corona inglese. Per alcune generazioni, tuttavia, specificamente il periodo dalla sua fondazione nel 1216 fino al completamento della conquista del Galles da parte di Edoardo I d'Inghilterra nel 1284, fu de facto indipendente e governato da un Principe del Galles gallese, che tuttavia giurava fedeltà al Sovrano d'Inghilterra.
Il Principato fu fondato formalmente nel 1216 al Consiglio di Aberdyfi e fu in seguito riconosciuto dal Trattato di Worcester tra Llywelyn il Grande del Galles ed Enrico III d'Inghilterra.[1][2][3] Il trattato prese atto della realtà politica del Galles e dell'Inghilterra del XIII secolo, e le loro relazioni con l'impero angioino. Il principato mantenne un elevato grado di autonomia, caratterizzato da una giurisprudenza legale separata basata sulle leggi già istituite del Cyfraith Hywel, e dalla sempre più sofisticata corte del Casato di Aberffraw. Nonostante dovesse fedeltà al re angioino d'Inghilterra, il principato era de facto indipendente, con uno status all'interno dell'impero similare a quello del Regno di Scozia.[4] La sua esistenza è stata vista come prova che vi erano tutti gli elementi necessari per la crescita dello stato gallese.[4]
Il periodo di indipendenza de facto ebbe fine con la conquista del Principato da parte di Edoardo I tra il 1277 ed il 1283. Con lo Statuto di Rhuddlan, il Principato perse la sua indipendenza e divenne effettivamente un territorio annesso alla Corona inglese. Dal 1301, le terre della corona nel Galles settentrionale e occidentale formarono parte dell'appannaggio dell'erede al trono, con il titolo di "Principe del Galles". Con l'ascesa al trono del Principe, le terre tornavano di proprietà della corona; in questo periodo, in due occasioni i pretendenti gallesi al trono si ribellarono, anche se nessuno dei due ebbe successo.
Sin dalle leggi sul Galles del 1535 e 1542, che incorporarono formalmente tutto il Galles nel Regno d'Inghilterra, non si sono basi geografiche o costituzionali per descrivere nessuno dei territori del Galles come principato, anche se il termine viene occasionalmente utilizzato in senso informale per descrivere la nazione, e in relazione al titolo onorifico di Principe del Galles.

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Fondazioni

Il Principato del Galles del XIII secolo aveva come base le terre storiche governate dalla famiglia Aberffraw, le terre del Galles del nord che comprendevano tradizionalmente Ynys MônGwynedd-Uwch-Conwy (Gwynedd sopra il Conwy, o Alto Gwynedd), ed il Perfeddwlad (il Paese di mezzo) anche conosciuto come Gwynedd-Is-Conwy (Gwynedd sotto il Conwy, o Basso Gwynedd). Terre aggiuntive furono acquisite tramite il vassallaggio o la conquista, e riconquistando terre perse a favore dei signori delle marche, in particolare quelle di Perfeddwlad, Powys FadogPowys Wenwynwyn, e Ceredigion.
I precedenti sovrani del Galles si erano definiti in diversi modi, di solito in relazione ai loro possedimenti, come "Signore di Ceredigion" o "Re di Builth". I più potenti erano spesso chiamati come "Re dei Britanni". Dato che il Galles costituiva un'area geografica definita con confini generalmente accettati, anche al di fuori dei legami con l'Inghilterra, ognuno al quale veniva conferito il titolo di Principe del Galles sarebbe stato Suzerain al di sopra di ogni altro signore gallese, ma senza ambizioni territoriali sull'Inghilterra, il che implicò la liberazione dei britanni che risiedevano in luoghi che da lungo tempo erano considerati parte dell'Inghilterra, come il Devon, la Cornovaglia, il Cumberland ed altri luoghi ancora.
La famiglia Aberffraw pretese per un lungo periodo la supermazia sugli altri signori gallesi, inclusi i sovrani di Powys e Deheubarth.[5][6] Nella Storia di Gruffydd ap Cynan, scritta nel tardo XII secolo, la famiglia asserì i propri diritti in quanto linea senior di discendenza da Rhodri il Grande, che tra il 820 e il 870 aveva governato su gran parte del Galles, e i cui figli giunsero al potere a Gwynedd, Deheubarth e Powys.[5][7] La biografia di Gruffydd ap Cynan fu scritta prima in latino ed era stata pensata per un pubblico più ampio fuori dal Galles.[5] Il motivo di questa pretesa era che la famiglia Aberffraw non doveva nulla ai re inglesi per la propria posizione nel Galles, e detenevano autorità nel Galles "per diritto assoluto tramite discendenza", scrisse lo storico John Davies.[5]

Prima del 1284: il Casato degli Aberffraw

Il Principato del Galles fu creato nel 1216 al Consiglio di Aberdyfi, quando fu convenuto tra Llywelyn il Grande e gli altri principi sovrani gallesi che egli sarebbe stato il leader supremo tra di loro, e che essi avrebbero dovuto rendergli omaggio. In seguito egli ottenne il riconoscimento di questo accordo, almeno in parte, da parte del Re d'Inghilterra, che acconsentì a che gli eredi di Llywelyn potessero portare il titolo di "Principe del Galles", ma con certe limitazioni al suo regno e con altre condizioni, incluso l'omaggio al Re d'Inghilterra come vassallo, e l'aderenza alle regole che riguardavano la successione legittima. Llywelyn si era preoccupato di garantire che i suoi eredi ed i successori seguissero il sistema ereditario "approvato" (almeno dal Papa", che escludeva i figli illegittimi. Nel seguire questa regola, escluse il suo fratello maggiore illegittimo Gruffydd ap Llywelyn dall'ereditarietà, una decisione che in seguito avrebbe avuto conseguenze. nel 1240 llywelyn morì ed Enrico III d'Inghilterra, che successe a Giovanni, invase subito grandi parti del suo ex regno, usurpandole. Tuttavia, le due parti giunsero alla pace ed Enrico onorò almeno parte dell'accordo, conferendo a Dafydd ap Llywelyn il titolo di "Principe del Galles". Il titolo sarebbe stato poi passato al successore Llywelyn nel 1267 (dopo che egli ebbe combattuto per ottenerlo), e fu in seguito contestato dal fratello Dafydd e da altri membri del Casato di Aberffraw.

I prìncipi Aberffraw

La numerazione tradizionale dei Principi del Galles (secondo fonti gallesi) inizia con Owain Gwynedd che governò dal 1137 al 1170. Non fu mai riconosciuto come Principe del Galles, e infatti non utilizzò mai quel titolo; tuttavia, dai cronisti storici, fu considerato il primo Principe gallese del Galles unito. Ciò fu dimostrato quando Owain Glyndŵr fu incoronato esplicitamente come Owain IV del Galles nel 1404.[8] Gli inglesi la pensavano molto diversamente e consideravano il titolo come conferito da loro stessi e con la loro benedizione esclusivamente su Dafydd ap Llywelyn nel 1240 e su Llywelyn ap Gruffudd nel 1267. Dopo il 1301 il titolo fu conferito al figlio maggiore ed erede al trono inglese.

Owain Gwynedd (1137–1170)

Owain Gwynedd riuscì a mantenere la posizione privilegiata che il padre aveva ottenuto per la propria famiglia nel Galles. Nel 1154 sconfisse una invasione inglese e di Powys, ma fu obbligato a rinunciare ad alcuni territori che confinavano con il fiume Dee. negli anni successivi riconquistò queste regioni e raggiunse una posizione dominante per Gwynedd nel Galles, che non si vedeva da secoli. Durante il regno di Owain cambiò il suo titolo da "Re di Gwynedd" a "Principe dei gallesi"[9].

Dafydd ab Owain Gwynedd (c.1170–1195)

Dafydd ab Owain Gwynedd aveva usurpato la corona dal fratello in una guerra civile sfiancante all'interno di Gwynedd. Egli sposò la sorellastra del re Enrico II d'Inghilterra nel 1174 e fu in seguito espulso nel 1195 dai suoi domini dal nipote Llywelyn.

Note

  1. ^ John Davies, A History of Wales, first, Penguin, 1994, p. 138, ISBN 0-14-014581-8.
  2. ^ J. E. Lloyd, A History of Wales: From the Norman Invasion to the Edwardian Conquest, first, Barnes and Noble, 1994, p. 199, ISBN 0-7607-5241-9.
  3. ^ Llywelyn ab Iorwerth, in Wales HistoryBBC WalesURL consultato il 15 settembre 2011.
  4. ^ a b John Davies, A History of Wales, first, Penguin, 1994, p. 148, ISBN 0-14-014581-8.
  5. ^ a b c d John Davies, A History of Wales, first, Penguin, 1994, pp. 116, 117, 128, 135, ISBN 0-14-014581-8.
  6. ^ J. E. Lloyd, A History of Wales: From the Norman Invasion to the Edwardian Conquest, first, Barnes and Noble, 1994, p. 220, ISBN 0-7607-5241-9.
  7. ^ Rhodri ereditò Gwynedd dal padre e Powys dalla madre e sposò Angharad, erede Seisyllwg (le attuali Ceredigion e Carmarthenshire).
  8. ^ Owain Glyndwr: The revolt—part two, in Wales HistoryBBC WalesURL consultato il 4 maggio 2011.
  9. ^ J. B. Smith, Owain Gwynedd, 14–16