L'Impero carolingio è l'impero retto da Carlo Magno e dai suoi discendenti, fondato tradizionalmente con l'incoronazione di Carlo Magno a imperatore romano da parte di papa Leone III la notte di Natale dell'anno 800. Alla morte di Carlo, l'Impero passò a suo figlio Ludovico il Pio, quindi venne diviso tra i suoi eredi, frammentandosi irreversibilmente. Ne nacquero in seguito la monarchia francese, il regno d'Italia (una definizione che designava un territorio dai confini non ben definiti, ancor oggi oggetto di discussione da parte di alcuni storici) e il Sacro Romano Impero. Quest'ultima denominazione, d'altronde, viene attribuita spesso anche all'Impero carolingio.
Figlio di Pipino il Breve, fondatore della dinastia dei Carolingi e di Bertrada di Laon, discendente dei Merovingi, Carlo Magno divenne re nel 768, alla morte di suo padre. Regnò inizialmente insieme con il fratello Carlomanno, la cui improvvisa morte, nel 771, in circostanze misteriose, lasciò Carlo unico sovrano del regno franco. Grazie a una serie di fortunate campagne militari (compresa la conquista del Regno longobardo), allargò il regno dei Franchi fino a comprendere una vasta parte dell'Europa occidentale. La notte di Natale dell'800 papa Leone III lo incoronò Imperatore dei Romani, fondando quello che fu definito Impero carolingio.
Con Carlo Magno si assistette quindi al superamento, nella storia dell'Europa occidentale, dell'ambiguità giuridico-formale dei regni romano-barbarici in favore di un nuovo modello di impero. Col suo governo diede impulso alla Rinascita carolingia, un periodo di risveglio culturale nell'Occidente.
Il successo di Carlo Magno nel fondare il suo Impero si spiega tenendo conto di alcuni processi storici e sociali in corso da diverso tempo: nei decenni precedenti l'ascesa di Carlo, le migrazioni dei popoli Germanici orientali e degli Slavi si erano fermate quasi del tutto; a occidente si era esaurita la forza espansionistica degli arabi grazie alle battaglie combattute da Carlo Martello; inoltre, a causa di rivalità personali e contrasti religiosi, la Spagna musulmana era divisa da lotte intestine.
L'Impero resistette fin quando fu in vita il figlio di Carlo, Ludovico il Pio; fu poi diviso fra i suoi tre eredi, ma la portata delle sue riforme e la sua valenza sacrale influenzarono radicalmente tutta la vita e la politica del continente europeo nei secoli successivi.
Nel 799 scoppiò a Roma un'insurrezione contro papa Leone III, capeggiata dai nipoti e sostenitori del defunto pontefice Adriano I. Il primicerio Pasquale e il sacellario Campolo, che già ne avevano contestato l'elezione e lo accusavano di essere assolutamente inadatto alla tiara pontificia, in quanto "uomo dissoluto", in un attentato riuscirono a catturare Leone e rinchiuderlo in un monastero, da dove fuggì rocambolescamente per rifugiarsi in San Pietro, da dove fu poi trasferito al sicuro presso il duca di Spoleto. Da qui, non si sa se di sua iniziativa o su invito di Carlo, si fece condurre presso il re, che si trovava a Paderborn, sua residenza estiva in Vestfalia[61][62]. L'accoglienza solenne tributata al papa era già un segnale della posizione che Carlo intendeva assumere nella questione romana, sebbene i due principali congiurati, Pascale e Campolo, fossero stati uomini molto vicini al compianto papa Adriano I. Gli oppositori del pontefice, intanto, gli ingiunsero di prestare un giuramento con il quale respingeva le accuse di lussuria e spergiuro; in caso contrario avrebbe dovuto lasciare il seggio pontificale e rinchiudersi in monastero. Il papa non aveva nessuna intenzione di accettare alcuna delle due ipotesi, e per il momento la questione rimase in sospeso, anche perché Carlo provvide ad inviare a Roma una commissione d'inchiesta composta da personaggi di rilievo e alti prelati. In ogni caso, quando, il 29 novembre 799, Leone rientrò a Roma, fu accolto trionfalmente dal clero e dalla popolazione[63].
L'attentato subito dal pontefice, che era comunque segno di un clima di inquietudine a Roma, non poteva però essere lasciato impunito (Carlo era pur sempre investito del titolo di “Patricius Romanorum”), e nella riunione annuale tenuta nell'agosto dell'800 a Magonza con i grandi del regno comunicò la sua intenzione di scendere in Italia. E poiché oltre al problema romano doveva ricondurre all'ordine anche un tentativo autonomista del ducato di Benevento, scese in armi, accompagnato dal figlio Pipino, che si occupò del ducato ribelle, mentre Carlo puntava a Roma[64].
Il re franco entrò in città il 24 novembre dell'800, accolto con uno sfarzoso cerimoniale e con grandi onori dalle autorità e dal popolo[65]. Ufficialmente la sua venuta a Roma aveva lo scopo di dipanare la questione tra papa Leone e gli eredi di papa Adriano I. Le accuse (e le prove che ci si affrettò a distruggere) si rivelarono presto difficili da confutare, e Carlo si trovò in estremo imbarazzo, ma non poteva certo lasciare che si diffamasse e si mettesse in discussione il capo della cristianità. Il 1º dicembre il re franco, invocando il suo ruolo di protettore della Chiesa di Roma, costituita un'assemblea composta da nobili e vescovi d'Italia e delle Gallie (una via di mezzo tra un tribunale e un concilio) aprì i lavori dell'assemblea che doveva pronunciarsi sulle accuse rivolte contro il papa. Basandosi su principi (erroneamente) attribuiti a papa Simmaco (inizio del VI secolo) il concilio sentenziò che il papa era la massima autorità in materia di morale cristiana, così come di fede, e che nessuno poteva giudicarlo se non Dio. Leone si dichiarò disposto a giurare la propria innocenza sul Vangelo, soluzione a cui l'assemblea, ben conoscendo la posizione di Carlo che si era schierato da tempo dalla parte del pontefice, si guardò bene dall'opporsi. Gli “Annali” di Lorsch riferiscono che dunque il papa fu “pregato” dal re di prestare il giuramento a cui si era impegnato. Occorsero tre settimane per mettere a punto il testo del giuramento, che il 23 dicembre Leone prestò solennemente nella basilica di San Pietro, di fronte all'assemblea di nobili e alti prelati, venendo dunque confermato legittimo rappresentante del soglio pontificio[66][67]. Pascale e Campolo, già preventivamente arrestati dai messi di Carlo un anno prima, non erano stati in grado di provare le accuse mosse al papa, e vennero condannati a morte, insieme a numerosi loro seguaci (pena in seguito commutata nell'esilio).
L'incoronazione a imperatore
Nel 797 il trono dell'Impero bizantino, di fatto unico e legittimo discendente dell'Impero romano, venne usurpato da Irene d'Atene, che si proclamò basilissa dei Romei (imperatrice dei Romani). Il fatto che il trono "romano" fosse occupato da una donna spinse il papa a considerare il trono "romano" vacante. Nel corso della messa di Natale del 25 dicembre 800, nellabasilica di San Pietro, Carlo Magno fu da papa Leone III incoronato imperatore, titolo mai più usato in Occidente dopo la destituzione di Romolo Augusto nel 476[68]. Durante la cerimonia,papa Leone III unse il capo a Carlo, richiamando la tradizione dei re biblici. il giorno di Natale dell'anno 800. La nascita di un nuovo Impero d'Occidente non fu ben accolta dall'Impero d'Oriente che tuttavia non aveva i mezzi per intervenire. L'imperatrice Irene dovette assistere impotente a ciò che stava avvenendo a Roma; ella si rifiutò sempre di accettare il titolo di imperatore a Carlo Magno, considerando l'incoronazione di Carlo Magno ad opera del papa un atto di usurpazione di potere.
La “Vita Karoli” di Eginardo afferma che Carlo fu assai scontento dell'incoronazione[69] e non intendeva assumere il titolo di Imperatore dei Romani per non entrare in contrasto con l'Impero romano d'Oriente, il cui sovrano deteneva il legittimo titolo di Imperatore dei Romani e dunque per nessun motivo i Bizantini avrebbero riconosciuto ad un sovrano franco il titolo di Imperatore. Sulla questione autorevoli studiosi, (in primis Federico Chabod), hanno ricostruito la vicenda dimostrando come la versione di Eginardo rispondesse a precise esigenze di ordine politico, ben successive all'accaduto, e come essa fosse stata costruita ad arte per le esigenze che s'erano venute affermando. L'opera del biografo di Carlo fu infatti redatta fra l'814 e l'830, notevolmente in ritardo rispetto alle contestate modalità dell'incoronazione. Inizialmente le cronache coeve concordavano sul fatto che Carlo fosse tutt'altro che sorpreso e contrario alla cerimonia. Sia gli “Annales regni Francorum”[70], sia il “Liber Pontificalis” riportano la cerimonia, parlando apertamente di festa, massimo consenso popolare ed evidente cordialità fra Carlo e Leone III, con ricchi doni portati dal sovrano franco alla Chiesa romana. Solo più tardi, verso l'811, nel tentativo di attenuare l'irritazione bizantina per il titolo imperiale concesso (che Costantinopoli giudicava usurpazione inaccettabile), i testi franchi (gli “Annales Maximiani”[71]) introdussero quell'elemento di "rivisitazione del passato" che fece parlare della sorpresa e dell'irritazione di Carlo per una cerimonia d'incoronazione cui egli non aveva dato alcun'autorizzazione preventiva al papa che a ciò l'aveva indirettamente forzato. L'acclamazione popolare (elemento non presente su tutte le fonti e forse spurio) sottolineò comunque l'antico diritto formale del popolo romano di eleggere l'imperatore. La cosa irritò non poco la nobiltà franca, che vide il "popolus Romanus" prevaricare le proprie prerogative, acclamando Carlo come "Carlo Augusto, grande e pacifico Imperatore dei Romani". Non è poi da escludere che la riferita irritazione di Carlo fosse dovuta al fatto che avrebbe preferito auto-incoronarsi, perché l'incoronazione da parte del papa rappresentava simbolicamente la subordinazione del potere imperiale a quello spirituale.
In ogni caso, dalle fonti non si ricava alcun tipo di accordo preventivo tra il papa ed il re franco, e d'altra parte è però impossibile che Carlo fosse stato colto alla sprovvista da un'iniziativa papale di tal genere e che il cerimoniale e le acclamazioni del popolo romano fossero state improvvisate sul momento. Le stesse fonti non fanno alcun accenno alle precedenti intenzioni di Carlo di farsi incoronare imperatore (se non quelle redatte “a posteriori”, che dunque da questo punto di vista non possono essere attendibili), ma del resto non spiegano come mai alla cerimonia Carlo si fosse presentato con abiti imperiali.
Appare dunque decisamente improbabile e fantasiosa la versione fornita dal “Liber Pontificalis”, secondo la quale il papa avrebbe improvvisato la sua iniziativa, il popolo sarebbe stato ispirato da Dio nell'acclamazione unanime e corale, e Carlo sarebbe rimasto sorpreso di quanto accadeva. E non è molto credibile neanche la versione fornita, in sostanziale accordo con quella del “Liber Pontificalis”, da Eginardo, che riferisce del re contrariato dall'improvviso gesto del pontefice. Tuttora non è chiara la paternità dell'iniziativa (e il problema non appare risolvibile), i cui particolari potrebbero però verosimilmente essere stati definiti durante i colloqui riservati a Paderborn e forse anche dietro suggerimento di Alcuino: l'incoronazione poteva infatti essere il prezzo che il papa doveva pagare a Carlo per l'assoluzione dalle accuse che gli erano state rivolte. Secondo un'altra interpretazione (P. Brezzi), la paternità della proposta sarebbe da attribuire ad un'assemblea delle autorità romane, che fu comunque accolta (ma pare senza molto entusiasmo) sia da Carlo che dal papa; in tal caso il pontefice sarebbe stato l'”esecutore” della volontà del popolo romano di cui era il vescovo. Occorre però precisare in proposito che le uniche fonti storiche sui fatti di quei giorni sono di estrazione franca ed ecclesiastica, e per ovvi motivi tendono entrambe a limitare o falsare l'interferenza del popolo romano nell'avvenimento[72]. È certo tuttavia che con l'atto d'incoronazione la Chiesa di Roma si presentava come l'unica autorità capace di legittimare il potere civile attribuendogli una funzione sacrale, ma è altrettanto vero che, di conseguenza, la posizione dell'imperatore diventava di guida anche negli affari interni della Chiesa, con un rafforzamento del ruolo teocratico del suo governo[73]. E comunque bisogna riconoscere che con quel solo gesto Leone, per il resto figura non particolarmente eccelsa, legò indissolubilmente i Franchi a Roma, spezzò il legame con l'impero bizantino che non era più l'unico erede dell'Impero romano, esaudì forse le aspirazioni del popolo romano e stabilì il precedente storico dell'assoluta supremazia del papa sui poteri terreni[74].
Impero
Rapporti con Costantinopoli
La basilissa Irene d'Atene
I rapporti con l'impero bizantino furono saltuari. Benché quest'ultimo stesse attraversando un periodo di crisi, era pur sempre la più antica istituzione politica europea, ed è importante rilevare come Carlo si presentasse all'imperatore come un suo pari, con il quale doveva ormai trattare nella spartizione del mondo. Come re d'Italia Carlo era di fatto confinante con i possedimenti bizantini nel meridione, e la concessione a papa Adriano I dei territori dell'Italia centrale gli consentì di frapporre, tra il suo e quello bizantino, una sorta di stato cuscinetto che poteva impedire rapporti troppo stretti. L'imperatrice Irene arrivò comunque a proporre un matrimonio tra suo figlio, il futuro imperatore Costantino VI, e Rotrude, figlia di Carlo. Il progetto non dispiaceva a nessuno: all'imperatrice Irene, che aveva bisogno di un potente alleato in Occidente per contrastare alcuni seri problemi in Sicilia, dove la sua autorità era stata messa in discussione da una ribellione; a Carlo che avrebbe ottenuto un riconoscimento, in quanto re d'Italia, di successore del Regno longobardo (che i bizantini consideravano comunque parte dell'Impero romano); e al papa, che in questa alleanza poteva intravedere la fine delle tensioni con i bizantini, non solo politiche e territoriali, ma anche riguardo all'annosa disputa teologica delle immagini. Ma del progetto non se ne fece nulla[75], anche perché i rapporti peggiorarono a causa della svolta data da Irene alla controversia iconoclasta, che fu definita dal Secondo Concilio di Nicea con la reintroduzione del culto delle immagini: Carlo accolse con malumore tale decisione, soprattutto perché una questione teologica di tale importanza fu risolta senza informare i vescovi franchi (che infatti non erano stati invitati al concilio). In opposizione al papa, Carlo respinse le conclusioni del Concilio di Nicea e fece redigere i “Libri Carolini”, con i quali si immischiava nella disputa teologica delle immagini, e che avrebbero dovuto portare a una revisione del problema in maniera diversa dai punti di vista di Costantinopoli o di Roma: distruggere le icone era sbagliato, ma lo era anche imporne la venerazione[76].
L'incoronazione di Carlo quale imperatore fu comunque un atto che fece irritare Costantinopoli, che accolse la notizia con derisione e disprezzo; la maggiore preoccupazione era l'incognita costituita dal sorgere di una nuova potenza che si poneva allo stesso livello dell'impero d'Oriente. Dopo l'incoronazione, infatti, l'imperatrice Irene si affrettò ad inviare un'ambasceria per saggiare le intenzioni di Carlo, che a sua volta restituì molto presto la visita di suoi rappresentanti a Costantinopoli. Carlo tentò in ogni modo di mitigare le ire bizantine, con l'invio di successive ambascerie già nell'802, ma non ebbero esiti particolarmente favorevoli, per la freddezza con cui i notabili bizantini le accolsero e anche a causa della deposizione, nello stesso anno, dell'imperatrice Irene a seguito di una congiura di palazzo, che pose sul trono Niceforo, piuttosto cauto ad intraprendere rapporti troppo stretti con l'occidente franco[77], ma deciso a continuare sulla linea della deposta imperatrice. Si avviò una lunga serie di vane scaramucce, una delle quali, piuttosto seria, riguardò Venezia e il litorale dalmata.
Il basileus Niceforo I
A causa di forti tensioni fra le due città, nell'803 Venezia aveva sferrato un attacco contro Grado, causando la morte del patriarca. Il successore, Fortunato, fu nominato arcivescovo da papa Leone III, assumendo dunque il controllo sulle sedi vescovili istriane, autorità però non riconosciuta da Costantinopoli. Consapevole della fragilità della sua posizione, Fortunato cercò la protezione di Carlo, che non esitò a fornire il suo appoggio, anche per la posizione strategica di Grado, tra l'impero bizantino e Venezia sua alleata[78]. Nel giro di un paio di anni la situazione politica di Venezia mutò radicalmente, schierandosi dalla parte dell'imperatore occidentale e intervenendo militarmente sulle isole dalmate, già sotto il controllo bizantino: la città e la Dalmazia passarono dunque, di fatto, sotto il controllo dell'impero franco (che venne rafforzato negli anni immediatamente seguenti), prima che Costantinopoli potesse in qualche modo intervenire[79]. Quando l'imperatore Niceforo reagì, nell'806, inviando una flotta a riprendersi la Dalmazia e a bloccare Venezia, il governo di quest'ultima, che aveva forti interessi commerciali con l'Oriente, fece un nuovo voltafaccia, e si schierò ancora con Costantinopoli[80]. Consapevole della superiorità bizantina in mare, e della mancanza di una vera flotta, fu Pipinoa dover firmare un armistizio con il comandante della flotta di Costantinopoli[81], ma nell'810 il re d'Italia sferrò un nuovo attacco e conquistò Venezia, consentendo al patriarca Fortunato di riprendersi la sede di Grado[82]. La situazione si normalizzò con un primo trattato dell'811 (morto da poco Pipino) e poi nell'812 (morto anche Niceforo), con un accordo in base al quale Costantinopoli riconosceva l'autorità imperiale di Carlo che, da parte sua, rinunciava al possesso del litorale veneto, all'Istria e alla Dalmazia[83][84].
Rapporti con l'Islam
Nella sua qualità di Imperatore, Carlo intrattenne rapporti paritari con tutti i sovrani europei ed orientali.
Nonostante le sue mire espansionistiche nella marca spagnola, e il conseguente appoggio ai governatori rivoltatisi al giogo dell'emirato di Cordova di al-Andalus, tessé una serie di importanti relazioni con il mondo musulmano. Corrispose addirittura con il lontano califfo di Baghdad Hārūn al-Rashīd: le missioni diplomatiche dall'una e dall'altra parte furono agevolate da un intermediario ebreo, Isacco, che, come traduttore per conto dei due inviati, Landfried e Sigismondo, nonché per la sua "terzietà", ben si prestava allo scopo[85]. I due sovrani si scambiarono così numerosi doni, il più famoso e celebrato dei quali era l'elefante, di nome Abul-Abbas, donatogli (forse dietro sua stessa richiesta[86]) dallo stesso califfo abbaside[87]. Carlo lo considerava come un ospite straordinario, da trattare con tutti i riguardi: lo faceva tenere pulito, gli dava personalmente da mangiare e gli parlava. Probabilmente il freddo clima di Aquisgrana in cui il pachiderma era costretto a vivere lo fece deperire fino a condurlo alla morte per congestione. L'Imperatore ne pianse, ordinando tre giorni di lutto in tutto il regno. Gli annalisti riferiscono di un altro dono “meraviglioso”, di qualche anno più tardi: un orologio in ottone la cui tecnologia, perfetta per l'epoca (e certamente molto più avanzata di quella occidentale), destò la più grande ammirazione nei contemporanei[88].
I buoni rapporti con il califfo Hārūn al-Rashid miravano però anche ad ottenere una sorta di protettorato su Gerusalemme e i “luoghi santi”, ed erano comunque necessari per i Cristiani della Terra santa che vivevano sotto la dominazione musulmana e avevano frequenti contrasti con le tribù beduine. In effetti il biografo di Carlo Eginardo riferisce che Hārūn al-Rashīd, che vedeva in lui un possibile antagonista dei suoi nemici Omayyadi di al-Andaluse di Costantinopoli, esaudì i desideri dell'imperatore e donò simbolicamente a Carlo il terreno su cui sorgeva il Santo Sepolcro a Gerusalemme, riconoscendolo protettore della Terra santa e sottoponendo quei luoghi al suo potere, ma sembra improbabile si sia trattato di qualcosa di più di gesti simbolici. Per Carlo era sufficiente: il ruolo di protettore del Santo Sepolcro accrebbe la sua fama di difensore della cristianità a scapito dell'imperatore d'Oriente Niceforo, nemico del califfo[89][90].
Scontri con i Normanni
Nell'808 fu affidata a Carlo il Giovane una spedizione contro re Goffredo di Danimarca, che aveva tentato di sconfinare in Sassonia ottenendo anche qualche buon risultato. La spedizione si risolse in un insuccesso, sia per le pesanti perdite subite dai Franchi, sia perché Goffredo nel frattempo si era ritirato, fortificando il confine.
Dopo due anni si verificò una vera e propria invasione di Normanni, che occuparono le coste della Frisia con 200 navi. Carlo diede immediatamente ordine di costruire una flotta e di radunare un esercito che volle guidare personalmente, ma prima che potesse intervenire gli invasori, che probabilmente si rendevano conto di non poter sottomettere stabilmente quella regione, si ritirarono nello Jutland.
La successiva eliminazione violenta di Goffredo in seguito ad una congiura di palazzo pose comunque momentaneamente termine alle scorrerie normanne in quell'area, finché nell'811 si giunse ad un accordo di pace col nuovo re danese Hemming, figlio di Goffredo[91][92].
Politica interna, istituzioni e governo dell'impero
Carlo aveva unificato quasi tutto quello che restava del mondo civilizzato accanto ai grandi imperi arabo e bizantino ed ai possedimenti della Chiesa, con l'esclusione delle isole britanniche, dell'Italia meridionale e di pochi altri territori. Il suo potere era legittimato sia dalla volontà divina, grazie alla consacrazione con l'olio santo, sia dal consenso dei Franchi, espresso dall'assemblea dei grandi del regno senza cui, almeno formalmente, non avrebbe potuto introdurre nuove leggi[93].
Dopo essersi garantito la sicurezza dei confini, procedette alla riorganizzazione dell'Impero, estendendo ai territori da lui annessi il sistema di governo già in uso nel regno franco, nel tentativo di costruire un'entità politica omogenea. In realtà fin dai primi tempi del suo regno Carlo si era posto l'obiettivo di trasformare una società semibarbara come quella dei Franchi in una comunità regolata dal diritto e dalle regole della fede, sul modello non solo dei re giudaici dell'Antico Testamento, quanto piuttosto su quello degli imperatori romani cristiani (Costantino in testa) e su quello di Agostino, ma il progetto non si concretizzò come Carlo avrebbe voluto.
Il governo centrale
- L'istituzione fondamentale dello stato carolingio era l'Imperatore stesso, poiché Carlo Magno era sommo amministratore e legislatore che, governando il popolo cristiano per conto di Dio, poteva avere diritto di vita o di morte su tutti i sudditi a lui sottoposti. Tutti erano sottoposti alla sua inappellabile volontà, fossero anche notabili di rango elevato come Conti, Vescovi, Abati e Vassalli Regi. Nel corso dei suoi spostamenti l'imperatore Carlo Magno era solito indire importanti riunioni denominate placita nel corso delle quali amministrava direttamente la giustizia giudicando le cause che gli venivano sottoposte. In base ai casi che gli venivano sottoposti poteva optare per promulgare nuove leggi che andavano poi raccolte nei capitularia.[2]
Il governo centrale era costituito dal palatium. Sotto questa denominazione si designava il consiglio dei ministri alle sue dipendenze. Organo puramente consultivo, era costituito da rappresentanti laici ed ecclesiastici che aiutavano il sovrano nell'amministrazione centrale.
I componenti principali erano:
- L'Arcicappellano o ministro di culto: era il secondo grado per ordine di importanza in tutto il regno franco, immediatamente dopo l'Imperatore. Da lui dipendevano tutti i chierici operanti nella cappella palatina di Aquisgrana ed inoltre era responsabile della scuola palatina e della cancelleria (composta dal cancelliere-delegato ed uno staff di archivisti) i quali redigevano i diplomi, trascrivevano i capitolari e tenevano la corrispondenza. Il potere dell'Arcicappellano era considerevole: disponeva delle nomine dei chierici e quando voleva assurgere qualcuno al grado di Vescovo o Abate, instradava personalmente la richiesta al Papa. Per il ministro di culto, lo stesso Carlo Magno impose al pontefice la nomina ad arcivescovo della cappella imperiale (quindi senza una connotazione geografica precisa, essendo non residente in un arcivescovato) tenendo a sottolinearne l'esclusività.
- Il Conte palatino: amministrava la giustizia per conto dell'Imperatore. A lui venivano sottoposti quei casi che nella legislazione carolingia, costituivano i cosiddetti appelli, giudicando i più semplici ed istradando al sovrano quelli che richiedessero una sua personale deliberazione. Ricopriva anche una carica simile a quella del Ministero dell'interno.
- Il Camerario: copriva le tre cariche di ministro degli esteri, del tesoro e dell'economia.
- Il coppiere: Principalmente un intendente. Era il responsabile delle cantine palatine e per estensione, gerente e amministratore dei beni mobili e immobili di quelle aziende vinicole presenti su terre fiscali, facenti capo direttamente all'Imperatore.
- Il siniscalco: Altro intendente responsabile degli approvvigionamenti alimentari nei magazzini e nelle cucine regie e per estensione; gerente e amministratore dei beni mobili ed immobili delle aziende agricole sulle terre fiscali dipendenti del sovrano.
- Il conestabile: responsabile delle scuderie regie e per estensione comandante della cavalleria nell'esercito imperiale.
I missi dominici
Particolare importanza avevano i cosiddetti missi dominici, funzionari itineranti il cui scopo era prevenire la polverizzazione e la deriva dell'autorità nel vasto territorio imperiale. Essi si spostavano da una contea all'altra controllando i conti e i margravi. In epoca più tarda i missi dominici cominciarono ad essere scelti in loco perdendo la caratteristica della mobilità.[3].
Il demanio pubblico
I possedimenti fiscali
Al tempo di Carlo Magno, per Fisco, intendiamo le entrate e i possedimenti dell'Imperatore. I cosiddetti possedimenti fiscali, che già facevano parte del patrimonio personale dei Pipinidi, vennero accresciuti durante le campagne militari dell'Imperatore, mediante le confische effettuate ai danni dei precedenti capi politici e militari.
Carlo Magno possedeva direttamente qualcosa come 2000 unità produttive, chiamate ville, organizzate con il sistema curtense. Questo sta a significare che, in tutto l'impero, non meno di mezzo milione di persone lavoravano alle dirette dipendenze del sovrano, senza alcuna intermediazione.
L'organizzazione e la dislocazione di queste aziende aveva carattere notevolmente dispersivo. Alcune di esse erano vicine tra loro, nelle aree più visitate da Carlo Magno, mentre altre erano disseminate nelle zone di frontiera. È stato calcolato che solo in Neustria, regione situata fra l'Aquitania ed il canale della Manica, l'imperatore fosse possessore di circa 400 ville. Altre ville, invece, erano dislocate nel resto dell'impero e disposte in modo tale che, in un ipotetico viaggio a tappe, Carlo Magno, nei suoi spostamenti, potesse dormire direttamente in casa propria, o tuttalpiù ospitato da qualche vescovo o da qualche abate.
Le ville però, essendo relativamente lontane una dall'altra, non avrebbero mai potuto ospitare tutte permanentemente l'Imperatore. Carlo Magno aveva quindi posto precise disposizioni su come utilizzare le eccedenze produttive di quei possedimenti sui quali la corte regia non passava. Alcune quote dovevano essere instradate al mantenimento della corte, qualora l'azienda venisse a trovarsi nelle vicinanze della residenza imperiale, mentre altre costituivano gli approvvigionamenti che dovevano essere inviati all'esercito durante le campagne estive. Infine, altre ancora, dovevano essere vendute e il ricavato trasmesso direttamente a palazzo. L'imperatore, insomma, decise di diversificare la produzione delle sue aziende e di stabilire a priori la loro destinazione d'uso. L'applicazione delle disposizioni imperiali per l'amministrazione dei possedimenti fiscali era affidata a dei gerenti che,in una certa misura, potevano agire con indipendenza e intraprendenza nella gestione delle ville. Il gerente, ager, intendente responsabile della amministrazione e della contabilità di una o più ville, era poi coadiuvato nel suo compito da un capo sorvegliante, maior, presente in ogni villa, che regolava e controllava i lavori dei contadini e degli addetti.
I possedimenti ecclesiastici
I possedimenti ecclesiastici equiparati a quelli fiscali
Non meno imponenti erano i possedimenti ecclesiastici: l'impero era suddiviso in più di 200 vescovati e 600 abazie che erano possessori a loro volta di patrimoni immensi, per esempio l'abazia di Saint-Germain-des-Prés possedeva all'incirca 200 ville e dava lavoro a circa 15.000 contadini.
Sui possedimenti ecclesiastici vigeva l'immunità, perché i funzionari pubblici non potevano esercitare la legislazione laica sul territorio, come avveniva al tempo di Pipino il Breve e Carlo Martello. Carlo Magno considerò i beni ecclesiastici come dei possedimenti pubblici di diversa natura: abati e vescovi, essendo uomini del Re, dovevano mettere a disposizione della corona le loro entrate, quando le necessità lo richiedevano. Spesso gli amministratori delle proprietà ecclesiastiche dovevano aiutare i gerenti delle aziende fiscali al mantenimento del Re quando era residente nella zona, inoltre dovevano versare annualmente dei contributi che pudicamente venivano chiamati dona, ma che in realtà erano imposti direttamente dal sovrano per sostenere le campagne militari dell'esercito.
A livello amministrativo, i contadini liberti o coloni-affittuari che coltivavano i mansi sulle terre della chiesa, oltre che a pagare un canone annuo in natura ai monaci o ai vescovi, dovevano corrispondere il censo regale per il sovrano come se si fossero trovati sulle terre fiscali. I liberti o gli schiavi, come aggiunta al censo, dovevano pagare una tassa personale come riconoscimento del loro statuto giuridico.
Teoricamente, non tutte le abbazie era considerate come un bene demaniale. Rientravano sotto questa categoria quelle personalmente fondate dal Re, quelle accresciute con donativi di terre fiscali e quelle che si erano accomandate. Le altre, specialmente fondate da privati, non erano tenute né ai contributi né al pagamento delle tasse.
Uso dei possedimenti ecclesiastici come remunerazione
Spesso i possedimenti ecclesiastici venivano affidati a notabili laici (conti o marchesi) come elemento suppletivo per espletare e autofinanziarsi i compiti che dovevano corrispondere al sovrano. Queste donazioni venivano chiamate nel linguaggio di allora Precariae Verbo Regis, dove Precaria stava a significare la richiesta o la supplica che veniva fatta dal conte per ottenere il possesso del bene e Verbo Regis la concessione da parte del sovrano.
Molte volte, queste alterazioni del demanio trovavano l'aperta avversione da parte delle cariche ecclesiastiche. I possessori, infatti, avevano la tendenza a sfruttarle fino all'osso, gravando di dazie di corvée i contadini, arrivando addirittura a vendere le suppellettili e la mobilia di chiese e monasteri per poi reinvestire i guadagni negli affari privati. Lo stesso Carlo Magno, nel suo Capitulare de villis, dovette specificare a più riprese di non appesantire gli asserviti con interminabili giornate lavorative, di esigere i telonei per le merci adibite al commercio e non quelle che venivano trasportate dai campi alla residenza padronale, "di non esigere il teloneo per attraversare un ponte quando il fiume può essere guadato senza difficoltà", di non "far pagare il teloneo in aperta campagna dove non ci sono né ponti né guadi". Gli stessi chierici arrivarono ad appellarsi direttamente all'Imperatore affermando: "che il Re abbia i suoi possedimenti pubblici per il demanio e che la chiesa abbia i suoi possedimenti per Cristo, che servano ad aiutare i poveri e a consolare le vedove" e ancora: "gli uomini di chiesa sono direttamente dipendenti dal Signore e non devono usare di accomandarsi a qualcuno come fanno i laici". Carlo Magno pretese di conseguenza che i notabili laici, concessori di queste terre, almeno pagassero l'affitto ai monaci come era stato convenuto.
Un'altra destinazione d'uso dei possedimenti della chiesa era quella di concedere questi beni ai ministri o ai chierici che servivano l'Imperatore alla corte di Aquisgrana, per poter assicurarsene la fedeltà anche in futuro. Molto spesso, molti di questi ministri, chiamati "abati-laici" anche se in realtà alcuni erano chierici, non erano obbligati a prendere i voti religiosi e nemmeno avevano l'obbligo della residenza, così che potessero rimanere a sbrigare il loro compito presso la corte. Ad esempio, molti intellettuali di Carlo Magno erano grandi possessori di fondi ecclesiastici: Alcuino, oltre ad essere arcicappellano, era anche abate del monastero di Tours; Teodulfo, poeta di corte e messo dominico, fu nominato anche vescovo di Orléans e Paolo Diacono, storico, poeta e grammatico di Latino presso il palazzo reale, venne nominato abate di Montecassino. Nella generazione immediatamente successiva, lo stesso biografo e storico di palazzo Eginardo fu nominato abate di Seligenstadt.
Alcune mentalità più moderne e sensibili cominciarono a contestare l'uso di disporre dei fondi ecclesiastici come un secondo demanio, ma all'epoca di Carlo Magno queste consuetudini erano parte integrante dell'azione di governo.
Imposte, tasse e prestazioni d'opera
La società carolingia era suddivisa in classi e aveva caratteristiche fortemente clientelari di modo che ogni uomo dipendesse da un altro, dal quale, in cambio di favori, otteneva protezione e remunerazione. Tutte queste prerogative si riproponevano a cascata sino al più basso gradino sociale che era quello degli schiavi. Possiamo suddividere allora la società in due grandi rami: quello dei liberi e quello dei servi.
Re-Imperatore, Conti, Marchesi, Vescovi, Abati, Vassalli Regi e Valvassini costituivano la cosiddetta casta nobiliare; gli altri - Valvassori, Proprietari Terrieri, Uomini Liberi, Coloni, Liberti, Schiavi Casati e Servi - costituivano ilpopolo. Formalmente la libertà completa si fermava a livello degli uomini liberi mentre tutti gli altri venivano accomunati alla medesima condizione servile. Le classe più abbienti, beneficiarie di vasti possedimenti, erano esenti dal pagare qualsiasi tipo di imposta o tassa.
Sui liberi che, nelle aspettative di Carlo Magno, costituivano la spina dorsale del popolo franco, non pesavano delle vere e proprie "imposte" (ad esempio non pagavano alcun censo) ma erano tenuti a prestare opere di pubblica utilità sulle terre padronali, pagavano una specie di tassa per l'esercito, versavano i telonei ed erano tenuti a prestare contributi per il buon funzionamento del governo. Qualsiasi notabile o giudice nell'esercizio pieno delle sue funzioni (conte, vicario, centenario o vassallo regio) poteva requisire approvvigionamenti e cavalli sulle terre dei liberi. L'esercito di passaggio poteva requisire foraggio ed usare i terreni per far pascolare le cavalcature; in aggiunta i proprietari non soggetti ad alcun vassallaggio dovevano rifornire l'armata provvedendo all'allestimento dei carri con generi alimentari di prima necessità ed alla fornitura di buoi e cavalli.
Tutti gli altri, fossero essi liberi affittuari o liberti, servi o casati obbligati a lavorare sulle terre del padrone, erano tenuti a corrispondere un affitto in natura o denaro, le cui proporzioni erano nell'ordine del terzo del raccolto o dell'equivalente monetario, oltre che al censo regale. Erano inoltre tenuti a svolgere per contratto una serie di giornate lavorative nella zona padronale, la pars dominica, insieme agli schiavi. Pagavano i telonei per utilizzare le attrezzature del signore (mulini, frantoi).
Reclutamento militare
Il reclutamento avveniva essenzialmente alla frontiera, nella zona di immediato svolgimento delle operazioni militari. Solo nelle campagne contro i Sassoni e gli Avari si verificò una chiamata simultanea in più regioni dell'Impero.
I notabili più abbienti potevano permettersi armi e cavalli, nonché di convocare i vassalli diretti all'esercito. Anche i vassalli regi, nominati dall'Imperatore e che usavano circondarsi di piccoli eserciti privati, potevano senza alcuno dubbio espletare al servizio militare. A tutti costoro, compresi vescovi e abati, veniva calcolata una quota minima di soldati da portare al fronte, secondo il numero di unità di mansi coltivati divisa per quattro. Gli ecclesiastici potevano affiancare gli eserciti, ma spessissime volte ne erano esentati, pagando una tassa e nominando deilaici che potessero combattere al loro posto. Si poteva verificare che alcuni servi o liberti potessero avere l'onore di entrare nella clientela armata di un signorotto locale, quindi la chiamata alle armi non era strettamente connessa alla proprietà terriera. Perciò Carlo Magno emanò precise disposizioni secondo le quali "qualsiasi individuo abbia rapporti di vassallaggio, indipendentemente dalla sua condizione giuridica, sia considerato abile all'esercizio delle armi".
I liberi avevano parecchie difficoltà a rispondere alla chiamata. Se i più ricchi allodiali, con qualche sforzo, riuscivano ad acquistare l'equipaggiamento necessario, i piccoli proprietari dovevano compiere sforzi considerevoli. Anche qui, i capitolari regi stabilivano minuziosamente come si doveva operare in questi casi: se un libero non riusciva a procurarsi l'armamento, altri tre dovevano provvedere al suo sostentamento. Il numero degli aiuti variava a secondo della campagna militare: durante la guerra contro gli avari, per ogni libero sei dovevano comprargli l'equipaggiamento, mentre per quella contro i Sassoni essi dovevano essere sette. Per le operazioni contro gli slavi ne bastavano solamente due.
Anche l'armamento era regolato secondo precisi criteri: i più abbienti dovevano accorrere alla chiamata armati di spada lunga, spada corta, lancia, arco e faretra con frecce più un'armatura costituita da una cotta di maglia e dalla cavalcatura. I liberi proprietari indipendenti potevano permettersi (unendo i loro sforzi) l'armatura e la cavalcatura. Si scoraggiavano ifanti più poveri a rispondere alla convocazione armati di solo bastoni indirizzandoli ed incoraggiandoli a costituire il loro equipaggiamento unicamente di arco con frecce.
Economia
Il mondo di allora era fortemente spopolato (stime parlano di circa 20 milioni di abitanti nell'area europea di un milione e mezzo di chilometri quadrati), con le città maggiori quali Parigi, Orléans o Pavia, che non superavano i 5.000 abitanti. In questo contesto la circolazione di merci e di persone era scarsa, la moneta rara e di bassa qualità.
Mentre l'impero romano d'Occidente aveva basato la propria economia sugli scambi commerciali, soprattutto marittimi e sulla vita urbana, gravitando verso il Mediterraneo, l'Impero carolingio aveva come base economica l'agricoltura latifondista, caratterizzata prevalentemente da una produzione di sussistenza. Le curtes erano articolate in base ad una distinzione tra la terra direttamente gestita dal proprietario fondiario attraverso manodopera servile direttamente alle sue dipendenze, la pars dominica (terra del dominus), e la terra data in concessione ai coloni, la pars massaricia. Quest'ultima era composta da piccoli poderi, detti "mansi", sufficienti al sostentamento di una famiglia, concessi in affitto a famiglie di massari liberi in cambio di un canone in denaro o in natura oppure affidati al lavoro dei servi casati. I massari pagavano al proprietario il canone e si impegnavano ad effettuare nella parte dominica un certo numero di servizi per il signore, detti corvées (richieste).
Le curtes non rappresentano territori compatti, ma risultano frammisti spesso a possessi di altri signori fondiari, indominicati o in concessione: i "villaggi" erano spesso collocati dove maggiore era la concentrazione di terre frammiste, e riunivano le abitazioni di coloni che rispondevano a diversi signori. Gli scambi erano quasi del tutto inesistenti, tuttavia viene valutato in modo piuttosto positivo il ruolo delle eccedenze della produzione fondiaria: nei villaggi o in centri più consistenti e di nuova formazione, erano frequenti piccoli mercati locali, dove lo scambio avveniva prevalentemente tramite il baratto, data la scarsità di monetazione. Perciò è indubbia la presenza di scambi spontanei, regionali: d'altra parte le rotte continentali nord-sud, vedevano commercianti musulmani che dalle sponde occupate dell'Africa proponevano beni di lusso e merci pregiate, così come i Frisoni, attivi nella regione moso-renana, e gli ebrei.
È in questo periodo grosso modo (per tutto il sec. IX) che nacquero di insediamenti più consistenti: questi erano prevalentemente collocati alla foce di corsi fluviali, presso sedi di zecche (come nella zona moso-renana), oppure presso sedi vescovili, e in generale in prossimità di nuclei più antichi di urbanizzazione romana (in particolare nelle regioni mediterranee). Soltanto oltre il secolo IX, nel X e XI l'incastellamento favorì una concentrazione territoriale che vedeva la fine della dispersione in insediamenti sparsi propri del regime curtense, e la nascita, a partire dai castelli di città vere e proprie. Inoltre, è a partire dalla tarda età carolingia che vennero applicate nuove tecniche agricole fondamentali per il futuro incremento produttivo del suolo: l'utilizzo del mulino ad acqua, il collare per buoi e cavalli posto in posizione più comoda (giogo), l'abbandono dell'aratro in legno in favore di quello in ferro, la rotazione triennale.
In sintesi, in un'ottica più ampia, è a partire dall'inizio del secolo IX, nonostante le invasioni, che inizia quel movimento che comportò un aumento della resa agricola e conseguentemente demografico, fondamentale per la rinascita dell'occidente medievale. Certamente, nel periodo carolingio, l'elemento più rilevante, rispetto al quadro desolante dei due secoli precedenti, sembra limitarsi ad una riorganizzazione della produzione agricola nella nascita della villa classica carolingia: le vie di comunicazione sono sempre prive di manutenzione, e le vie fluviali e marittime sono privilegiate.
La precarietà economica feudale e la mancanza di un forte potere centrale, fece assumere alla reggenza franca un modello di governo peripatetico. Lo stesso Carlo Magno, installava la sua corte nei vari villaggi dove alloggiava durante i suoi spostamenti nel vasto impero. Tutti gli uomini, vivendo in un'economia prevalentemente di sussistenza basata sullo scambio in natura (baratto), vivevano nella necessità di dover far affidamento sulle scorte naturali che deperivano o si esaurivano in un certo lasso di tempo il che impediva la nascita di qualsiasi forma di risparmio (tesaurizzazione). Da qui il nomadismo anche dei poteri centrali i quali; una volta esaurite le risorse dovevano spostarsi in altre zone.
Carlo viaggiava come un povero viandante su di una carrozza trainata da buoi. Dovette inoltre impiegarsi in prima persona nel commercio, diventando padrone di un verziere e di un allevamento di polli[4]. La rendita di queste attività gli permise di mantenere personalmente le sue residenze estive nel Brabante e nell'Heristal.
Nonostante ciò Carlo cercò di razionalizzare e controllare l'economia, facendo redigere per esempio inventari di beni immobili soprattutto nelle maggiori abbazie. Inoltre cercò di frenare l'ascesa dei prezzi.
Monetazione
Denaro di Carlo Magno | |
---|---|
+CARLVS (S retrogrado) REX FR, croce patente | +TOLVSA (S orizzontale), monogramma: KAROLVS. |
AR 21mm, 1,19 g, 7h, zecca di Tolosa, ca. 793-812 |
Proseguendo le riforme iniziate dal padre, Carlo, una volta sconfitti i Longobardi, liquidò il sistema monetario basato sul solido d'oro dei bizantini. Egli e il re Offa di Merciaripresero il sistema creato da Pipino e da Aethelberto II. Sapendo dell'inutilità di una moneta aurea, vista la rarefatta circolazione monetaria, Carlo (tra il 781 e il 794) estese nei suoi vasti domini un sistema monetario basato sul monometallismo argenteo: unica moneta coniata era il "denaro". Non essendo prevista la coniazione di multipli, l'uso portò all'affermazione di due unità di conto: la libbra (unità monetaria e ponderale allo stesso tempo) che valeva 20 solidi (come fu successivamente per lo scellino inglese) o 240denari (come per il penny).
Durante questo periodo la libbra ed il solido furono esclusivamente unità di conto, mentre solo il denier fu moneta reale, quindi coniata.
Carlo applicò il nuovo sistema nella maggior parte dell'Europa continentale e lo standard di Offa fu volontariamente adottato, dai Regni di Mercia e Kent, in quasi tutta l'Inghilterra.
Per oltre cento anni il denaro mantenne inalterato peso e lega, con un contenuto di metallo pregiato attorno ai due grammi circa. I primi slittamenti iniziarono nel X secolo. I primi Ottoni (961-973 e 973-983) misero ordine nel sistema consacrando lo slittamento del denaro in termini di peso e di fino: una "lira" (ossia 240 denari) passò da g 410 a g 330 di una lega argentea peggiore (da g 390 di argento fino a g 275).
Rinascita carolingia
Spesso si parla a torto di Rinascita carolingia, volendo sottolineare la fioritura che innegabilmente si ebbe durante il regno di Carlo Magno in ambito politico e culturale.
Ma il re franco, perseguì piuttosto una riforma in tutti i campi per poter "correggere" delle inclinazioni che avevano portato a un decadimento generale in tutti e due i campi. Ma quando l'Imperatore pensava alla ristrutturazione e al governo del suo regno, rivolgeva le sue attenzioni a quell'Impero Romano di cui si faceva prosecutore sia nel nome, sia nella politica.
La riforma della Chiesa si attuò tramite una serie di provvedimenti per poter elevare, sia a livello qualitativo sia a livello comportamentale, il personale ecclesiastico operante nel regno. Carlo Magno era ossessionato dall'idea che un insegnamento sbagliato dei testi sacri, non solo dal punto di vista teologico, ma anche da quello "grammaticale", avrebbe portato alla perdizione dell'anima poiché se nell'opera di copiatura o trascrizione di un testo sacro si fosse inserito un errore grammaticale, si sarebbe pregato in modo non consono, dispiacendo così a Dio. Venne istituito quel motore propulsore dell'insegnamento che doveva diventare la scuola palatina, presso Aquisgrana. Sotto la direzione di Alcuino di York, vennero redatti i testi, preparati i programmi scolastici ed impartite le lezioni per tutti i chierici. In ogni angolo dell'Impero sorsero delle scuole vicino alle chiese ed alle abbazie. Carlo Magno pretese anche di fissare e standardizzare la liturgia, i testi sacri, e perfino di perseguire uno stile di scrittura che riprendesse la fluidità e l'esattezza lessicale e grammaticale del latino classico. Neanche la grafia venne risparmiata entrando in uso corrente la minuscola carolingia.
La riforma della Giustizia si attuò tramite il superamento del principio di personalità del diritto, vale a dire che ogni uomo aveva diritto di essere giudicato secondo l'usanza del suo popolo, con la promulgazione dei capitolari, che servivano ad integrare le leggi esistenti e che spesso sostituirono pezzi completamente mancanti dei vecchi codici. Queste norme avevano valore di legge per tutto l'impero ed il Re volle farle sottoscrivere da tutti i liberi durante il giuramento collettivo dell'806. Cercando di correggere i costumi ed elevando la preparazione professionale degli operanti nella giustizia, Carlo Magno prima nella Admonitio Generalis e poi nell'809 cercò di promulgare dei richiami che dovevano essere vincolanti per tutti. Si decise la diversa composizione delle giurie (che da ora in poi dovevano essere costituite da professionisti e non giudici popolari) e che al dibattimento non partecipassero altre persone se non il conte coadiuvato dagli avvocati, notai, scabini e quegli imputati che erano direttamente interessati alla causa. Le procedure giudiziarie vennero standardizzate, modificate e semplificate.
La situazione culturale del regno sotto i merovingi e dei pipinidi era pressoché tragica. Carlo Magno dette impulso ad una vera e propria riforma in più discipline: in architettura, nelle arti filosofiche, nella letteratura, nella poesia.
Differenza tra Impero carolingio e Sacro Romano Impero
L'impero carolingio era strettamente correlato alla figura del suo fondatore Carlo Magno ed alla sua discendenza carolingia, alle sue conquiste e allo speciale rapporto che esso aveva instaurato con il papato.
Anche l'impero romano-germanico (il Sacro Romano Impero della nazione tedesca) era germogliato dall'esperienza carolingia, ma essendo venuta a mancare la parte fondamentale del regno di Francia, non poteva esserne erede, se non nella stessa misura della corona francese. La data canonica della sua fondazione è il 962, da parte di Ottone I.
Il titolo imperiale venne tuttavia trasmesso dai carolingi ai sovrani successivi e presenta pertanto una sua innegabile continuità. Per tale ragione nel computo degli imperatori del Sacro Romano Impero si suole generalmente risalire fino a Carlo Magno.
Note
- ^ Franco Cardini e Marina Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, 2006, p. 151 "Le circoscrizioni amministrate da ciascun comes (conte) avevano nome di comitatus (contee); alle frontiere contee più forti, o gruppi di contee, venivano riunite sotto il nome di "marche", e affidate a un marchio o, con parola germanica, Markgraf ("contea della marca", "margravio", "marchese")."
- ^ Franco Cardini e Marina Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, 2006, p. 151-152 "L'imperatore poi, anch'egli spostandosi si può dire di continuo da un punto all'altro del suo impero, indiceva continuamente grandi riunioni (placita) durante le quali giudicava delle cause che venivano portate dinanzi a lui, e pubblicava nuove leggi attraverso speciali raccolte normative chiamate capitularia. I capitularia, appunto, ci consentono di vedere in dettaglio come funzionava il sistema politico ed economico concepito da Carlo."
- ^ Franco Cardini e Marina Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, 2006, pag. 151 "Così suddiviso, d'altronde l'impero correva -anche a causa delle difficoltà di comunicazione e della pericolosità delle strade- il rischio di veder l'autorità pubblica polverizzata in una quantità di circoscrizioni che dall'esercizio del potere delegato rischiavano di passare a una sorta di governo arbitrario. Per ovviare a ciò, Carlo istituì dei funzionari itineranti, detti "missi dominici": essi dovevano spostarsi da una contea all'altra controllando conti e margravi (anche se talvolta potevano esser reclutati in loco...I missi dominici erano divisi e mandati in coppie (uno laico e uno ecclesiastico) "
- ^ Indro Montanelli - Roberto Gervaso, Storia d'Italia, L'Italia dei secoli bui, Milano, Rizzoli, 1966
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- Franco Cardini e Marina Montesano, Storia medievale, Firenze, Le Monnier Università, 2006, ISBN 8800204740