martedì 11 ottobre 2016

Cause della caduta dell'Impero Romano



Sono state avanzate molte ipotesi per spiegare la decadenza dell'Impero e la sua fine, dall'inizio del suo declino nel terzo secolo[1] alla caduta di Costantinopoli nel 1453.[2]
Comunque, da un punto di vista strettamente politico-militare, l'Impero romano d'Occidente cadde definitivamente dopo che nel V secolo fu invaso da vari popoli non romani e quindi privato del suo nucleo peninsulare per mano delle truppe germaniche in rivolta di Odoacre nel 476. Sia la storicità che le esatte date di questo avvenimento rimangono ancora incerte e alcuni storici negano che possa parlarsi di caduta dell'Impero. Rimangono divergenti perfino le opinioni sul fatto che tale caduta sia frutto di un singolo evento oppure di un lungo e graduale processo.
Quel che è certo è che l'Impero già prima del 476 si presentava rispetto ai secoli precedenti molto meno romanizzato e sempre più caratterizzato da una impronta germanica, soprattutto nell'esercito, che costituiva l'asse portante del potere imperiale. Anche se l'Occidente romano crollò sotto l'invasione dei Visigoti all'inizio del V secolo, il rovesciamento dell'ultimo imperatore, Romolo Augusto, non fu compiuto da truppe straniere, ma piuttosto da foederati germanici organici all'esercito romano. In questo senso, se non avesse rinunciato Odoacre al titolo di imperatore per dichiararsi invece Rex Italiae e "patrizio" dell'imperatore d'Oriente, l'impero avrebbe potuto perfino dirsi conservato, almeno nel nome, se non nella sua identità, da tempo profondamente mutata: non più esclusivamente romana e sempre più condizionata dalle popolazioni germaniche, che già prima del 476 si erano ritagliate ampi spazi di potere nell'esercito imperiale e di dominio in territori ormai solo formalmente soggetti all'imperatore. Nel V secolo, infatti, i popoli di ascendenza romana erano ormai stati "privati del loro ethos militare"[3], in quanto lo stesso esercito romano non era altro che un coacervo di truppe federate di GotiUnniFranchi e altri popoli barbarici che combattevano nel nome della gloria di Roma.
Oltre alle invasioni germaniche del V secolo e all'importanza sempre più incisiva dell'elemento barbarico nell'esercito romano, sono stati individuati anche altri aspetti per spiegare la lunga crisi e la caduta finale dell'Impero romano d'Occidente:
  • il calo demografico dovuto non solo alle guerre ed alle carestie, ma anche alle epidemie che si diffondevano molto velocemente e causavano numerose vittime;
  • la crisi economico-produttiva delle campagne unita al crollo dei traffici commerciali, all'inflazione galoppante e, quindi, al ritorno ai pagamenti in natura;
  • la crisi e la fuga dalle città, a rischio non solo di saccheggio da parte degli eserciti barbarici, ma anche di malattie infettive per le disastrose condizioni igieniche;
  • la perdita di coesione sociale, dovuta all'enorme squilibrio nella distribuzione della ricchezza: lusso eccessivo per pochissimi privilegiati e povertà estrema per la grande massa dei contadini e del proletariato urbano;
  • la mancanza di consenso nei confronti del governo centrale, causata anche dalla degenerazione burocratica: da una parte corruzione sistematica, dall'altra eccessivo peso fiscale che finiva per gravare sui ceti meno abbienti;
  • i difetti del sistema costituzionale, con il governo centrale condizionato dallo strapotere dell'esercito e sempre a rischio di usurpazione.
Il 476, anno dell'acclamazione di Odoacre re, fu quindi preso a simbolo della caduta dell'Impero romano d'Occidente semplicemente perché da quel momento in poi, per oltre tre secoli fino a Carlo Magno, non vi furono più imperatori d'Occidente, mentre l'Impero romano d'Oriente, dopo la caduta dell'Occidente, si trasformò profondamente, divenendo sempre più greco-orientale e sempre meno romano.

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Invasioni barbariche del V secolo

Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Invasioni barbariche del V secolo.
Se la struttura politica, economica e sociale dell'Impero romano d'Occidente era già sgretolata e pericolante da secoli (almeno a partire dalla crisi del III secolo), a mandarla in frantumi del tutto con la spallata decisiva furono comunque le invasioni barbariche che imperversarono dalla fine del IV secolo.[4]

I regni romano-barbarici dopo il 476
Tali nuove e fatali invasioni furono la conseguenza della migrazione degli Unni nella grande pianura ungherese. Il contributo degli Unni nelle invasioni barbariche si può dividere in tre fasi:[5]
  1. gli Unni, migrando verso la pianura ungherese, spingono numerose popolazioni barbariche a invadere l'Impero (376-408).
  2. gli Unni, una volta terminata la migrazione, aiutano l'Impero a combattere i gruppi barbari entrati all'interno dell'Impero (410-439).
  3. gli Unni, sotto Attila, diventano nemici dell'Impero, e invadono dapprima l'Impero d'Oriente e poi quello d'Occidente (440-452).

Migrazione degli Unni e conseguenze: le crisi del 376-380 e 405-408


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Inizialmente negli anni 370, mentre la maggior parte degli Unni era ancora concentrata a nord del Mar Nero, alcune bande isolate saccheggiatrici di Unni attaccarono i Visigoti a nord del Danubio, spingendoli a chiedere ospitalità all'Imperatore Valente. I Visigoti, suddivisi in due gruppi (Tervingi e Grutungi), furono ammessi in territorio romano-orientale, ma in seguito a maltrattamenti, si rivoltarono e inflissero una grave sconfitta all'Impero d'Oriente nella battaglia di Adrianopoli. Con il foedus del 382, ottennero di stanziarsi nell'Illirico orientale come foederati dell'Impero, con l'obbligo di fornire truppe mercenarie all'Imperatore Teodosio I.
Intorno al 395 i Visigoti, che si erano insediati come foederati in Mesia, si ribellarono.[6] Guidati da Alarico,[7] tentarono di prendere Costantinopoli[8], ma furono respinti e si diedero quindi a saccheggiare buona parte della Tracia e della Grecia settentrionale.[9] Nell'inverno del 401-402 Alarico, entrato in Italia, forse su istigazione dell'imperatore d'Oriente Arcadio, occupò parte della Regio X Venetia et Histria e, successivamente, assediò Mediolanum (402), sede dell'imperatore romano Onorio, difesa da truppe gotiche. L'arrivo di Stilicone con il suo esercito costrinse Alarico a togliere l'assedio e a dirigersi verso Hasta (Asti), dove Stilicone lo attaccò nella battaglia di Pollenzo,[10][11] conquistando l'accampamento di Alarico. Stilicone si offrì di restituire i prigionieri in cambio del ritorno dei Visigoti in Illyricum. Ma Alarico, giunto a Verona, arrestò la sua ritirata. Stilicone allora lo attaccò nuovamente nella battaglia di Verona (nel 403)[12] e sconfisse di nuovo Alarico,[13] costringendolo a ritirarsi dall'Italia. Dopo l'assassinio di Stilicone nel 408, i Visigoti invasero di nuovo l'Italia, saccheggiando Roma nel 410 e spostandosi poi, sotto re Ataulfo, in Gallia. Sconfitti dal generale romano Flavio Costanzo nel 415, i Visigoti accettarono di combattere per l'Impero in Spagna contro gli invasori del Reno, ottenendo in cambio il possesso della Gallia Aquitania come foederati dell'Impero (418).
Sinistra: L'Impero romano d'Occidente nel 410 immediatamente dopo il sacco di Roma:
     Impero d'Occidente (Onorio).
     Area controllata da Costantino III (usurpatore).
     Aree in rivolta.
     FranchiAlemanniBurgundi.
     Area controllata da Massimo (usurpatore).
     Vandali Silingi (nel 421 Vandali e Alani).
     Vandali Asdingi e Suebi (nel 421 solo Suebi).
     Alani.
     Visigoti.
Destra: L'Impero romano d'Occidente nel 421. Grazie alle prodezze di Flavio Costanzo, la Gallia e la Tarraconense erano tornate sotto il dominio di Onorio con la sconfitta degli usurpatori, mentre gli Alani erano stati scacciati con il supporto visigoto dalla Lusitania e dalla Cartaginense, e iBagaudi nell'Armorica erano stati ricondotti all'obbedienza. I Visigoti ottennero, in cambio dei loro servigi in Hispania, la Gallia Aquitania comefoederati dell'Impero.
Se la prima "crisi" provocata dagli Unni portò solo i Visigoti a penetrare e ad ottenere uno stanziamento permanente nell'Impero, lo spostamento degli Unni dal nord del Mar Nero alla grande pianura ungherese, avvenuta agli inizi del V secolo, portò a una "crisi" ben più grave: tra il 405 e il 408 l'Impero fu invaso dagli Unni di Uldino, dai Goti di Radagaiso (405) e da Vandali, Alani, Svevi (406) e Burgundi (409), spinti all'interno dell'Impero dalla migrazione unna. Se i Goti di Radagaiso (che invasero l'Italia) e gli Unni di Uldino (che colpirono l'Impero d'Oriente) furono respinti, non fu lo stesso per gli invasori del Reno del 406.
In quell'anno, un numero mai visto prima di tribù barbariche approfittò del gelo per attraversare in massa la superficie ghiacciata del RenoFranchiAlemanni,VandaliSveviAlani e Burgundi sciamarono attraverso il fiume, incontrando una debole resistenza a Moguntiacum (Magonza) e a Treviri, che furono messe a sacco.[14] Le porte per la completa invasione della Gallia erano aperte. Nonostante questo grave pericolo, o forse proprio a causa di esso, l'Impero romano continuò ad essere dilaniato da lotte intestine, in una delle quali Stilicone, principale difensore di Roma in quel periodo, fu messo a morte.[15] Fu in un questo clima tormentato che, nonostante i rovesci subiti, Alarico tornò in Italia nel 408, riuscendo a mettere a segno il sacco di Roma due anni più tardi.[16][17][18] A quella data già da alcuni anni la capitale imperiale si era trasferita da Milano a Ravenna,[19] ma qualche storico candida il 410 quale possibile data per la caduta dell'impero romano.[20].
Privato di molte delle sue precedenti province, con un'impronta germanica sempre più spiccata, l'Impero romano degli anni successivi al 410 aveva davvero poco in comune con quello dei secoli precedenti. Nel 410 la Britannia era ormai quasi del tutto sguarnita di truppe romane[21][22] e già nel 425 non faceva ormai più parte dell'Impero, invasa com' era da AngliSassoniPitti e Scoti.[7] Gran parte dell'Europa occidentale era ormai messa alle strette "da ogni genere di calamità e disastri",[23] ed alla fine venne divisa fra i Regni romano-barbarici dei Vandali in Africa, degli Svevi nella Spagna nord occidentale, dei Visigoti in Spagna e nella Gallia meridionale, dei Burgundi tra la Svizzera e la Francia e dei Franchi nella Gallia settentrionale.[24]. Non si trattò, comunque, di una catastrofe subitanea, ma piuttosto di un lungo trapasso: infatti gli eserciti-popoli barbarici si insediarono nelle loro terre chiedendo però l'approvazione formale dell'imperatore d'Oriente, se non di quello d'Occidente.

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Rapporti tra Unni e Impero

Dopo il 410 la difesa di quel che restava del territorio imperiale, se non dell'impronta romana, fu portata avanti dai magistri militum Flavio Costanzo (410-421) e Ezio (425-454), che riuscirono a fronteggiare efficacemente gli invasori barbarici facendoli combattere l'uno con l'altro. Costanzo riuscì a sconfiggere i vari usurpatori che si erano rivoltati contro l'imbelle Onorio e a rioccupare temporaneamente parte della Spagna spingendo i Visigoti di re Vallia a combattere per l'Impero contro Vandali, Alani e Svevi. Ezio, suo successore, dopo una lunga lotta per il potere, ottenne vari successi contro gli invasori barbari. Ai limitati successi di Costanzo ed Ezio contribuirono certamente gli Unni, lo stesso popolo che aveva provocato indirettamente le crisi del 376-382 e del 405-408. Infatti, gli Unni, ormai stanziati stabilmente in Ungheria, arrestarono il flusso migratorio ai danni dell'Impero, in quanto, volendo dei sudditi da sfruttare, impedirono ogni migrazione da parte delle popolazioni sottomesse. Inoltre aiutarono l'Impero d'Occidente a combattere i gruppi invasori: nel 410 alcuni mercenari unni furono inviati ad Onorio per sostenerlo contro Alarico, mentre Ezio dal 436 al 439 impiegò mercenari unni per sconfiggere in Gallia Burgundi, Bagaudi e Visigoti, ottenendo delle vittorie contro questi ultimi nella battaglia di Arles e nella battaglia di Narbona; poiché però nessuna delle minacce esterne fu annientata definitivamente nemmeno con il sostegno degli Unni, questo aiuto compensò solo minimamente gli effetti nefasti provocati dalle invasioni del 376-382 e del 405-408.[25] Nel 439, anzi, fu perduta Cartagine, seconda città dell'impero d'Occidente per grandezza, in favore dei Vandali, insieme a buona parte del Nordafrica.[26][27]
"La lotta si trasformò in un corpo a corpo, fiero, selvaggio, confuso e senza il più piccolo respiro... Il sangue dei corpi caduti, da piccolo ruscello, fluiva in pianura in un fiume torrenziale. Quelli tormentati dalla sete per le ferite ricevute, bevevano acqua tanto frammista a sangue da apparir costretti, nella loro sofferenza, a bere di quello stesso sangue sgorgato dalle loro ferite".
Giordane sulla Battaglia dei Campi Catalaunici[28]
Sotto Attila, poi, gli Unni divennero una grande minaccia per l'Impero. Nel 451 Attila invase la Gallia: Ezio guidò contro gli Unni di Attila un esercito composito, che includeva anche i precedenti nemici visigoti: grazie ad esso nella battaglia dei Campi Catalaunici,[29][30][31] inflisse agli Unni una sconfitta così sonora che essi in seguito, pur razziando ancora importanti città dell'Italia settentrionale come AquileiaConcordiaAltinumPatavium (Padova), Mediolanum[32] e Ticinum[32], non minacciarono mai più direttamente Roma. Pur essendo l'unico vero baluardo dell'impero, Ezio venne però assassinato dalla stessa mano dell'imperatoreValentiniano III, in un gesto che indusse Sidonio Apollinare a osservare: "Ignoro, o signore, le ragioni della vostra provocazione; so solo che avete agito come quell'uomo che mozzi la mano destra con la propria sinistra".[33]

L'Impero romano d'Occidente intorno al 452.
     Impero d'Occidente (Valentiniano III).
     Aree minacciate da rivolte interne (Bagaudi).
     Aree perse per rivolte interne.
     Aree minacciate da FranchiAlemanniBurgundi.
     Aree minacciate da Mauri.
     Aree perse perché occupate da Vandali e Alani.
     Aree perse perché occupate da Suebi.
     Aree minacciate da Visigoti.
     Aree perse perché occupate da Unni.
Considerando che le parti ancora controllate da Ravenna in Gallia e in Italia erano state devastate dagli Unni di Attila e non erano dunque più in grado di versare le tasse ai livelli di prima, il gettito fiscale dell'Impero d'Occidente si era davvero ridotto ai minimi termini.
Le incursioni unne, però, danneggiarono soprattutto indirettamente l'Impero, distogliendolo dalle lotte contro gli altri barbari penetrati all'interno dell'Impero nel 376-382 e nel 405-408, che in questo modo ne approfittarono per espandere ulteriormente la propria influenza.[34] Per esempio, le campagne balcaniche di Attilaimpedirono all'Impero d'Oriente di aiutare l'Impero d'Occidente in Africa contro i Vandali: una poderosa flotta romano-orientale di 1100 navi che era stata inviata in Sicilia per riconquistare Cartagine fu richiamata precitosamente perché Attila minacciava di conquistare persino Costantinopoli (442). Anche la Britannia, abbandonata definitivamente dai Romani attorno al 407-409, fu invasa, attorno alla metà del secolo da genti germaniche (SassoniAngli e Juti) che dettero vita a molte piccole entità territoriali autonome (SussexAnglia orientaleKent ecc.), spesso in lotta fra di loro; il generale Ezio nel 446 ricevette un disperato appello dai romano-britanni contro i nuovi invasori, ma, non potendo distogliere forze dalla frontiera confinante con l'Impero unno, il generale declinò la richiesta. Ezio dovette rinunciare anche a inviare forze consistenti in Spagna contro gli Svevi, che, sotto re Rechila, avevano sottomesso quasi interamente la Spagna romana, ad eccezione della Tarraconense.
L'Impero romano d'Occidente fu dunque costretto a rinunciare al gettito fiscale della Spagna e soprattutto dell'Africa, con conseguenti minori risorse a disposizione per mantenere un esercito efficiente da utilizzare contro i Barbari. Man mano che le entrate fiscali diminuivano a causa delle invasioni, l'esercito romano si indeboliva sempre di più, agevolando un ulteriore espansione a scapito dei Romani da parte degli invasori. Nel 452 l'Impero d'Occidente aveva perso la Britannia, una parte della Gallia sud-occidentale ceduta ai Visigoti e una parte della Gallia sud-orientale ceduta ai Burgundi, quasi tutta la Spagna passata agli Svevi e le più prospere province dell'Africa, occupate dai Vandali; le province residue erano o infestate dai ribelli separatisti bagaudi o devastate dalle guerre del decennio precedente (ad esempio le campagne di Attila in Gallia e in Italia) e dunque non potevano più fornire un gettito fiscale paragonabile a quello precedente alle invasioni.[35] Si può concludere che gli Unni contribuirono alla caduta dell'Impero romano d'Occidente, non tanto direttamente (con le campagne di Attila), quanto indirettamente, giacché, causando la migrazione di Vandali, Visigoti, Burgundi e altre popolazioni all'interno dell'Impero, avevano danneggiato l'Impero romano d'Occidente molto più delle stesse campagne militari di Attila.

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L'ultimo ventennio dell'Impero (455-476)


Le campagne dell'Imperatore d'Occidente Maggioriano. Durante un regno di quattro anni, Maggioriano riconquistò la maggior parte della Hispania e la Gallia meridionale.
Il rapido collasso dell'Impero unno dopo il decesso di Attila privò l'Impero di un possibile valido alleato (gli Unni), che tuttavia si poteva anche trasformare in una temibile minaccia, da contrapporre ai Barbari stanziati all'interno dell'Impero. Ezio aveva ottenuto le sue vittorie militari soprattutto grazie all'utilizzo degli Unni: senza il sostegno degli Unni, ora l'Impero era impossibilitato a combattere con efficacia i gruppi immigrati ed era dunque costretto a incorporarli nel governo romano. Il primo ad attuare questa politica fu l'Imperatore Avito (succeduto a Petronio Massimo dopo il sacco di Roma del 455), che riuscì ad essere incoronato a imperatore proprio grazie al sostegno militare dei Visigoti; il re visigoto Teodorico II, però, pur essendo filo-romano, si attendeva qualcosa in cambio dell'appoggio ad Avito e ottenne quindi dal nuovo imperatore l'autorizzazione di condurre campagne in Spagna a danni degli Svevi; gli Svevi alla fine furono annientati ma la Spagna venne devastata dalle truppe visigote che ottennero quindi un ricco bottino.[36].
Un secondo problema conseguente a questa politica di accomodamento con i Barbari era che l'inclusione delle potenze barbare nella vita politica dell'Impero aumentava il numero di forze che dovevano riconoscere l'Imperatore, rendendo maggiore il rischio di instabilità interna: infatti, se prima di allora, le forze da cui l'Imperatore doveva ottenere il riconoscimento, erano le aristocrazie terriere di Italia e Gallia e gli eserciti campali di Italia, Gallia e Illirico, oltre all'Impero d'Oriente, ora l'Imperatore doveva ottenere il riconoscimento anche dei gruppi barbari incorporati nell'Impero (Visigoti, Burgundi ecc.), aumentando il rischio di instabilità politica.[36]
Il governo di Avito durò poco: approfittando dell'assenza dei Visigoti partiti per la Spagna, nel 457 i generali dell'esercito italico Maggioriano e Ricimero deposero Avito. Il nuovo imperatore Maggioriano non ottenne però il riconoscimento in Gallia e in Ispania: Visigoti, Burgundi e proprietari terrieri, essendo seguaci di Avito, si rivoltarono infatti a Maggioriano. Il nuovo imperatore, reclutati forti contingenti di mercenari barbari, riuscì, con la forza del suo esercito, ad ottenere il riconoscimento di Visigoti, Burgundi e proprietari terrieri gallici, recuperando per l'Impero la Gallia e la Hispania. Il piano di Maggioriano era però recuperare l'Africa ai Vandali, che nel 455 si erano impadroniti degli ultimi territori ivi controllati dall'Impero; Maggioriano era infatti conscio che senza il gettito fiscale dell'Africa, l'Impero non avrebbe potuto riprendersi. A tal fine, allestì una potente flotta per invadere l'Africa, ma questa, ancorata nei porti della Spagna, fu distrutta dai Vandali con l'aiuto di traditori. Maggioriano dovette dunque rinunciare alla spedizione e, tornato in Italia, fu detronizzato per volere di Ricimero (461).
Ricimero impose come imperatore fantoccio Libio Severo, ma questi non fu riconosciuto né da Costantinopoli, né dai comandanti di Gallia e Illirico (rispettivamente Egidio e Marcellino). Per ottenere l'appoggio dei Visigoti e Burgundi contro Egidio, Ricimero dovette cedere ai Visigoti Narbona (462) e permettere ai Burgundi di occupare la valle del Rodano. Ben presto si rese conto dell'errore commesso eleggendo imperatore Severo e lo fece uccidere (465). La mancanza di stabilità politica a causa delle troppe forze in gioco stava portando a un deterioramento della situazione e a un rapido susseguirsi di imperatori; sarebbero dovute accadere tre cose per evitare la caduta finale dell'Impero:[37]
  1. la restaurazione del potere legittimo
  2. la riduzione delle forze in gioco che qualsiasi nuovo regime avrebbe dovuto tenere in equilibrio
  3. la crescita del gettito fiscale

Il regno dei Vandali al suo apogeo.
Ricimero e l'Impero romano d'Oriente si misero dunque d'accordo per un piano che avrebbe dovuto salvare l'Occidente romano dalla rovina. Nel 467 venne nominato un nuovo imperatore d'Occidente, Antemio, imposto dall'Oriente; in cambio, l'Impero d'Occidente avrebbe avuto dall'Impero d'Oriente il sostegno militare per una spedizione contro i Vandali. Secondo Heather una spedizione vittoriosa contro i Vandali avrebbe impedito la caduta dell'Impero d'Occidente:
« Facciamo un po' di storia basata sui se. Una vittoria schiacciante su Genserico... avrebbe prodotto tutta una serie di effetti a catena. Una volta riuniti Italia e Nordafrica, anche la Spagna sarebbe tornata all'ovile:... infatti, gli Svevi rimasti nella penisola iberica non erano molto pericolosi. ... A questo punto, quando anche i tributi della Spagna avessero ricominciato ad affluire nelle casse dello stato, si sarebbe potuto avviare un ampio programma di ricostruzione della Gallia romana. Visigoti e Burgundi, infine, sarebbero stati rinchiusi in enclave d'influenza molto più piccole... Contrariamente a prima, il rinato impero romano d'Occidente sarebbe diventato in realtà una coalizione, con sfere d'influenza gote e burgunde... : non più dunque la coalizione unita e integrata del IV secolo. Ma il centro dell'Impero sarebbe stato comunque il partner dominante della coalizione... Nel giro di un ventennio, poi, anche i romano-britanni ... avrebbero potuto trarre giovamento da questi rivolgimenti. Tutto ciò, ovviamente, solo se le cose fossero andate sempre e soltanto per il meglio. »
(Heather, op. cit., p. 477.)
Antemio arrivò a Ravenna nel 467, e fu riconosciuto imperatore sia in Gallia che in Dalmazia. Il poeta romano-gallico Gaio Sollio Sidonio Apollinare gli dedicò un panegirico, in cui gli augurava il successo nella spedizione contro i Vandali. Nel 468, Leone scelse Basilisco come comandante in capo della spedizione militare contro Cartagine. Il piano fu elaborato in accordo tra l'imperatore d'Oriente Leone, l'imperatore d'Occidente Antemio e il generale Marcellino che godeva di una certa indipendenza nell'Illirico. Basilisco salpò direttamente per Cartagine, mentre Marcellino attaccò e conquistò la Sardegna e un terzo contingente, comandato da Eraclio di Edessa, sbarcò sulle coste libiche a est di Cartagine, avanzando rapidamente. La Sardegna e la Libia erano già state conquistate da Marcellino ed Eraclio, quando Basilisco gettò l'ancora al largo del promontorium Mercurii, oggi Capo Bon, a circa sessanta chilometri da Cartagine. Genserico chiese a Basilisco di concedergli cinque giorni per elaborare le condizioni per la pace.[38] Durante i negoziati, tuttavia, Genserico raccolse le proprie navi, ne riempì alcune di materiale combustibile e, durante la notte, attaccò all'improvviso la flotta imperiale, lanciando i brulotti contro le navi nemiche, non sorvegliate, che vennero distrutte. A seguito della perdita di gran parte della flotta, la spedizione fallì: Eraclio si ritirò attraverso il deserto nella Tripolitania, tenendo la posizione per due anni finché non venne richiamato; Marcellino si ritirò in Sicilia.

Il regno visigoto in seguito alle conquiste di Eurico.
Il fallimento della spedizione determinò la rapida caduta dell'Impero romano d'Occidente nel giro di otto anni, giacché non solo il gettito fiscale dell'Impero non era più sufficiente per difenderlo dagli invasori, ma le grandi cifre spese mandarono in rosso il bilancio dell'Impero d'Oriente, impedendogli di aiutare ulteriormente quello d'Occidente.[39] A causa della carenza di soldi, lo stato, per esempio, non poté più garantire alle guarnigioni che difendevano il Norico una paga regolare né equipaggiamenti sufficienti a respingere con efficacia i predoni barbari, come narrato dalla Vita di San Severino; a un certo punto, con l'interruzione della paga, le guarnigioni del Norico sbandarono, anche se continuarono per qualche tempo a difendere la regione dai predoni come milizie cittadine.[40].
In Gallia, invece, il re visigoto Eurico, resosi conto dell'estrema debolezza dell'Impero e constatando che la spedizione contro i Vandali era fallita, tra il 469 e il 476 conquistò tutta la Gallia che ancora rimaneva ai Romani a Sud della Loira, sconfiggendo sia gli eserciti inviati dall'Italia da Antemio che le guarnigioni locali. Nel 475 l'Imperatore Giulio Nepote riconobbe i Visigoti come stato indipendente dall'Impero e tutte le conquiste di Eurico. Con l'Impero praticamente ridottosi alla sola Italia (con Dalmazia e Gallia settentrionale ancora romane ma secessioniste), il gettito fiscale si era ridotto a tal punto da non essere nemmeno sufficiente a pagare l'esercito romano d'Italia stesso, costituito ormai quasi totalmente da barbari provenienti da oltre Danubio e un tempo sudditi dell'Impero unno. Queste truppe di foederati germanici, guidati da Odoacre, erano state reclutate da Ricimero intorno al 465 ed avevano partecipato alla guerra civile tra Ricimero e Antemio, che si era conclusa con l'uccisione di Antemio e il sacco di Roma del 472. Queste truppe di foederati, avendo l'Impero ormai difficoltà a pagarle, si rivoltarono nel 476, determinando alla fine la caduta dell'Impero in Italia.

Romolo Augusto
In ogni modo, se è vero che le invasioni provocarono un crollo del gettito fiscale, con inevitabili ripercussioni sulla qualità e quantità dell'esercito, questo fattore da solo non rende inevitabile la caduta finale di un impero: l'Impero romano d'Oriente affrontò una crisi analoga nel VII secolo, allorché perse il controllo di gran parte dei Balcani, invasi dagli Slavi, oltre alle floride province di SiriaEgitto, e Nord Africa, conquistate dagli Arabi. Nonostante la perdita di gran parte del suo gettito fiscale, l'Impero d'Oriente non crollò: anzi riuscì persino a riprendersi parzialmente nel corso dei secoli X e XI, sotto la dinastia macedone. Alla sopravvivenza dell'Impero d'Oriente contribuì certamente la posizione strategica della capitale, protetta sia dal mare che dalle possenti e quasi inespugnabili mura teodosiane; ma bisogna anche considerare il fatto che in Oriente l'Imperatore non aveva perso autorità a vantaggio dei capi barbari dell'esercito, al contrario del suo collega occidentale.
Se l'Imperatore d'Occidente fosse riuscito a preservare la sua effettiva autorità, non è da escludere che l'Impero d'Occidente sarebbe riuscito a sopravvivere, magari limitato alla sola Italia; in occidente invece l'Imperatore perse ogni potere a vantaggio dei capi dell'esercito di origine barbarica, come Ricimero e il suo successore GundobadoOdoacre non fece che legalizzare una situazione di fatto, cioè l'inutilità effettiva della figura dell'Imperatore, ormai solo un fantoccio nei mani dei generali romani di origine barbarica. Più che una caduta, la fine dell'Impero, almeno in Italia, può essere interpretata più come un cambio interno di regime in cui si poneva fine a un'istituzione ormai superata e che aveva perso ogni potere effettivo a vantaggio dei comandanti romano-barbarici. Odoacre stesso non era un nemico esterno ma un generale romano di origini barbariche, che rispettò e mantenne in vita le istituzioni romane, come ilsenato e il consolato, e continuava a governare l'Italia come funzionario dell'Imperatore d'Oriente, pur essendo di fatto indipendente.

476: l'atto finale


Romolo Augusto deposto da Odoacre.
L'anno 476 viene di solito indicato come fine dell'Impero d'Occidente: in quell'anno le milizie mercenarie germaniche dell'Impero, capeggiate dal barbaro Odoacre, si rivoltarono contro l'autorità imperiale e deposero l'ultimo imperatore d'Occidente, Romolo Augusto (anche se quest'ultimo era solo un imperatore fantoccio manovrato dal padre Oreste, comandante in capo dell'esercito); i motivi della rivolta erano il rifiuto da parte imperiale di cedere ai mercenari barbari un terzo delle terre italiche.[41] L'esercito d'Italia all'epoca sembra fosse costituito esclusivamente da Germani, in particolar modo, da EruliSciri e Rugi. Quando essi fecero richiesta a Oreste affinché fosse loro permesso di insediarsi in Italia alle stesse condizioni con cui erano stati insediati i foederati nelle altre province dell'Impero, ricevendo inoltre un terzo delle terre della penisola, Oreste rifiutò, essendo determinato a mantenere il suolo d'Italia inviolato.[42] Il rifiuto provocò una rivolta dei soldati mercenari, i quali elessero loro capo lo sciro Odoacre, uno dei principali ufficiali di Oreste. Odoacre, alla testa di un'orda di Eruli, Turcilingi, Rugi, Sciri, si diresse quindi verso Milano; Oreste, vista la gravità della rivolta, si rifugiò a Pavia, che venne però assediata ed espugnata dai ribelli; Oreste venne catturato e, portato a Piacenza, giustiziato (28 agosto 476). Dopodiché Odoacre si diresse verso Ravenna: nella pineta fuori Classe (il porto di Ravenna) catturò e fece uccidere Paolo, il fratello di Oreste (4 settembre 476); Odoacre occupò in seguito Ravenna[43], dove catturò l'Imperatore Romolo Augusto che non poté far altro che abdicare e sottomettersi a Odoacre.[41] Odoacre, tuttavia, essendo stato amico del padre Oreste, decise di risparmiargli la vita, relegandolo in un castello della Campania, detto Luculliano (a Napoli, dove sorge l'attuale Castel dell'Ovo), e concedendogli una pensione annua di 6.000 soldi d'oro[44].
Tutta l'Italia era in mano a Odoacre, che fu quindi proclamato re dai suoi soldati. Ma questi non intendeva certo governare l'Italia in qualità di re di una orda barbara comprendente numerose nazionalità germaniche; egli intendeva governare l'Italia in qualità di successore di RicimeroGundobado e Oreste, ovvero come funzionario imperiale; in pratica, Odoacre non intendeva distaccare l'Italia dall'Impero romano. Odoacre rinunciò tuttavia alla farsa, perpetrata sotto i suoi predecessori, di nominare un imperatore fantoccio che in realtà non possedeva alcuna autorità, essendo tutti i poteri effettivi detenuti dal magister militum barbaro; intendeva governare l'Italia come magister militum e quindi funzionario dell'Imperatore di Costantinopoli, mantenendo al contempo il titolo di re delle truppe barbare che costituivano l'esercito.[45] Con questo proposito, Odoacre fece in modo che la deposizione di Romolo Augusto prendesse la forma di un'abdicazione, e indusse il senato romano a inviare una delegazione di senatori, in nome di Romolo, a Costantinopoli per annunciare all'Imperatore d'Oriente il nuovo ordine delle cose. Gli ambasciatori del senato romano, giunti al cospetto dell'Imperatore d'Oriente Zenone, lo informarono che:
« ...la città non abbisognava di particolare imperatore, essendo bastante uno a difendere i confini di entrambi gli Stati; e ch'egli [Romolo Augusto] aveva nel frattempo affidato la gestione dello stato ad Odoacre, soggetto idoneo a procurare la pubblica salvezza, essendo eccellente nell'amministrazion della repubblica, e bravo nell'arte militare. Pregavalo quindi di ornare costui della patrizia dignità, e ad affidargli il governo dell'italiana diocesi. Andarono pertanto gli ambasciadori del senato dell'antica Roma a riferire tali discorsi in Bisanzio. »
(Malco, Delle cose bizantine, frammento 10 (Muller).)
Al contempo altri messaggeri, inviati da Giulio Nepote, giunsero alla corte di Zenone per chiedere all'Imperatore d'Oriente aiuti per aiutarlo a recuperare il trono d'Occidente. Zenone declinò la richiesta di aiuti inviata da Nepote, e rammentò ai rappresentanti del senato che i due imperatori che essi avevano ricevuto dall'Oriente fecero una brutta fine, venendo uno ucciso (Antemio) e l'altro esiliato (Nepote); chiese allora loro di far tornare Nepote in Italia e permettergli di governarla come Imperatore. Tuttavia inviò a Odoacre un diploma che gli conferì la dignità di patrizio, e gli scrisse, lodando la sua condotta, e chiedendogli di provare la sua rettitudine riconoscendo l'Imperatore esiliato (Nepote) e permettendogli di tornare in Italia.[46]
La Dalmazia rimase, invece, in mano a Giulio Nepote, che era ancora formalmente imperatore romano d'Occidente. Tuttavia Nepote non ritornò mai dalla Dalmazia, anche se Odoacre fece coniare monete col suo nome. Il 9 maggio del 480 Nepote venne ucciso presso Salona dai conti Viatore e Ovida. Dopo la sua morte, Zenone rivendicò la Dalmazia per l'Oriente ma venne anticipato da Odoacre, che col pretesto di vendicare Nepote mosse guerra a Ovida per poi conquistare la regione, che fu annessa all'Italia. John Bagnell Bury considera pertanto il 480 come l'anno della fine reale dell'Impero d'Occidente.
Sopravvisse ancora per qualche anno il Regno di Soissons, ultima enclave dell'Impero romano d'Occidente nella Gallia settentrionale, che nel 486 venne conquistato dai Franchi.
È importante notare che, poiché non ottenne il riconoscimento dell'Imperatore d'Oriente, Romolo Augusto era considerato alla stregua di un usurpatore dalla corte di Costantinopoli, che continuava a riconoscere come legittimo Imperatore d'Occidente Giulio Nepote, che governava in esilio in Dalmazia, continuando a rivendicare il trono.
Odoacre, pur essendo ricordato come il primo Re d'Italia (secondo l'anonimo Valesiano l'incoronazione avvenne il 23 agosto 476, dopo l'occupazione di Milano e Pavia, ma il Muratori ritiene più probabile che la sua incoronazione sia avvenuta quando depose Romolo Augusto e conquistò Roma)[44], non portò mai la porpora né altre insegne reali, né coniò mai monete in onor suo. Questo perché si era dichiarato formalmente subordinato all'Imperatore d'Oriente, per cui governava l'Italia in qualità di "patrizio".
Gli eventi del 476 sono stati considerati "la caduta dell'Impero d'Occidente", ma secondo JB Bury questa visione degli eventi è inaccurata, in quanto nessun impero cadde nel 476, né tantomeno un "Impero d'Occidente". Lo studioso afferma che dal punto di vista costituzionale all'epoca vi era un solo Impero romano, che talvolta era governato da due o più augusti. Nei periodi di interregno in Occidente, l'Imperatore d'Oriente diventava almeno nominalmente e temporaneamente l'Imperatore anche delle province occidentali, e viceversa. E anche se si potrebbe replicare che gli scrittori coevi chiamavano Hesperium regnum (regno d'occidente) le province che erano state, dopo il 395, sotto il governo separato di un imperatore residente in Italia, e con caduta dell'Impero d'Occidente si intende la terminazione della linea di Imperatori d'Occidente, potrebbe essere obiettato che è il 480 la data significativa in quanto era Giulio Nepote l'ultimo imperatore legittimo d'Occidente, mentre Romolo Augusto era solo un usurpatore. Andrebbe inoltre fatto notare che, dal punto di vista costituzionale, Odoacre era il successore di Ricimero, e che la situazione generata dagli eventi del 476 presenta delle analogie notevoli con gli intervalli di interregno durante il periodo di Ricimero. Tra il 465 e il 467, per esempio, non vi fu imperatore in Occidente; inoltre, dal punto di vista costituzionale, nel corso di quel biennio, l'Imperatore d'Oriente Leone I divenne l'Imperatore di tutto l'Impero unificato, anche se l'effettivo controllo delle province occidentali era detenuto dal magister militumbarbaro Ricimero. La situazione del 476 era quindi analoga per molti aspetti a quella del biennio 465-467: dal punto di vista costituzionale, a partire dal 476, l'Italia tornò sotto la sovranità dell'Imperatore romano governante a Costantinopoli, mentre il controllo effettivo del territorio era detenuto da un magister militum barbaro, Odoacre, che governava per conto di Zenone.[47] Le uniche differenze sostanziali, la prima delle quali si sarebbe trovata rilevante solo a posteriori, furono il fatto che non sarebbe stato più eletto un imperatore della parte occidentale, e che per la prima volta l'Italia subiva, analogamente alle altre province ormai perdute, l'assegnazione di un terzo delle terre ai barbari foederati.
JB Bury tuttavia non nega che gli eventi del 476 furono un avvenimento di importanza fondamentale, in quanto rappresenta una fase fondamentale nel processo di dissoluzione dell'Impero. Nel 476, per la prima volta, dei Barbari furono insediati in Italia, ricevendo un terzo delle terre, esattamente come era successo per i foederati nelle altre province. Secondo lo studioso, l'insediamento dei Germani di Odoacre rappresentò l'inizio del processo con cui l'Italia sarebbe poi finita nelle mani di Ostrogoti e LongobardiFranchi e Normanni.[48]

Una caduta senza rumore

Registri della cancelleria ravennate 

Il fatto che la detronizzazione di Romolo Augusto coincidesse con la caduta di Roma non fu subito riconosciuto dai coevi, che non riconobbero alcuna discontinuità vera e propria. Una prima conferma si ha consultando iConsularia Italica, cronaca redatta dalla stessa cancelleria imperiale ravennate. Anche se la sconfitta e l'uccisione di Oreste vengono descritti con un'accezione negativa:
(LA)
« Undique rei publicae mala consurgentia: ab omnibus undique gentibus oppressi et provincias et dominationem amiserunt. »
(IT)
« Ovunque sorsero i mali dello stato: [i Romani] persero sia le provincie sia il dominio, ovunque oppressi dalle genti [barbare]. »
(Consularia ItalicaOrdo prior, s.a. 476.)
Non si ha il minimo accenno in nemmeno un rigo alla detronizzazione di Romolo Augusto e alla caduta dell'Impero romano d'Occidente. Di Odoacre viene invece espresso un giudizio positivo:
(LA)
« Heruli... regem creant nomine Odoacrem, hominem et arte et sapientia gravem et bellicis rebus instructum. »
(IT)
« Gli Eruli... eleggono un re di nome Odoacre, uomo di grande valore e sapienza e ben istruito sull'arte della guerra. »
(Consularia Italica)
Ciò è dovuto al fatto che Romolo Augusto, non essendo stato riconosciuto dall'Imperatore d'Oriente, era considerato un usurpatore (aveva usurpato la porpora a Giulio Nepote, costretto a fuggire in Dalmazia nel 475). IConsularia Italica, quindi, conformandosi alla versione dei fatti bizantina, descrivono Odoacre non come colui che pose fine al millenario stato romano, ma come colui che pose fine alla tirannide e all'usurpazione di Romolo Augusto. Del resto, un Imperatore d'Occidente, Giulio Nepote, era ancora in carica, seppur in esilio in Dalmazia. Quindi, secondo il punto di vista della cancelleria ravennate, nel 476 non venne affatto detronizzato l'ultimo Imperatore d'Occidente, ponendo fine all'Impero; Giulio Nepote, seppur in esilio in Dalmazia, era infatti ancora formalmente in carica come Imperatore d'Occidente e lo rimase fino al 480, anno in cui fu assassinato in una congiura. I Consularia Italica, se tacciono sulla detronizzazione dell'usurpatore Romolo Augusto, tuttavia registrano sotto l'anno 480 l'assassinio di Giulio Nepote in Dalmazia: per tale fonte fu costui l'ultimo Imperatore d'Occidente. Tuttavia, come nota Zecchini, «neanche alla scomparsa di Nepote viene attribuito un ruolo epocale o comunque di particolare rilievo».[49] La versione dei registri burocratici di Ravenna è dunque quella giuridico-costituzionale, che rifletteva il punto di vista di Costantinopoli, secondo il quale, anche dopo il 480, nessun Impero era caduto, in quanto «restava pur sempre in Oriente un Imperatore romano, Zenone, sotto il cui scettro le due partes Imperii erano automaticamente riunificate in assenza del suo collega occidentale».[49]
Anche gli storici greci coevi non danno alcuna importanza al 476 e ritengono l'assassinio di Giulio Nepote nel 480 un avvenimento di gran lunga più rilevante rispetto al 476. Si può prendere ad esempio lo storico Malco, della cui opera purtroppo sono rimasti solo frammenti. Nel riassunto dell'opera di Malco redatto dal patriarca di Costantinopoli Fozio nel IX secolo, non vi è la minima menzione della detronizzazione di Romolo Augusto, mentre invece l'assassinio di Nepote viene menzionato. Questo elemento non è decisivo, perché la mancata menzione di Romolo Augusto potrebbe essere stata una semplice omissione del patriarca, che stava pur facendo un riassunto, ma dell'opera di Malco sono sopravvissuti dei frammenti riguardanti l'ambasceria del senato romano nel 476 annunciante la presa del potere da parte di Odoacre. Malco, pur essendo ostile alla politica dell'Imperatore Zenone, in questo caso non si discosta dalla versione ufficiale bizantina del 476; il suo giudizio su Odoacre è positivo e non si discosta da quello dei Consularia Italica; come i Consularia Italica, anche Malco ritiene gli avvenimenti del 480 come più importanti di quelli del 476. Zecchini conclude che «cancelleria ravennate, corte costantinopolitana e opinione pubblica bizantina non diedero alcun valore epocale alla caduta di Romolo Augustolo: esse privilegiarono se mai l'anno 480 quale data, che, lasciando sussistere un solo imperatore, quello orientale, creava una situazione nuova e per certi aspetti preoccupante, ma da non ritenersi affatto definitiva ed irrimediabile».[50]

Marcellino e Giordane

Nel VI secolo, tuttavia, si cominciò a prendere coscienza che l'Impero di Roma, nonostante la sopravvivenza della parte orientale, fosse ormai storia passata. La Cronaca di Conte Marcellino, un cronista romano-orientale di epoca giustinianea, riporta, sotto l'anno 476:
(LA)
« Hesperium Romanae gentis imperium, quod septingentesimo nono Vrbis conditae anno primus Augustorum Octauianus Augustus tenere coepit, cum hoc Augustulo periit, anno decessorum regni imperatorum quingentesimo uigesimo secundo, Gothorum dehinc regibus Romam tenentibus. »
(IT)
« L'Impero romano d'Occidente, che per primo degli Augusti resse Ottaviano Augusto nell'anno 709 dalla fondazione dell'Urbe, perì con questo Augustolo, dopo che erano trascorsi 522 anni dalla sua fondazione. Da quel momento in poi Roma sarebbe stata governata dai re goti. »
(Conte Marcellino, s.a. 476.)
La stessa frase è presente nella Getica dello storico goto Giordane, che aveva evidentemente utilizzato Marcellino come una delle sue fonti. È da notare che l'anno 799 della fondazione dell'Urbe coincide con il 43/42 a.C., dunque Marcellino poneva l'inizio dell'Impero romano e del principato augusteo non nel 27 a.C. ma nel 43/42 a.C., conformandosi alla versione tramandata dalla cronografia bizantina posteusebiana, secondo cui il principato augusteo sarebbe cominciato subito dopo l'assassinio di Cesare. Una incongruenza che emerge a un'attenta analisi del testo è che, se si prende per veritiero il dato dei 522 anni di durata, è possibile dedurre da ciò che l'Impero sarebbe caduto nel 480 (522-42=480). Dunque Marcellino probabilmente riprese il dato dei 522 anni di durata da una fonte che poneva la caduta dell'Impero d'Occidente nel 480, anno dell'assassinio di Nepote, ma, essendo determinato a considerare la deposizione di Romolo Augusto come l'evento che cagionò la caduta dell'Impero, collocò questa informazione sotto l'anno 476, non curandosi di correggere il conteggio degli anni. Secondo una congettura di Zecchini, è possibile che Marcellino possa aver preso il dato dei 522 anni da Eustazio di Epifania, la cui opera purtroppo si è perduta, mentre l'interpretazione della deposizione di Romolo Augusto come evento che cagionò la caduta di Roma sarebbe stata tratta da una fonte occidentale, probabilmente quella di Simmaco, andata anch'essa perduta. Secondo l'opinione di Zecchini, sarebbe da escludere che «prima di Marcellino fosse già stato stabilito in Oriente il nesso "deposizione di Augustolo-fine di Roma": esso sembra riconfermarsi [...] di derivazione occidentale e probabilmente simmachiana».[51]
Nel 519, infatti, Simmaco, un senatore romano che collaborava con il governo ostrogoto in Italia di Teodorico, aveva redatto la Historia Romana, un'opera andata purtroppo perduta, che, secondo alcune congetture, sarebbe stata la fonte comune di Marcellino e Giordane. Secondo tali congetture, sarebbe partita da Simmaco l'opinione di considerare la deposizione di Romolo Augusto come l'evento che cagionò la fine dello stato romano. La presunta opinione di Simmaco esprimerebbe l'opinione del senato romano, o almeno di una frangia di esso (costituita dalla gens Anicia), che mal tollerava il governo di Teodorico, constatava con amarezza che il trono d'Occidente era vacante dal 476, e che con il passare del tempo la possibilità che potesse rinascere diventava sempre più flebile. Marcellino non avrebbe fatto che attingere da tale opera perduta, diventando così il primo autore bizantino a riconoscere nella deposizione di Romolo Augusto la caduta dell'Impero d'Occidente. Le parole di Marcellino sembrano descrivere la caduta dell'Impero come un processo ormai irreversibile.
Secondo Zecchini, in realtà, è possibile che l'inizio della presa di coscienza sulla finis Romae in Occidente fosse anteriore alla pubblicazione dell'opera di Simmaco. Egli prende a sostegno della propria tesi l'indice degli Imperatori romani da Teodosio I ad Anastasio, un documento in latino compilato tra il 491 e il 518; l'elenco terminava con una frase secondo la quale a partire dal 497 non vi sarebbero stati più imperatori ma soltanto re, e Teodorico veniva definito dal documento "re dei Goti e dei Romani secondo il diritto romano"; inoltre, gli Imperatori sono numerati solo fino a Romolo Augusto, mentre i successivi, Zenone e Anastasio, vengono riportati senza numerazione. È possibile che l'autore del documento, evitando di numerare Zenone e Anastasio, intendesse fare un distinguo tra i veri Imperatori di Roma e gli Imperatori della sola parte orientale successivi alla deposizione di Romolo Augusto. Zecchini, sulla base di tale documento, deduce che «già prima del 518 era chiaro in Occidente che Romolo Augustolo era stato l'ultimo imperatore di Roma».[52] Questa opinione è ulteriormente rinforzata da un passo della Vita di San Severino redatta da Eugippio intorno al 511, laddove si afferma che a quell'epoca l'Impero romano fosse ormai storia passata ("...per id temporis, quo Romanum constabat Imperium...", traducibile con "...perché, a quei tempi, in cui esisteva l'Impero romano..."). Dunque la Vita di San Severino mostra che già nel 511 si riteneva caduto in Occidente l'Impero di Roma; secondo Zecchini, comunque, si dovette attendere la pubblicazione della Historia Romana di Simmaco affinché tale idea si diffondesse anche in Oriente grazie anche alla Cronaca di Marcellino.
Se sia Giordane che Marcellino riconoscono il 476 come la data della caduta dell'Impero romano d'Occidente, o dell'Impero romano con sede a Roma, essi non la riconoscono tuttavia come la data della caduta dell'Impero romano tout court; infatti, esisteva ancora la parte orientale dell'Impero. In effetti Marcellino chiama i Bizantini "Romani" e lo stesso fa Giordane. Nella Romana, redatta nel 551, Giordane afferma che l'oggetto della sua opera sarebbe stato «come lo stato romano cominciò e durò, sottomise praticamente il mondo intero, e sarebbe durato fino ad oggi nell'immaginazione, e di come la serie di re si sarebbe protratta a partire da Romolo, e, successivamente, da Ottaviano Augusto fino all'Augusto Giustiniano».[53] Giordane scrive dunque che l'Impero romano nel 551 era ancora esistente, anche se l'aggiunta "nell'immaginazione" fa pensare che lo storico gotico ritenesse l'Impero ormai l'ombra di se stesso, tanto era declinato. In effetti la conclusione dell'opera è molto pessimistica: dopo aver descritto le devastazioni dei barbari in tutte le province dell'Impero, quelle degli Ostrogoti diTotila in Italia, dei Mauri in Africa, dei Sasanidi di Cosroe I nell'Oriente e degli Slavi nei Balcani, Giordane conclude: «tali sono le tribolazioni dello stato romano a partire dalle incursioni quotidiane di Bulgari, Anti e Slavi. Se qualcuno desiderasse conoscerle, consulti gli annali e la storia dei consoli senza disdegno, e troverà un impero odierno degno di una tragedia. E conoscerà come sorse, come si espanse, e in che modo sottomise tutte le terre nelle sue mani e come le perse di nuovo a causa di sovrani ignoranti. È quello che noi, al meglio della nostra abilità, abbiamo trattato in modo che, tramite la lettura, il lettore diligente possa ottenere una conoscenza più ampia di tali cose».[54]
Verso la fine del VI secolo lo storico ecclesiastico Evagrio Scolastico riportò nella sua Storia Ecclesiastica il seguente commento sulla deposizione di Romolo Augusto:
« Romolo soprannominato Augustolo [...] fu l'ultimo Imperatore di Roma dopo 1303 anni dal regno di Romolo. »
(Evagrio Scolastico, Storia Ecclesiastica, II,16.)
A parte la datazione errata (Romolo Augusto non fu deposto nel 1303 ab urbe condita, ma nel 1229 a.u.c.), si noti che, mentre Marcellino metteva in evidenza il fatto che Romolo Augusto fosse stato l'ultimo della serie di Imperatori d'Occidente iniziata con Augusto, Evagrio lo contrapponeva invece al leggendario fondatore dell'Urbe, Romolo. Si può concludere, pertanto, che, mentre in Occidente si metteva in evidenza il fatto che Romolo Augusto fosse stato l'ultimo Imperatore d'Occidente, in Oriente, dove gli Imperatori continuavano a regnare, «si dirigeva l'attenzione alla fine di Roma come sede dell'impero occidentale».[55]

Altre fonti

In ogni modo, anche se l'interpretazione del 476 come data della caduta dell'Impero di Roma aveva già cominciato a diffondersi, sia in Occidente che in Oriente, nel corso del VI secolo, non tutte le fonti la considerarono una data rilevante. Cassiodoro, nella sua Cronaca, addirittura, sotto l'anno 476, omette di riportare la detronizzazione di Romolo Augusto ad opera di Odoacre. Ciò sarebbe dovuto al fatto che per Cassiodoro, che collaborava conTeodorico, i Goti continuavano la storia di Roma, per cui «la deposizione di Romolo Augustolo non poteva contare molto in siffatta prospettiva»; inoltre, Cassiodoro, probabilmente, voleva evitare il rischio di far passare il proprio datore di lavoro (Teodorico) per un sovrano illegittimo.[55]
Anche nella cronaca universale dell'ispanico Isidoro di Siviglia (redatta nel VII secolo), che arrivava fino ai regni del re visigoto Sisebuto e dell'Imperatore "romano" Eraclio I, la deposizione di Romolo Augusto non viene minimamente accennata, al contrario del Sacco di Roma di Alarico I; anzi, nella parte finale della Cronaca, dove ogni capitolo era dedicato a un Imperatore romano, dopo il capitolo dedicato al regno congiunto di Onorio eTeodosio II, gli Imperatori d'Occidente successivi a Onorio (a parte una breve menzione per Valentiniano III) non vengono nemmeno presi in considerazione, al contrario degli Imperatori d'Oriente, chiamati "Imperatori romani"tout court da Isidoro, a cui tutti i capitoli successivi dell'opera sono dedicati.
Lo storico longobardo Paolo Diacono, invece, nella Historia Romana (redatta nel corso dell'VIII secolo) attribuisce molta rilevanza alla data del 476, considerata come quella della fine dell'Impero romano con sede nella città di Roma, come risulta evidente da due passi dell'opera:
(LA)
« Ita Romanorum apud Romam imperium toto terrarum orbe uenerabile et Augustalis illa sublimitas, quae ab Augusto quondam Octauiano cepta est, cum hoc Augustulo periit anno ab Vrbis conditione millesimo ducentesimo nono, a Gaio uero Caesare, qui primo singularem arripuit principatum, anno quingentesimo septimo decimo, ab incarnatione autem Domini anno quadringentesimo septuagesimo quinto. »
(IT)
« E fu così che questa potenza augustale e l'Impero dei Romani presso [la città di] Roma che aveva dominato l'intero mondo venerabile, che in tempi antichi fu fondato da Ottaviano Augusto, perì con questo Augustolo nell'anno 1209 dalla fondazione della città, nell'anno 517 da Gaio Cesare, che senza dubbio fu il primo ad ottenere l'accentramento del potere [principato] nelle sue sole mani, nell'anno 475 dall'incarnazione del Signore. »
(Paolo Diacono, Historia Romana, XV, 10.)
(LA)
« Cessante iam Romanae urbis imperio utilius aptiusque mihi uidetur ab annis dominicae iucarnationis supputationis lineam deducere, quo facilius quid quo tempore actum sit possit agnosci. »
(IT)
« Avendo già cessato di esistere l'Impero della città di Roma, mi sembra più utile e comodo computare gli anni a partire dall'incarnazione del Signore, essendo possibile che in questi tempi sia un atto conosciuto più facilmente. »
(Paolo Diacono, Historia Romana, XVI,1.)
Tuttavia, Paolo Diacono, come anche Giordane e Marcellino, considera gli avvenimenti del 476 come quelli della caduta dell'Impero romano d'Occidente, o dell'Impero romano con sede a Roma, ma non dell'Impero romano tout court, che formalmente continuava ad esistere in Oriente: come nota Pohl, infatti, la frase con cui l'autore longobardo dichiara caduto l'Impero romano d'Occidente con Romolo Augusto «si riferisce unicamente all'Impero romano a Roma» e per Paolo Diacono «l'Impero chiaramente ancora esisteva, anche se solo nell'Oriente».[56] A conferma di ciò, l'autore longobardo termina la sua opera non con la detronizzazione di Romolo Augusto ma con lariconquista giustinianea dell'Italia, segno che anche gli avvenimenti successivi al 476 a suo avviso facessero parte della storia romana; secondo Pohl, infatti, «non è una coincidenza che la Historia Romana si concludesse con la vittoria di Narsete nel 552 che "restituì l'intera res publica al dominio della res publica"».[57] In effetti, sia nella Storia romana che nella successiva Storia dei Longobardi, Paolo Diacono utilizza prevalentemente il termine Romaniper riferirsi ai Bizantini. Anche Giordane e Marcellino (che del resto è egli stesso bizantino, seppur di lingua latina) fanno lo stesso, come anche gli scrittori occidentali di lingua latina Giovanni di BiclaroIsidoro di SivigliaBeda,Gregorio di Tours e Fredegario. Del resto, gli abitanti dell'Impero d'Oriente definivano se stessi Romaioi (Romani in greco), anche se prevalentemente di lingua greca e non latina, e furono considerati come tali in Occidente fino all'VIII secolo. Fu solo in seguito all'alleanza del papato con i Franchi, che sfociò nell'incoronazione di Carlo Magno ad Imperatore dei Romani nel natale 800, che coloro che fino a poco tempo prima nelle fonti occidentali erano definiti Romani diventarono Graeci e il loro impero Imperium Graecorum.

Cause

Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Caduta dell'Impero romano d'Occidente (storiografia).
Alcuni storici hanno individuato nelle invasioni o migrazioni barbariche la ragione principale del crollo finale dell'Impero romano d'Occidente, pur riconoscendo i limiti interni dello stato romano che agevolarono la caduta.[58] La maggioranza degli studiosi, invece, ha ritenuto che la decadenza e la rovina della pars occidentalis sia dipesa da cause interne, ovvero dalle grandi correnti profonde del mutamento sociale che investirono le strutture economico-sociali e le istituzioni politiche del Tardo Impero romano, fino a provocarne la caduta; tuttavia, secondo alcuni studiosi, ciò non spiegherebbe perché l'Impero romano d'Oriente, pur avendo gli stessi problemi interni di quello d'Occidente (fiscalismo opprimente, cristianesimo, dispotismo), sia riuscito a sopravvivere fino al XV secolo.[59] Altri studiosi ancora (come Peter Brown) hanno, invece, negato il declino ed il crollo dell'Impero, affermando che più che una caduta era avvenuta una grande trasformazione, iniziata con le invasioni barbariche e proseguita dopo la conclusione formale dell'Impero d'Occidente con i regni romano-barbarici. Brown ha sostenuto che tale trasformazione sarebbe avvenuta senza rotture brusche, in un clima di sostanziale continuità. Tale tesi è sostenuta attualmente da numerosi storici, tra cui Walter Goffart.

Esterne

Invasioni barbariche

La fase delle invasioni barbariche che contribuì alla caduta finale dell'Impero romano d'Occidente ebbe inizio nel tardo IV secolo, quando gli spostamenti degli Unni verso l'Europa orientale finirono per spingere altre popolazioni barbariche a invadere i confini dell'Impero per non cadere sotto il giogo unno. La prima avvisaglia della maggiore pericolosità strategica delle invasioni barbariche del V secolo rispetto a quelle dei secoli precedenti si ebbe quando i Goti inflissero una memorabile sconfitta all'esercito romano nella battaglia di Adrianopoli (378), nella quale morì addirittura l'imperatore Valente. Da quel momento in poi i barbari vennero fermati sempre più difficilmente, fino a dilagare del tutto nella parte occidentale dell'Impero nel V secolo.
Le invasioni barbariche, quindi, furono sicuramente la principale causa esterna della caduta dell'Impero. Per lo storico francese André Piganiol (L'Empire Chrétien, 1947) esse furono, anzi, la causa esclusiva della rovina dell'Impero romano d'Occidente. Per lo storico italiano Santo Mazzarino (Fine del mondo antico, Rizzoli, 1988), invece, esse diedero solo la spallata finale a una struttura politica, economica e sociale ormai profondamente logora come quella della pars occidentalis. Infatti le province orientali dell'Impero, che per prime subirono l'urto dei barbari (i Visigoti alla fine del IV secolo dilagarono in Grecia e nei Balcani), non si disgregarono sotto quelle invasioni, ma furono capaci di respingerle ed inglobarle, per poi dirottarle verso la sezione occidentale, che invece sotto quell'urto si sfasciò del tutto.
Per Heather i "limiti interni" dello stato romano agevolarono il successo dei Barbari, ma senza le invasioni barbariche (e conseguenti forze centrifughe dovute ai loro stanziamenti) l'Impero non sarebbe mai caduto solamente per le cause interne:
« Ai limiti interni bisogna dunque dare il giusto peso. Tuttavia, chiunque intenda sostenere che abbiano giocato un ruolo primario nel crollo dell'Impero e che i barbari abbiano solo accelerato il processo deve spiegare in che modo l'edificio imperiale abbia potuto collassare senza un massiccio attacco militare dall'esterno... A mio parere, invece di parlare delle presunte "debolezze" interne al sistema romano che lo avrebbero fatalmente predestinato al crollo, almeno per quanto riguarda la sua metà occidentale, ha più senso parlare dei "limiti" - militari, economici e politici - che gli impedirono di affrontare la particolarissima crisi del V secolo. Limiti interni che indubbiamente dovevano esserci, se l'Impero si dissolse; ma che per di sé non erano sufficienti. Senza i barbari, non ci sono prove del fatto che nel V secolo l'Impero avrebbe comunque cessato di esistere. »
(Heather, La caduta dell'Impero romano, pp. 538-540.)

Interne

Divisione dell'Impero, guerre civili ed imbarbarimento dell'esercito

Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Anarchia militare ed Esercito romano.
Secondo diversi storici l'estensione spropositata dell'Impero lo rese ingovernabile dal centro e la conseguente divisione in una pars occidentalis e una pars orientalis non fece altro che accelerarne la rovina, favorendo i barbari invasori. Lo storico inglese illuminista Gibbon sostenne che a causare il definitivo crollo dell'Impero furono i figli e i nipoti di Teodosio: con la loro debolezza, essi abbandonarono il governo agli eunuchi, la Chiesa ai vescovi e l'Impero ai barbari.
Ma più che la divisione in sé, che finì per rovinare solo la parte occidentale, furono piuttosto i conflitti interni, le continue usurpazioni e lo strapotere politico dell'esercito, che dal III secolo in poi eleggeva e deponeva gli imperatori a proprio piacimento, a minare profondamente la stabilità interna dell'Impero. L'Impero romano d'Occidente, meno coeso socialmente e culturalmente, meno ricco economicamente, meno centralizzato e peggio organizzato politicamente dell'Impero romano d'Oriente, finì alla lunga per pagare questa instabilità di fondo. Fu quindi la mancanza di disciplina dell'esercito, più accentuata nella parte occidentale che in quella orientale, dove il potere centrale era più forte, a risultare una delle cause principali della rovina dell'impero.
La mancanza di disciplina, ovviamente, dipese anche dall'imbarbarimento dell'esercito, divenuto col tempo sempre meno romanizzato e sempre più costituito da soldati di provenienza germanica (anche per riempire i vuoti dovuti al calo demografico e alla resistenza alle coscrizioni da parte dei cittadini romani), integrati nell'esercito dapprima come mercenari a fianco delle legioni e poi, in forme sempre più massicce, come foederati che conservavano i loro modi nazionali di vivere e di fare la guerra. Il risultato fu un esercito romano nel nome, ma sempre più estraneo alla società che era chiamato a proteggere.
Anarchia endemica nella pars occidentalis
Un brillante studioso, Angelo Fusari[60], ha individuato nell'incapacità dell'economia romana di evolvere in un'economia dinamica durante il Principato, nonostante le strutture politiche decentrate e leggere di quel periodo, il difetto che porterà alla decadenza romana. Il ristagno della tecnica, l'assenza di nuovi mercati, la mancanza di una cultura "borghese" impedirono alla classe equestre, attiva nei commerci e nell'industria, di anticipare i tempi di uno sviluppo "capitalistico" dell'economia romana. Tale finestra si chiuse con l'instaurazione del Dominato, che salvò l'Impero dalla disgregazione e dalla crisi economica e politica del III secolo, ma nello stesso tempo si caratterizzerà per il dirigismo economico, la centralizzazione amministrativa e l'irregimentazione sociale. Ebbene, mentre nella pars orientalis il totalitarismo del Dominato venne accolto senza problemi, anche per l'identificazione della Chiesa bizantina con il potere imperiale, la deferenza dell'aristocrazia locale e la millenaria tradizione del dispotismo orientale, nella pars occidentalis l'antica aristocrazia romana e la Chiesa di Roma si misero frequentemente di traverso al potere imperiale, spesso lontano dall'Urbe (sedi imperiali a Milano, Treviri e poi Ravenna) nonostante Roma fosse ancora la città più popolata dell'Impero.
Questi fattori politici, che si innestavano su un'economia impoverita dallo spopolamento, dalla fuga dei coloni dalle campagne e dei borghesi dalle città, dei cittadini e dei contadini da un fisco spietato, contribuirono a portare la società romana in Italia e nelle province occidentali a un forte livello di instabilità. Il rigetto dell'autorità centrale si manifestava in una guerra di tutti contro tutti: l'antica aristocrazia romana contro i vertici di un esercito ormai barbarizzato, i proprietari terrieri contro i coloni che tentavano di sottrarsi alla servitù della gleba, i cittadini ed i contadini dal fisco[61]. L'Impero romano d'Occidente viveva quindi una situazione di anarchia endemica, che indebolì la resistenza dell'Impero alla rinnovata pressione dei barbari.

Declino economico-sociale


La decadenza dei costumi, nella rappresentazione diThomas Couture.
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Economia dell'Impero romanoRicchezza nell'antica Roma e Schiavitù nell'antica Roma.
La storiografia del XIX e del XX secolo ha posto l'accento, invece, sulle profonde questioni di tipo economico-sociale che dal III secolo in poi portarono al progressivo declino della produzione agricola, alla crisi dei commerci e delle città, alla degenerazione burocratica ed alle profonde disuguaglianze sociali, facendo perdere ricchezza e coesione interna all'Impero romano, in particolare alla pars occidentalis, fino alla sua caduta finale nel V secolo. Fu la crisi economico-sociale, insomma, che alla lunga finì per indebolire fatalmente la struttura politico-militare dell'Impero romano d'Occidente, che, già dilaniato dalle guerre intestine (vedi sopra) e devastato da frequenti carestie ed epidemie (allo stesso tempo causa e conseguenza della crisi economica e dell'instabilità politica), alla fine non seppe più resistere con successo alle invasioni barbariche provenienti dall'esterno.
Secondo gli storici di scuola marxista, come Friedrich Engels, l'Impero romano cadde quando il modo di produzione schiavistico, non più alimentato dalle grandi guerre di conquista, cedette il passo al sistema economico feudale basato sul colonato e quindi sulla signoria fondiaria e sulla servitù della gleba tipiche dell'economia curtense del Medioevo.
L'economista e sociologo Max Weber sottolineò la regressione dall'economia monetaria all'economia naturale, conseguenza della svalutazione monetaria, dell'inflazione galoppante e della crisi dei commerci dovuta anche alla stagnazione produttiva ed alla crescente insicurezza dei traffici.
Per lo storico russo Mikhail Rostovtsev fu la ribellione delle masse contadine (fuga dalle campagne) alle élite cittadine a determinare la perdita della coesione sociale interna.
Per altri storici ancora, infine, fu la degenerazione burocratica, caratterizzata dall'endemica corruzione e dall'eccessivo peso fiscale sui ceti medi, a produrre quella profonda frattura sociale tra una ristretta casta di privilegiati (aristocratici latifondisti e vertici della gerarchia burocratica e militare) che vivevano nel lusso estremo e la grande massa dei contadini e dei proletari urbani costretti alla quotidiana sopravvivenza, che alla fine fece perdere all'Impero la compattezza necessaria per evitare il crollo del V secolo.
Recenti scavi archeologici (ad Antiochia) e rilevamenti aerei, tuttavia, hanno dimostrato, afferma Heather, che l'economia del Tardo Impero subì una netta ripresa nel IV secolo, sia in Occidente che in Oriente (anche se l'Oriente era più prospero).[62] Tuttavia, questa ripresa economica era limitata da un "tetto" piuttosto rigido oltre il quale la produzione non poteva crescere: nella maggior parte delle province i livelli di produzione erano già al massimo per le tecnologie dell'epoca.[63] Le finanze dell'Impero e la connessione tra il centro amministrativo e le varie realtà locali si basavano inoltre sulla protezione, con l'esercito e con le leggi, di una cerchia ristretta di proprietari terrieri, i quali ricambiavano l'Impero pagando le tasse. L'arrivo dei barbari portò a forze centrifughe che separarono le realtà locali dal centro dell'Impero. Quando i barbari occuparono le zone interne all'Impero, i proprietari terrieri - sentendosi indifesi e non potendo lasciare la zona occupata dal nemico perché la loro preminenza si basava sulle loro terre (beni immobili) che quindi non potevano abbandonare - si trovarono costretti ad appoggiare i nuovi padroni, nel tentativo di conservare le proprie terre scongiurando una possibile confisca.[64] Inoltre, i ceti inferiori - oppressi dal fiscalismo tardo-imperiale - appoggiarono gli invasori barbari.
Le invasioni barbariche del V secolo provocarono, conseguentemente, una crisi economica nella parte occidentale dell'Impero. La sottrazione di diversi territori al controllo dell'Impero da parte dei barbari e la momentanea devastazione di quelli solo momentaneamente occupati provocarono un repentino crollo del gettito fiscale (fino a 1/8 della quota normale) - dato che le province colpite dalle invasioni, con i campi devastati, non erano più in grado di versare le tasse ai livelli di prima. Nel 450 l'Impero aveva perso il 50% della sua base imponibile e per la carenza di denaro non poteva più schierare un esercito in grado di opporsi con successo alle spinte centrifughe dei foederati germanici, provocando la caduta finale dell'Impero e la formazione dei regni romano-barbarici.

Separatismo provinciale

Un'ipotesi interessante è quella prospettata dallo storico Santo Mazzarino e ripresa dall'economista Giorgio Ruffolo[65]: sotto la superficie apparentemente omogenea della civiltà ellenistico-romana, in realtà emersero progressivamente le antiche nazionalità compresse. Gli effetti di questa spinta si sarebbero manifestati soprattutto nel V secolo in Occidente (in Gallia, in Spagna, in Africa) e soltanto nel VII secolo in Oriente (in Siria ed in Egitto). In questo modo si spiegherebbe la facilità con cui le popolazioni romanizzate si fusero con i conquistatori germanici in Occidente e con i conquistatori arabi in Oriente.
Secondo Heather, per sedare le rivolte interne erano in genere sufficienti pochi reggimenti (il Conte Teodosio riuscì a sedare una rivolta in Britannia nel 368 con solo quattro reggimenti), quindi, senza un massiccio attacco esterno, le spinte autonomistiche non avrebbero mai potuto portare al crollo dell'Impero; solo se tutte le province dell'Impero si fossero rivoltate tutte insieme, un crollo di questo tipo sarebbe stato plausibile.[66]

Cristianesimo

Il cristianesimo viene considerato da alcuni storici e filosofi (soprattutto gli illuministi del XVIII secolo: MontesquieuVoltaireEdward Gibbon) la causa principale della caduta dell'Impero romano d'Occidente. Secondo le loro tesi il Cristianesimo avrebbe reso più deboli militarmente i Romani, in quanto incoraggiando una vita contemplativa e di preghiere e contestando i tradizionali miti e culti pagani, li aveva privati dell'antico spirito combattivo, lasciandoli in balia dei barbari (Voltaire sosteneva che l'Impero aveva ormai più monaci che soldati). Inoltre la diffusione del Cristianesimo aveva scatenato dispute religiose, che alla fine resero l'Impero meno coeso, accelerandone la rovina.
Sembra però piuttosto azzardato concludere che una forza che agì nel senso della coesione nell'Impero romano d'Oriente abbia agito nel senso della disgregazione nella parte occidentale. Non bisogna dimenticare però che le ideologie formulate dagli intellettuali riguardo agli imperatori sono diverse da impero orientale a occidentale. L'Oriente fece propria l'ideologia formulata da Eusebio di Cesarea (basileus sacralizzato), l'Occidente invece quella diAmbrogio e Agostino (imperator pius e non divinizzato, sottoposto alla Chiesa del quale è garante). Non è un caso infatti che fu proprio in Occidente che Teodosio fu costretto a piegarsi supplice per ben due volte di fronte al semplice vescovo di Milano, Ambrogio appunto. È vero, ci sono le testimonianze di un'aperta esultanza di cristiani eminenti come Tertulliano o Salviano di Marsiglia, di fronte alle disfatte e alle invasioni. Ma ci sono altrettante testimonianze di dolore ed amarezza, come quella di san Girolamo. O persino le memorie documentate di vescovi che guidarono la resistenza armata ai barbari, sostituendosi alle milizie romane in fuga. Sant'Agostinorivendicava, invece, che la sola e vera patria dei cristiani era quella celeste e che le città degli uomini rovinavano non per colpa dei cristiani, ma per effetto delle nequizie dei loro reggitori. Sembra potersi dire, quindi, che nell'insieme i cristiani non combatterono i barbari (a differenza che in Oriente, dove il Cristianesimo costituì qualche cosa di simile a un movimento nazionale che si opponeva decisamente ai barbari), ma nemmeno sabotarono l'Impero[67].
Il ruolo del cristianesimo nell'aver partecipato - non determinato - al collasso dell'impero d'Occidente, dovrebbe essere oggi rivalutato, ponendo particolare attenzione:
  • alla disgregazione economica-sociale accelerata da donne e uomini di alto lignaggio (come Priscilliano, le due Melanie, Paola) che, abbandonando il secolo, vendettero intere proprietà;
  • ai contrasti tra funzionari imperiali e vescovi (ad esempio Oreste e Cirillo), e anche tra imperatori e vescovi (Giustina e Ambrogio);
  • agli ideali evangelici che spinsero gli uomini a fuggire il secolo (monaci), che spinsero le donne alla verginità, e quindi al calo della natalità, e a considerare il mondo un pellegrinaggio temporaneo (Agostino) e quindi, sostanzialmente, privo di importanza.
Un ottimo campo di indagine per capire la forza corrosiva del cristianesimo è quello delle leggi di Maggiorano (una delle più famose proibì alle donne di farsi monache prima dei 40 anni, poiché, e l'imperatore lo aveva ben capito, questo stava causando una diminuzione delle nascite, in un momento in cui Roma aveva bisogno di tutte le spade possibili).

Decadenza del Mos maiorum 

Anche la corruzione e l'abbandono degli antichi costumi repubblicani, che avevano reso grande Roma, oltre al dispotismo degli imperatori, ebbero un notevole influsso, secondo alcuni storici, sul declino e la caduta finale di Roma. Secondo Montesquieu ed altri storici, a causa dell'influenza dei molli e corrotti costumi orientali, la società romana finì per abbandonare le tradizionali virtù repubblicane che avevano contribuito all'espansionismo e alla solidità dell'Impero. Le prime avvisaglie della decadenza, quindi, si sarebbero avute già nel I secolo d.C., con la tirannia di imperatori come Nerone, Caligola, Commodo e Domiziano. Una visione che la storiografia romana di ideologia repubblicana, vicina al Senato o tradizionalista (Publio Cornelio TacitoCassio Dione CocceianoAmmiano Marcellino), aveva interesse a diffondere. Tuttavia, anche in questo caso non si spiega perché il dispotico e greco-orientale Impero bizantino riuscì a resistere benissimo alle invasioni barbariche, a differenza dell'Impero d'Occidente.[59]

Note

  1. ^ Goldsworthy, In the Name of Rome, p. 361
  2. ^ Matyszak, The Enemies of Rome, p. 231
  3. ^ Matyszak, The Enemies of Rome, p. 285
  4. ^ Celebre la sentenza finale dello storico Santo Mazzarino: certo, sono stati i barbari a travolgere l'Impero romano, ma «solo le strutture cigolanti cadono sotto l'urto che le colpisce con violenza» (Santo Mazzarino, Fine del mondo antico, Rizzoli, 1988)
  5. ^ Heather, pp. 414-415.
  6. ^ Giordane, 147
  7. ^ a b ProcopioStoria delle guerre di Giustiniano, III.1.2
  8. ^ Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, p. 551
  9. ^ Matyszak, The Enemies of Rome, p. 260
  10. ^ Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, p. 563
  11. ^ Giordane, 154
  12. ^ Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, p. 565
  13. ^ Matyszak, The Enemies of Rome, p. 263
  14. ^ Grant, The History of Rome, p. 324
  15. ^ Grant, The History of Rome, p. 327
  16. ^ Matyszak, The Enemies of Rome, p. 267
  17. ^ Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, p. 589
  18. ^ Giordane, 156
  19. ^ Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, p. 587
  20. ^ Wood, In Search of the First Civilizations, p. 177
  21. ^ Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, p. 560
  22. ^ Churchill, A History of the English-Speaking Peoples, p. 16
  23. ^ Churchill, A History of the English-Speaking Peoples, p. 17
  24. ^ Santosuosso, Storming the Heavens, p. 187
  25. ^ Heather, p. 415.
  26. ^ Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, p. 618
  27. ^ Procopio, Storia delle guerre di Giustiniano, III.1.4
  28. ^ Giordane, 207
  29. ^ Matyszak, The Enemies of Rome, p. 276
  30. ^ Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, p. 489
  31. ^ Giordane, 197
  32. ^ a b Giordane, 222
  33. ^ Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, cap. 35
  34. ^ Heather, p. 416.
  35. ^ Heather, p. 420.
  36. ^ a b Heather, pp. 458-459.
  37. ^ Heather, p. 471.
  38. ^ Procopio suggerisce che Genserico accompagnò la propria richiesta di tregua con una offerta in denaro.
  39. ^ Heather, pp. 488-489.
  40. ^ Heather, p. 495.
  41. ^ a b Gibbon, cap. 36
  42. ^ Bury, Vol. I, pp. 405-406.
  43. ^ Muratori, VII, p. 285
  44. ^ a b Muratori, VII, p. 286
  45. ^ Bury, Vol. I, pp. 406-407.
  46. ^ Bury, Vol. I, p. 407.
  47. ^ Bury, Vol. I, p. 408.
  48. ^ Bury, Vol. I, pp. 408-409.
  49. ^ a b Zecchini, p. 67.
  50. ^ Zecchini, p. 69.
  51. ^ Zecchini, p. 78.
  52. ^ Zecchini, p. 87.
  53. ^ Giordane, Romana, 2.
  54. ^ Giordane, Romana, 388.
  55. ^ a b Momigliano, p. 164.
  56. ^ Pohl, Creating cultural resources for Carolingian rule: historians of the Christian empire, in The resources of the Past in Early Medieval Europe, Cambridge Universitary Press, 2015, p. 31.
  57. ^ Pohl, Creating cultural resources for Carolingian rule: historians of the Christian empire, in The resources of the Past in Early Medieval Europe, Cambridge Universitary Press, 2015, p. 31. Di seguito si riporta il testo originale di Pohl: «it is no coincidence that the Historia Romana ended with Narses' victory in 552 that "returned the entire res publica to the rule of res publica».
  58. ^ Cfr. ad esempio Heather, pp. 537-540.
  59. ^ a b Heather, p. 532.

Bibliografia

  • Arnaldo Momigliano, La caduta senza rumore di un impero, in Sesto contributo alla storia degli studi classici, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1980, pp. 159–165.
  • Ramsay MacMullenLa corruzione e il declino di Roma, Collana Biblioteca Storica, Bologna, Il Mulino, 1991, ISBN 978-88-15-03265-2.
  • Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Torino, Einaudi, 2004. ISBN 88-06-16804-5.
  • Peter Heather, La caduta dell'Impero romano: una nuova storia, Milano, Garzanti, 2006, ISBN 978-88-11-68090-1.
  • Giuseppe Zecchini, Il 476 nella storiografia tardoanticaAevum, Anno 59, Fascicolo 1 (gennaio-aprile 1985), pp. 3-23 (ripubblicato in Giuseppe Zecchini, Ricerche di storiografia tardoantica, Capitolo V, pp. 65-90).
  • Giorgio RavegnaniI Bizantini in Italia, Il Mulino, Bologna, 2004.
  • J. B. Bury, History of the later Roman Empire, Vol. I e II, New York (ristampa), 1958, ISBN 0-486-20399-9.

lunedì 10 ottobre 2016

I gruppi islamisti operanti in Africa



Il panislamismo (in arabo:اتّحاد الاسلام) è un pensiero politico e religioso che auspica l'unione politica di tutti i popoli islamici in un'unica istituzione statale, cioè la Dār al-Islām. La forma di stato più proposta è il califfato.
Il movimento nasce come reazione all'espansionismo occidentale e rivendica di essere una difesa antimperialista e anticolonialista. Difeso dai sultani ottomani, il pensiero panislamista iniziò ad acquistare peso dopo la prima guerra mondiale, influenzando il programma politico del primo movimento islamista della storia moderna dell'Islam, i Fratelli Musulmani.

1) Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim)
2) Gruppi affiliati ad Al Qaeda in Libia ed Egitto
3) Islamisti del Sinai in Egitto
4) Al Shabaab, movimento delle Corti Islamiche in Somalia
5) Boko Haram, movimento terrorista islamico in Nigeria
6) Isis, Stato Islamico della Siria e dell'Iraq con affiliazioni in Libia, Egitto, Tunisia, Algeria, Mali e Niger.

Voci correlate

Trump won the second presidential debate.


According to every poll, except CNN, Donald Trump won the second presidential debate. But the mainstream media mention only the CNN poll.
So, if you want to be well informed, you had to search on line the other polls.
Here above, the Fox channel poll.
Here down the others.




sabato 8 ottobre 2016

Come il pensiero globalista finanziario ha conquistato la Sinistra e l'egemonia culturale


Risultati immagini per egemonia culturale
Prendiamo spunto dall'articolo di Claudio Napoli su "Azione Culturale"  http://www.azioneculturale.eu/2016/09/marxismo-culturale-teoria-critica-analisi-dellevoluzione-un-pensiero/ per ribadire un concetto che ancora molti elettori di sinistra non hanno compreso.

Scrive Claudio Napoli su "Azione Culturale";

"Cosa si intende con «Marxismo Culturale»? Quale è stata le genesi di questo concetto, la sua evoluzione nel secolo passato? Quali sono i suoi esiti nella nostra contemporaneità postmoderna, dove i termini antitetici di «destra» e «sinistra», che hanno dominato il pensiero politico occidentale dalla morte di Hegel sino al crollo dell’Unione Sovietica, hanno perso, oltre alla loro pregnanza ideologica, anche la loro elementare contrapposizione dialettica e, quindi, il loro motivo d’essere?

Rispondere a queste domande è fondamentale per dimostrare che il complesso di idee riconducibili al Marxismo Culturale, attualmente, non solo rinnega i suoi iniziali presupposti teorico-ideologici: esso tutela persino gli interessi delle forze neo-liberali atlantiste che hanno innescato la rovina del marxismo storico ed hanno sferrato colpi devastanti a quelle strutture di tutela ed ordine sociale, caratteristiche non solo delle economie nazionali dell’Europa occidentale prima dell’introduzione della valuta unica, ma anche, in larga parte, di tutte le economie comuniste e socialiste della seconda metà del secolo scorso.

Di regola, si ritiene che il termine «Marxismo Culturale» sia stato coniato nel 1973 da Trent Schroyer, nel suo lavoro «The Critique of Domination: the Origins and Development of Critical Theory». In questo studio, Schroyer critica le posizioni sociologiche della cosiddetta Scuola di Francoforte, ritenendole una fonte di «marxismo culturale», vale a dire di una cultura totalitaria di massa che vincola la coscienza individuale a modelli di pensiero sociale arbitrariamente sacralizzati da tale scuola, i cui «simulacri» sono entrati nel linguaggio comune con marchi come «multiculturalismo», «politicamente corretto», «omofobia» ed altro.

In realtà, le origini storiche e concettuali del Marxismo Culturale sono completamente differenti e vanno fatte risalire al 1919. Un anno tragico per l’ideologia marxista, che vede il fallimento della rivoluzione berlinese e di quella di Budapest. Questi insuccessi spinsero i teorici marxisti Antonio Gramsci e Georg Lukacs a rifletterne sulle cause.

Sebbene Gramsci e Lukacs avessero formulato le proprie ipotesi autonomamente l’uno dall’altro, le conclusioni  cui giunsero furono identiche: i rivoluzionari tedeschi ed ungheresi avevano perso poiché era loro venuto meno, nel momento decisivo, l’appoggio delle masse proletarie. E tale appoggio era venuto meno per un motivo semplicissimo: la psicologia operaia era ancora legata al sistema di valori culturali ed etici della società capitalista, di cui non comprendeva ancora l’estraneità e l’ostilità alla propria natura sociale.

Prima di una definitiva vittoria militare e politica sul capitalismo, era quindi necessario rieducare psicologicamente le masse proletarie e renderle consapevoli dei propri reali interessi di classe, tramite uninfiltrazione sistematica negli organi di potere, di informazione, di educazione ed attraverso l’eliminazione dei principi religiosi, culturali ed etici su cui si fondava l’ordine capitalista.

Di conseguenza, nella sua elaborazione iniziale, il Marxismo Culturale non è altro che una strategia di rieducazione formulata per i soli specifici bisogni della rivoluzione proletaria e svolge una funzione puramente transitoria e strumentale, inquadrata in un rigido progetto di lotta di classe; non ha nulla in comune con le caratteristiche anarchico-cosmopolite che ne avrebbero invece costituito i tratti distintivi (in base alla definizione di Schroyer) nella seconda metà del ventesimo secolo e nella spirale globalizzatrice avviata dopo l’11 settembre 2001.

Come fu possibile un’evoluzione così anomala? Il fattore che determinò la radicale modifica del «genoma» del Marxismo Culturale, adattandolo alle realtà post-belliche occidentali e snaturandone completamente l’essenza, va ricercato nell’attività della già menzionata «Scuola di Francoforte», composta da pensatori come Theodor Adorno, Max Horkheimer, Eric Fromm, Wilhelm Reich ed Herbert Marcuse.

La «Scuola» venne fondata nel 1923 come «Istituto di ricerche sociali» nella città da cui prese il nome, ma raggiunse il suo picco di influenza negli USA (dove i suoi maggiori esponenti -quasi tutti di origine ebraica- avevano trovato rifugio dopo l’ascesa del nazismo in Germania) tramite lo sviluppo della «Teoria Critica».

La Teoria Critica si distanziò dal Marxismo Culturale originario in diversi punti di frattura. Il primo punto corrisponde alla convinzione secondo cui la cultura, contrariamente a quanto sostenevano Marx e i primi teorici del Marxismo Culturale, non era una semplice sovrastruttura della società capitalistica, ma un suo campo autonomo e strutturale.

In tal maniera la «Scuola», pur mutuando da Gramsci e soprattutto da Lukacs (da cui fu sempre fortemente influenzata, essendone stato uno dei padri fondatori) l’attitudine aggressiva verso la cultura occidentale, ne assolutizzò drammaticamente lo spettro d’azione, rivolgendolo non più solo contro quegli aspetti che avevano favorito l’affermarsi della borghesia e del capitalismo, ma contro lo stesso concetto di civiltà europea in sé: l’organica evoluzione millenaria di tale civiltà aveva avuto come sua conclusione logica la comparsa del nazismo e la tragedia del secondo conflitto mondiale.

Per la creazione di una nuova umanità e di un nuovo ordine, essa doveva essere completamente annientata. Come raggiungere un simile scopo? La soluzione venne proposta da Herbert Marcuse a partire dagli anni ’50: in un vago, forse inconscio richiamo alle teorie di Nietzsche, Marcuse consiglia di utilizzare il ressentiment dello «schiavo».

Vale a dire, la cultura occidentale -di regola patriarcale, gerarchica, orientata verso il patriottismo e la sovranità nazionale- deve essere scardinata da forze ad essa interne, ma da sempre discriminate e sottovalutate: le donne, gli omosessuali, gli allogeni di origine non europea, gli studenti.

Da questo progetto viene esclusa la classe operaia: secondo Marcuse, la psicologia operaia non può essere modificata, poiché in Occidente i proletari non aspirano ad altro che a divenire borghesi; il ruolo da essi svolto nell’ascesa del nazismo li ha discreditati completamente e li ha privati del diritto di essere forza attiva nella nuova rivoluzione. Questo secondo termine di frattura indica un tradimento gravissimo della causa marxista ed un reale punto di non ritorno.

Da questo momento la Teoria Critica della Scuola di Francoforte diviene l’assoluta negazione del vero Marxismo Culturale ortodosso, poiché ne delegittima gli scopi e i cardini ideologici ineludibili.

Ed in effetti: nell’idealizzazione del matriarcato (sino alle più ostili estremizzazioni femministe), nella creazione controllata, in Europa e negli USA, di mescolanze etniche dove far predominare fenotipi non caucasici (in altri termini, un genocidio vellutato dell’uomo «bianco», colpevole di aver ideato il nazismo e il fascismo); nella svalutazione di ogni tipo di educazione improntata a modelli di autorità morale e, soprattutto, nel negare ai proletari ogni funzione ed ogni valore nelle nuove dinamiche eversive -insomma, nelle sub-teorie derivate dai postulati fondamentali della «Scuola»- Gramsci e Lukacs avrebbero senz’altro visto, nel migliore dei casi, delle esecrabili derive trotzkiste. Nel peggiore, inammissibili aberrazioni etico-intellettuali di una borghesia occidentale alienata, dove «compagni» universitari di famiglie ricche e borghesi picchiano proletari divenuti poliziotti per sopravvivere.

Ora, il Marxismo Culturale e la Teoria Critica rimangono affini solo nella pars destruens: annullamento di una tradizione culturale ostile e modellamento di un nuovo pensiero sociale di massa tramite accorti metodi di infiltrazione poco visibili all’opinione pubblica, ma inflessibilmente ramificati e capillarizzati. Nella pars construens, la Teoria Critica, a differenza del Marxismo Culturale, mostra invece un grave difetto di sistema che consiste nella completa assenza di un reale vettore teleologico.

Mentre, infatti, il Marxismo Culturale realizza la propria attività di «ingegneria sociale» tramite e verso un gruppo monolitico (la classe proletaria) per il raggiungimento di uno scopo assolutamente concreto (la vittoria del marxismo e della rivoluzione comunista), la Teoria Critica, in virtù delle proprie scelte metodologiche, si trova costretta ad operare attraverso elementi eterogenei, senza istanze sociali comuni (a parte il già menzionato rancore per la cultura dominante), con un sentimento di appartenenza di classe tendenzialmente inesistente, per il raggiungimento di un nuovo sistema dai contorni estremamente ambigui e confusi.

Vale a dire: l’insufficiente assertività nel definire gli scopi effettivi da perseguire, ha posto la Teoria Critica nella necessità di delegare la realizzazione della pars construens, del proprio programma, a terzi fattori che fossero stati in grado di dare una pur minima coesione strategica e concettuale al caotico materiale eversivo proposto. Questa debolezza strutturale ha, potenzialmente, reso la Teoria Critica facile preda di forze sociali estranee ed ostili allo stesso contesto ideologico marxista da cui essa era originariamente sorta. Cosa che si è puntualmente verificata nella realtà storica: il progetto rivoluzionario della «Scuola» è stato ripreso, patrocinato e promosso dai gruppi neoliberali della finanza globale.

Un simile esito è illogico solo in apparenza. In realtà, è profondamente coerente per una serie di ragioni:

1) la Teoria Critica esclude dal nuovo ordine la classe operaia e la classe media occidentale, vale a dire, quegli elementi produttivi della società che la finanza globale, interessata ad avere una forza-lavoro essenzialmente gratuita e priva di diritti, ha sempre visto come naturali antagonisti storici, e le sostituisce con una massa allogena estremamente controllabile e male organizzata;

2) la disunità dei fattori sociali eversivi proposti dalla Teoria Critica li rende strumentalizzabili e dipendenti dal «committente», col solo obbligo per quest’ultimo di conferire loro un prestigio sociale fittizio;

3) l’assenza di un reale vettore teleologico in cui inquadrare il nuovo ordine e l’accentuazione del messaggio di completo affrancamento degli elementi eversivi da ogni tradizionale ordine costituito, permettono al «committente» di creare un caos storico-sociale da utilizzare esclusivamente per i propri scopi (creazione di un proprio nuovo ordine, ironicamente molto più autoritario e livellatore degli ordini tradizionali eliminati);

4) la segretezza delle azioni di condizionamento, riduce esponenzialmente i costi che sarebbero derivati da un confronto diretto con le strutture da influenzare e successivamente eliminare e, allo stesso tempo, assicura un effetto devastante su tali strutture grazie agli strumenti di propaganda indiretta (mezzi di informazione, istruzione universitaria, apparati think-tanks, NGO, industria dell’intrattenimento ecc.) a completa disposizione del «committente» e capillarmente diffusi nei tessuti socio-statali infiltrati.

Sia chiaro: lo schema eversivo della «Scuola», nella sua contemporanea degenerazione globalista, non ha alcuna attinenza alle dinamiche tecniche con cui l’elite bancaria sta delegittimando la sovranità monetaria e politica delle Nazioni. Non è questa la sua funzione.

La Teoria Critica opera esclusivamente sul fattore umano, ed in questo bisogna rendere omaggio alla lungimiranza strategica dei neoliberali: nonostante la sua discutibilità, l’esperimento di ingegneria sociale della Teoria Critica sta avendo infatti un impatto eccezionale nel paralizzare prima, spezzare poi, l’opposizione psicologica del nucleo irrinunciabile delle Nazioni fagocitate -l’uomo europeo. Uomo nel senso di vir, mas, unico reale creatore della civiltà europea grazie alla sua autonomia intellettuale, operosità, creatività, insofferenza ad influenze esterne ed estranee.

La ginecocrazia feroce imposta nelle università (soprattutto nel settore umanistico), i messaggi trasmessi dall’industria dell’intrattenimento e nel campo giudiziario, hanno convinto il vir europeo della propria inconsistenza fisica, intellettuale, morale, giuridica. Il tema gender lo ha convinto dell’inconsistenza della dignità conferita al suo sesso dalla Natura. Il caos seguito alle migrazioni provocate dalle guerre colonialiste della finanza globale, lo ha convinto dell’inconsistenza politica delle Nazioni in cui vive.

La svalutazione e l’anarchizzazione dell’istruzione tradizionale, incentrata sul rispetto gerarchico e sullo studio attento della cultura nazionale, lo hanno convinto dell’inutilità di combattere per la rinascita della propria Nazione, poiché tale istruzione ha prodotto una generazione di politici, docenti universitari, legislatori, economisti, ed intellettuali che ha venduto l’autonomia delle rispettive Nazioni per potere e profitto (la celebre generazione del ’68, insomma), e sta producendo generazioni prive della preparazione e della disciplina necessarie a riacquistare la propria libertà

Ma si stanno toccando ormai argomenti non contemplati negli scopi fissati per il presente articolo, dove ho avuto intenzione di dimostrare un solo fatto: ritenere che il piano di propaganda totalitaria in atto abbia ancora qualcosa del Marxismo Culturale originario ed indica una completa ignoranza della complessa evoluzione di questo concetto."

(di Claudio Napoli, su Azione Culturale, http://www.azioneculturale.eu/2016/09/marxismo-culturale-teoria-critica-analisi-dellevoluzione-un-pensiero/)


Questo analisi molto lucida ed efficace, coglie alcuni punti essenziali che è bene ribadire e approfondire.

Innanzi tutto bisogna prendere atto che il termine "Marxismo culturale" ha assunto un significato ambiguo, nel senso che oggi viene scambiato con gli esiti della Teoria Critica, elaborata dalla Scuola di Francoforte e divenuta poi egemone all'interno dell'intellighenzia di sinistra che ha assunto il controllo di gran parte elle università occidentali e ha contribuito a formare la visione del mondo della maggioranza degli studenti delle ultime generazioni, che sono divenuti poi giornalisti, magistrati, insegnanti, intellettuali e personaggi del mondo dello spettacolo (categorie, queste ultime, che si sono quasi fuse insieme, nell'ultimo quindicennio).

Se è vero, infatti, che la storia ha visto affermarsi l'idea gramsciana secondo cui il marxismo, per raggiungere i suoi obiettivi politici, doveva prima conquistare l'"egemonia culturale" e occupare i settori dell'educazione, della comunicazione e della magistratura, è vero anche che il tipo di marxismo che alla fine si è imposto culturalmente non era affatto quello a cui Gramsci faceva riferimento, e anzi era qualcosa che aveva ben poco a che fare col pensiero marxiano e con le sue prime interpretazioni.

Giustamente l'articolo citato, riferendosi alla Scuola di Francoforte e in particolare a Marcuse, nota che gli interlocutori privilegiati della "nuova sinistra" non siano più i proletari, quanto piuttosto un insieme trasversale di categorie sociali unite da un  comune e forte "risentimento" nei confronti di alcuni pilastri della tradizione occidentale.

Si viene così a creare quella che Harold Bloom, identificando i nemici del Canone Occidentale, chiamò "cultura del risentimento", la quale che comprende le correnti di pensiero elaborate dalle categorie sociali che si sentivano emarginate dalla società patriarcale e dall'egemonia europea.

Negli anni Sessanta e Settanta incominciò il divorzio tra la sinistra intellettuale e il proletariato; secondo la Scuola di Francoforte e l'esistenzialismo di sinistra, il soggetto rivoluzionario non era più il proletario, ma lo studente, e il nemico da abbattere non era più la borghesia, ma la tradizione patriarcale e il principio di autorità nella famiglia, nella scuola e nelle organizzazioni sociali e politiche.

La Contestazione studentesca del periodo 1968-1977 ebbe come bersaglio l'autorità del padre di famiglia, del professore e ogni forma di gerarchia sociale, con effetti di crescente lassismo e disorganizzazione di cui ancora oggi scontiamo le conseguenze.

Furono quegli studenti, laureatisi con grande facilità in un momento in cui i voti universitari venivano estorti con le minacce, a prendere poi il potere nei vari settori previsti dall'egemonia culturale e cioè sistema educativo, sistema informativo e sistema giudiziario.

In apparenza poteva sembrare una vittoria del gramscismo, in quanto la sinistra aveva effettivamente preso il potere nei settori chiave della società, ma, attenzione: non si trattava della sinistra marxista nazional-popolare di cui parlavano Gramsci e Lukacs, bensì della Nuova Sinstra, emersa dalla fusione del pensiero di Marcuse (e della Scuola di Francoforte), con quello dell'intellighenzia francese sia esistenzialista (Sartre), che strutturalista (Barthes, Levy-Strauss, Braudel, Lacan, Althusser, Genette), che post-strutturalista (Foucault, Deleuze, Derrida e i Nuveau Philosophes alla Bernard-Henry Levy).In questo filone si inserirono i filoni della Neoavanguardia (rappresentata in Italia dal Gruppo '63) e i filoni anglosassoni e statunitensi dei Gender Studies (concentrati sui temi del femminismo e dell'omosessualità) e delle Letterature Comparate (estendendo il canone letterario alle culture extraeuropee e delle minoranze etniche).

Dopo la rivolta mondiale del Sessantotto, la nuova sinistra viene progressivamente inglobata nella teoria. 
È in questo mutato scenario che si motiva il crescente interesse di Marcuse per movimenti e tradizioni estranei a quella operaia come l’ambientalismo e, soprattutto, il femminismo radicale. 
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Questa Nuova Sinistra era di tipo "liberal", con istante particolari come il femminismo, la lotta per i diritti della comunità LGBT, la scoperta delle culture extraeuropee, i temi ecologisti, ambientalisti e animalisti.

Il ruolo centrale che la nuova sinistra aveva avuto nella critica della società dell’ultimo Marcuse. Quei movimenti – studenti, minoranze razziali, controculture, lotte anticoloniali – erano i principali protagonisti dello «sfondamento» della stabilizzazione geopolitica del secondo dopoguerra che, soprattutto dopo il Sessantotto, aveva inaugurato una nuova fase storica con molti tratti simili all’epoca attuale. Si sottolineava inoltre come quello sfondamento costituisse per Marcuse anche una sfida e uno stimolo – non senza «imbarazzi» e lacerazioni anche sul piano dei rapporti personali – ad avventurarsi oltre i sentieri consolidati e i presupposti impliciti della «teoria critica» della Scuola di Francoforte.

Ciò che però nessuno aveva messo in conto, era il fatto che il pensiero neoliberale globalista potesse insinuarsi all'interno della Nuova Sinistra, facendo leva su alcuni temi comuni.

I neoliberali globalisti (amici della finanza internazionale) hanno accolto pienamente le rivendicazioni femministe, e in gran parte quelle della comunità LGBT, nonché, almeno in apparenza, le istanze ambientaliste e terzomondiste.
Ma soprattutto hanno fatto passare per appoggio alla società multietnica e al melting pot, quella che in realtà si presenta come una vera tratta di schiavi, volta ad abbassare il costo del lavoro.

Così oggi assistiamo paradossalmente al fatto che l'elite finanziaria globalista e la Nuova Sinistra la pensano allo stesso modo su quasi tutti i temi principali, il che è sconvolgente e non può che significare un inganno da parte del Grande Capitale nei confronti di tutti gli altri.

«Le Grand Remplacement», la grande sostituzione dei popoli.

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"Perché ricorrere alla teoria del complotto quando è tutto così palesemente sotto i nostri occhi? Vale per i danni dell’euro, vale per il suicidio politico ed economico dell’Unione Europea ed anche per la sostituzione di popolo in corso. E a dircelo chiaro e tondo è niente meno che il Fondo monetario internazionale.
In un documento nel quale si criticano le politiche di eccessiva austerity, spiegano dall’Fmi, “Il Patto di Stabilità e Crescita dovrebbe consentire un marginale allentamento dei target di bilancio per contemplare i costi dei rifugiati nel breve termine”. Costi che sono esplosi negli ultimi tempi, fino a superare abbondantemente – almeno per l’Italia – il miliardo di euro l’anno. Tanto che, sottolineano sempre dal Fondo monetario, le spese per gli immigrati potranno arrivare fino allo 0,2% del Pil per quelle nazioni più esposte sulla crisi: Austria, Germania, Finlandia e Svezia. Una cifra di tutto rispetto, ma che secondo i tecnici dell’ente rappresenta quasi un investimento.
Secondo i tecnici dell’ente guidato da Christine Lagarde, infatti, i flussi migratori possono aiutare i conti pubblici, “soprattutto nei paesi alle prese con l’invecchiamento della popolazione”. Lo 0,2% del Pil della Germania, per inciso, sono quasi 70 miliardi di dollari, grazie ai quali altro che problema di invecchiamento, caso mai – con politiche mirate al contrasto della denatalità – si rischierebbe perfino il problema opposto. Una soluzione forse troppo impegnativa per i dirigenti dell’Fmi, che valutano più comodo trasferire centinaia di milioni di persone da un posto all’altro con il risultato di depauperare il primo e sostituire tout court il popolo del secondo. Il tutto con la scusa della recessione, dato che i richiedenti asilo “posso stabilizzare il mercato del lavoro e avere un impatto positivo sulla crescita”. Rifugiati o sedicenti tali considerati alla stregua di un fattore produttivo, mancando peraltro totalmente il bersaglio: la crisi economica europa è una crisi di domanda, per cui affrontarla con modifiche dal lato dell’offerta (nuova forza lavoro, dumping salariale, riforme al patto di stabilità) è inutile e, visti i miliardi investiti, persino controproducente. D’altronde, gli ottimi risultati ottenuti dal Fondo monetario – insieme a Ue e Bce – nella gestione della crisi greca parlano già da soli."
Filippo Burla

http://www.imolaoggi.it/2016/09/22/sostituzione-etnica-la-svezia-che-non-esiste-piu/

La Swedish Organizzazione “IM” (Individuell Människohjälp), una ONG globalista con obiettivi comparabili a quelli della “‘Open Society Foundation” di George Soros , ha rilasciato un nuovo video che promuove apertamente e celebra il genocidio e la sostituzione etnica degli svedesi nel loro stesso paese. Nella pubblicità agghiacciante, che sembra arrivare dritta una da distopico film di fantascienza, ai cittadini svedesi viene detto di accettare il “cambiamento irreversibile” del loro paese e viene richiesto di integrarsi nel “nuovo paese” plasmato da un’immigrazione di massa senza restrizioni dai paesi del terzo mondo.
La scena di apertura dice tutto: “Non si può tornare indietro – La Svezia non sarà mai piu’ quella di una volta”. Accompagnato da una musica rilassante, l’annuncio promuove essenzialmente il genocidio etnico degli svedesi affermando che i “vecchi svedesi ” devono fare posto a “una nuova generazione di svedesi”, frase che è una diretta violazione della Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite del 1948, l’articolo II:
Il genocidio è definito come:
… Uno qualsiasi dei seguenti atti commessi nell’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
(C) sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
(D) misure miranti a prevenire le nascite all’interno del gruppo;
(E) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro gruppo.
Gli svedesi nativi presumibilmente devono imparare a “integrarsi” in “The New Country (nel nuovo paese)”, vale a dire un’utopia multiculturale.
Gli Svedesi etnici non hanno più il diritto di rivendicare che sono svedesi, secondo l’annuncio. Tutti nel mondo possono essere svedesi, “non importa il luogo di nascita, non importa la razza”.
Questo è in diretta violazione dei punti 1, 2, 4, 7 e 9 se 12 dei “12 modi per nascondere un genocidio“, come specificato da Genocide Watch presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti:
1. Mettere in dubbio e ridurre al minimo le statistiche.
Centinaia di migliaia di giovani, africani e arabi maschi si sono riversati in un piccolo paese di soli 8 milioni di abitanti, alterando gravemente il rapporto femmine-maschio nei gruppi di età più giovane. Ovviamente questo non è nulla di cui preoccuparsi, in quanto aumenta solo la “diversità”.
2. Attaccare le motivazioni di chi dice la verità.
Chiunque menziona il genocidio etnico degli svedesi viene accusato di essere razzista, xenofobo, islamofobo sessista e nazista che diffonde espressioni di odio.
4. sottolineare l’estraneità delle vittime.
I bianchi sono responsabili della maggior parte del male del mondo. La civiltà occidentale è la ragione della disuguaglianza e di tutte le cose orribili che accadono in tutto il mondo. L’immigrazione di massa e la loro estinzione è la loro redenzione.
7. Evitare di inimicarsi gli autori dei genocidi
Chiunque  menzioni le ONG come la Open Society Foundations e i loro finanziatori principalmente ebrei come George Soros è un razzista anti-semita.
8. giustificare il rifiuto a favore degli interessi economici attuali.
L’immigrazione di massa  è l’unica soluzione alla crisi demografica. Bassi tassi di natalità degli svedesi etnici possono essere compensati attraverso l’immigrazione di massa.
9. sostenere che le vittime stanno ricevendo un buon trattamento,
La Svezia è un paese ricco! Nessuno sta dicendo che non ci possono essere ancora alcuni svedesi etnici! Gli Svedesi possono ancora essere svedesi, ma devono adattarsi alle nuove tradizioni musulmane!
10. rivendicazione che quel che accade non puo’ essere definito genocidio.
E’ il punto più importante. Chiunque menzioni la violazione della Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite viene ritenuto un teorico della cospirazione.
11. Colpa delle vittime.
Gli svedesi sono razzisti, responsabili per la schiavitù, opprimono le minoranze, sfruttano i lavoratori del 3° mondo e non sono abbastanza tolleranti. La loro cultura è razzista e odiosa. Essi meritano di essere sostituiti.
12. affermare che la pace e la riconciliazione sono più importanti che incolpare le persone per genocidio
Aiutare le persone bisognose è più importante! La pace mondiale può essere raggiunta solo quando i popoli europei saranno sostituiti da un mix multiculturale, privo delle rispettive identità nazionali.
Secondo l’annuncio, il pezzo di terra chiamato “Svezia” è semplicemente uno “spazio sicuro per le persone in cerca di rifugio” (sic!).
Poiché i “vecchi svedesi” sono in via di estinzione a causa di bassi tassi di natalità e le famiglie fuggono da quella nave che affonda che è la Svezia socialista, gli svedesi etnici rimanenti devono essere “tolleranti” e imparare a “convivere” con la visione della futura Svezia – abitata interamente da immigrati del 3° mondo.
Campagne pubblicitarie di manipolazione, che dicono che i nativi dei paesi europei devono accettare i costumi dei migranti, non sono una novità. Alla TV tedesca, gli annunci che incoraggiano le giovani ragazze tedesche a indossare l’hijab sono solo un assaggio della follia dei media di Stato controllati.

Uno dei principali fautori della "sostituzione dei popoli" è il finanziere George Soros.

Ho già accennato a qualcuna delle peculiarità psicologiche di Soros; come i suoi modi narcisisti quando sembra assumere un tono regale e dice “noi”. Atteggiamento che stabilisce bene le distanze quando parla de “Il nostro fallimento collettivo nello sviluppare e attuare politiche efficaci”. Se vuol farci credere che parla come governo, dobbiamo ricordarci che Soros non è mai stato eletto in nessuna nazione.

Ma questo non gli impedisce, tuttavia, di immischiarsi nei nostri affari interni e dare il proprio sostegno a insurrezioni, come le cosiddette rivoluzioni colorate,  in Georgia e Ucraina, o alimentare il caos con il  BLM negli Stati Uniti.

Come si sa ha anche attaccato la sterlina inglese, guadagnandoci un miliardo di dollari.

Soros vuole far sentire il lettore dalla sua parte usando il  “noi”. Ma NOI non siamo inclusi (nel suo mondo); stiamo semplicemente ascoltando quello che ci dice dovrà succedere.

Poi scrive dei “benefici provati  che potrebbe portare una maggior integrazione”. Questo è quasi un enigma di retorica; lui ed i suoi avvocati si aspettano – non senza ragione – che la maggior parte dei lettori interpreteranno, secondo le proprie ragioni, quello che viene scritto. Parla di prova, ma non dà nessuna prova di quello che dice – e questa è una grave omissione,  visto che ci si aspetta che tutto il nostro futuro culturale ed economico si basi sulle sue sole affermazioni.

Molti paesi, tra cui il Giappone, la Cina, UAE, Israele e Singapore, sono estremamente attenti nel concedere la cittadinanza. Se i benefici di cui parla Soros fossero “provati”, sicuramente, anche questi paesi sarebbero dalla sua parte

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