lunedì 1 dicembre 2025

Vite quasi parallele. Capitolo 3. Da Malalbergo alla Padusa. La "catabasi" dei Monterovere dalla Valle di Marmorta alla Palude Definitiva

  




Romano Monterovere osservava il paesaggio nebbioso da una delle finestre della lurida locanda di Malalbergo dove lui e i suoi fratelli maggiori erano alloggiati, nel novembre del 1928, mentre loro padre Enrico era alla ricerca di una nuova dimora per sé e famiglia, dopo aver lasciato definitivamente la loro residenza storica, a Querciagrossa di Pavullo.

La madre di Romano, Eleonora, era a Bologna, con i figli più piccoli, ospite di sua sorella Valentina, che aveva sposato un ricco commerciante, ma di figli non ne aveva avuti ed era ben felice di avere con sé la nuova generazione dei Monterovere.
Il viaggio a cavallo da Bologna a Malalbergo era stato deprimente: aveva diluviato per tutto il tempo, la strada era fangosa, il canale Navile, di fianco, era esondato, come al solito, e a nord c'era il rivale del Reno, che conteneva a malapena le acque minacciose del fiume ingrossato.
Malalbergo si trovava nella zona dove il Navile, le cui acque derivavano dal Reno stesso tramite un canale passante per Bologna, tornavano a confluire nel fiume, cosa piuttosto problematica perché ogni volta che pioveva per più di due giorni, il canale esondava nei campi.










Il nome Malabergo non era solo dovuto alla scarsa reputazione delle locande di quel crocevia tra il bolognese, il ravennate e il ferrarese.
Il vero motivo erano le inondazioni, le paludi, la nebbia d'inverno, le zanzare d'estate, la malaria, il colera, la tisi e le febbri tifoidali.

Il paesaggio odierno è ovviamente cambiato rispetto a quando i Monterovere vi sostarono durante la loro peregrinazione alla ricerca di un nuovo luogo dove vivere.
All'epoca alcune delle innumerevoli bonifiche non erano state ancora concluse, per cui il paesaggio complessivo della Bassa Padana era estremamente diverso da ciò che si può vedere ai giorni nostri.






Non erano state drenate soltanto le paludi salmastre ferraresi a nord-ovest delle Valli di Comacchio, ma anche buona parte dell'enorme, immensa palude Padusa che da tempo immemorabile si trovava al di sotto del Po di Primaro, che fu per molti secoli il ramo più meridionale del delta padano, dove tutti i fiumi dal Secchia in giù faticavano a confluire nelle acque del Primaro stesso e dunque si impaludavano.
La Padusa era così antica che ne parlava persino Plinio il Vecchio, descrivendo l'antico delta, e prima ancora persino Virgilio, che accennava al Po di Primaro chiamandolo "piscosus Amnis Padusae" che secondo la classificazione di Plinio era detto anche Messanico o Vatrenico (poiché vi confluiva il Vatrenus, che oggi si chiama Santerno) che era collegato a Ravenna e al Porto di Classe tramite la Fossa Augusta.





Non abbiamo a disposizione molte fonti per ricostruire la storia della Padusa nei tempi antichi, né per capire se fosse una palus putredinis, un locus orridus o un locus amoenus, ma i riferimenti e le mappe si fanno più numerosi in epoca rinascimentale.
Secondo la famosa biografia di Lucrezia Borgia scritta da Maria Bellonci, la bellissima figlia di papa Alessandro VI, per andare in sposa al Duca di Ferrara, Ercole d'Este, aveva percorso in barca tutto il tratto tra Bologna e la stessa capitale dello stato estense.

Sempre secondo la Bellonci, la duchessa Lucrezia era solita raggiungere Ostellato (all'epoca alle rive delle Valli del Mezzano, l'antico Messanicus), tramite il Po di Volano, dove la raggiungeva, passando tra lagune e canali, il cardinale veneziano Pietro Bembo, suo amante, nonché, illustre diplomatico, letterato e linguista, noto per aver gettato le basi della grammatica italiana nelle Prose della volgar lingua.

Fino a quando Ferrara rimase sotto il dominio estense, la situazione del Delta padano e della palude Padusa rimase invariata secondo uno schema che prevedeva due rami fondamentali del Po (da cui poi se ne distaccavano altri).

Il ramo fondamentale più a nord,  il Po di Venezia (detto anche Po Grande, perché era divenuto il maggiore dopo la rotta d'argine di Ficarolo, o Po di Goro perché sfociava, appunto, presso Goro).

L'altro era il Po di Ferrara, che a sua volta si separava in due rami: il settentionale era il Po di Volano, (l'antico Olana di Plinio, che sfocia al porto di Volano, e da cui si distaccava il Padovetere, detto Spinetico, poiché sfociava presso la città di Spina) nel mezzo delle Valli di Comacchio, canalizzato oggi fino a Porto Garibaldi), il meridionale, a cui abbiamo già accennato è il Po di Primaro, o Vatrenico, il ramo più a sud.






Quando però la linea primogenita degli Este si estinse, il Ducato di Ferrara divenne parte dello Stato Pontificio e da allora i papi iniziarono un ambizioso piano di bonifiche, cambiando il corso del Reno, che all'epoca sfociava nel Po di Primaro, e che venne artificialmente inalveato nel Cavo Benedettino, un canale voluto da papa Benedetto XIV (il bolognese Prospero Lambertini, 1740-1758) con l'intento di far defluire tramite questo nuovo corso del Reno (ormai disgiunto dal delta padano) molte acque della Padusa, che però continuava ad esistere.





Si cercò un ulteriore rimedio creando come scolo di drenaggio il Canale in Destra di Reno, che oggi sfocia a Casal Borsetti e si alimentava delle acque degli scoli a sud di Argenta.



A nord di Argenta e dell'Idice rimasero ancora le paludi e si possono ammirare ancor oggi, essendo divenute un'oasi protetta.
La Padusa quindi non fu mai sconfitta del tutto e la gente del luogo, ogni volta che pioveva troppo, vedeva ricrearsi gli ampi acquitrini e commentava: "Un giorno la palude si riprenderà tutto".
E nonostante si fosse creduto, fino ad alcuni anni fa, che questo fosse impossibile, in realtà le inondazioni e gli allagamenti sono tornati di recente, come sappiamo, anche a causa dell'estremizzazione di alcuni fenomeni climatici attuali.



E gli enormi pesci chiamati Siluri si sono moltiplicati diventando giganteschi, ridando vita ad antiche paure della tradizione orale, tra cui quelle della Borda, una specie di strega mostruosa che viveva nelle zone della Padusa e divorava chiunque incontrasse, specialmente i bambini.
Quando la nebbia calava sulla pianura, i genitori abbassavano la voce: "Non andare vicino all'acqua o al fosso, la Borda ti prenderà." Una semplice frase capace di far rientrare a casa anche il più avventuroso dei bambini.






Queste leggende erano ancora molto temute ai tempi della "Catabasi" dei Monterovere verso la Bassa ravennate.

Romano Monterovere era già spaventato dalle dicerie che si raccontavano nelle locande di Malalbergo, ma non poteva immaginare che suo padre Enrico avrebbe scelto di trasferirsi in una zona ancora più acquitrinosa, dalle parti di Argenta.

Era proprio in quella zona dove le ultime vestigia della Padusa continuavano ad esistere che Enrico Monterovere era riuscito a trovare un podere semi-diroccato con molta terra fangosa attorno, il cui unico pregio, determinante nella scelta, era il prezzo stracciato con cui lo si poteva acquistare.
E così, dimostrando un senso degli affari non molto brillante, Enrico Monterovere comprò proprio quel podere, che si trovava a Sud della Valle di Marmorta e delle Paludi di Argenta, tra il torrente Idice e il Sillaro, in quella che si può a buon diritto considerare la Palude Definitiva della Padusa, poiché esiste ancora come sua ultima rimanenza.



Al giorno d'oggi tutta questa zona è divenuta un vero e proprio Ecomuseo che fa parte del Parco Regionale del Po dell'Emilia-Romagna, così come le Paludi di Ravenna e ciò che resta della Valle Standiana e della Pineta di Classe alla foce del Bevano.
Tuttavia, un secolo prima, ai tempi in cui Enrico Monterovere acquistò quella proprietà, chiamata per ovvie ragioni "Il Podere del Pantano", quella zona era più che altro una torbiera ancora intrisa d'acqua che fino al Seicento era stata la palude B della Padusa, cioè la seconda dall'alto delle mappe.







Una parte di quelle terre era ancora selvaggia, con zone boscose che però non avevano nulla della magnificenza della Selva di Querciagrossa.
Osservando quel paesaggio, Enrico Monterovere rifletteva sulle sue decisioni, e si pentiva, adesso che era, come sempre, troppo tardi.

Gli mancava la sua casa, la sua terra, il suo lavoro.
Lui, sua moglie e i loro nove figli, erano partiti illudendosi di costruirsi una vita migliore in un posto migliore, senza aver programmato nulla se non la direzione del viaggio, verso la pianura, verso la Bassa.
Per secoli i Monterovere erano stati guardacaccia di una nobile famiglia, vicino a una foresta e ad un castello, in una "valle d'elfi e funghi fino al cono diafano della cima".
Guardacaccia e boscaioli, questo era sempre stato il loro ruolo, il loro posto nel mondo, e lassù, presso la selva di Querciagrossa e il castello di Montecuccolo, erano stati guardati con rispetto, per secoli, o almeno col timore reverenziale che si deve a chi è ritenuto discendente di un castellano e di una strega.
Ma già mentre erano in viaggio per la Bassa, avevano capito che al di fuori del piccolo mondo dove avevano sempre vissuto non erano più nessuno.
Niente, nessuno, in nessun luogo, mai.

L'unica cosa che quella terra poteva produrre erano due cose: torba e ghiaia.
Per questo Enrico acquistò anche un piccolo appezzamento di terreno chiamato Cava della Golena del Sillaro, e questo fu l'acquisto migliore perché nelle zone limitrofe si sarebbe espansa un giorno l'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere, che inizialmente fu solo una cava, ma ben presto divenne parte di un progetto più ampio, specie quando, quattro anni dopo, il Regio Decreto 215 del 13 febbraio 1933, "Nuove norme per la bonifica integrale", introdusse, appunto, il concetto di "bonifica integrale", ossia l'integrazione di tutte le opere fondiarie, di qualunque natura tecnica (idrauliche, stradali, edilizie, agricole, forestali), necessarie per adattare terra ed acqua a produzione più intensiva, superando il precedente e più restrittivo concetto di "bonifica idraulica".
Fu allora che, pur rimanendo segretamente antifascisti, i Monterovere vendettero l'anima al diavolo.
Ma tra il 1929 e il 1933 la loro vita fu davvero grama, tra miseria e sconforto.

La casa a due piani sembrava stare in piedi per miracolo. 
Il piano terra era alquanto umido, e la muffa un po' troppo resistente, il seminterrato tendeva ad allagarsi ad ogni temporale, mentre nelle stanze da letto al secondo piano avevano fatto il nido i piccioni.
Rendere abitabile quel tugurio non fu un'impresa da poco, ma in fondo i Monterovere non erano forse stati temprati dai rigori degli inverni appenninici?
Certo, per gente nata negli Appennini, trasferirsi nella Bassa ravennate era un po' come sprofondare nelle sabbie mobili, ma i nove figli di Enrico ed Eleonora, "venuti al mondo come conigli", ognuno a due anni di distanza dal precedente, reagirono a modo loro, in maniera rispettivamente diversa, ma riuscirono comunque ad adattarsi, cosa che invece non accadde per i genitori.

Eleonora, che era sempre stata considerata una donna forte e carismatica, durante il giorno riusciva a mantenere la consueta compostezza, ma di notte cadeva preda di incubi terribili dai quali si svegliava urlando.
Una notte l'incubo coincise con una forma di sonnambulismo che la portò a correre nella stanza dove dormivano le figlie minori, Maura e Renata, e si mise a gridare: "La fossa! Che ci fate voi nella fossa?".
All'epoca nessuno dette troppa importanza a quegli incubi, ma quando, pochi mesi dopo, Maura e Renata si ammalarono quasi contemporaneamente di una forma aggressiva di turbercolosi, il ricordo di quell'incubo risvegliò nei Monterovere la stessa forma di paura che li aveva portati a fuggire dalla selva di Querciagrossa.

Enrico alternava momenti di irascibilità con altri di cupa depressione.
Ad essere sinceri, Enrico Monterovere non era quel che si direbbe un infaticabile lavoratore nessuno, nemmeno sua moglie, era in grado di dire con esattezza di cosa si occupasse, almeno fino al 1934, quando arrivò la grande svolta nella sua vita, la Chiamata dal Sinai, ossia l'assunzione da parte delle Ferrovie dello Stato, presso la ridente stazione di Lugo, non molto vicino al "Podere del Pantano", per cui il patriarca doveva andarci in bicicletta (non era più il tempo dei viaggi a cavallo che furono letali a suo padre), ma un posto nelle Ferrovie valeva questo ed altro.
Infine, riuscì a rimediare una motocicletta scassata.
Il percorso prevedeva soste "di rinfresco" presso tutte le osterie dei vari paesini locali: Conselice, San Patrizio, Massa Lombarda (esistevano un tempo Lombardi in Emilia-Romagna, anche se quelli erano di epoca successiva ai loro antenati Longobardi o Gallo-Italici) e Sant'Agata sul Santerno, l'antico Vatrenus, sempre pronto a tracimare, fino ad arrivare alla città che i Galli Lingoni dedicarono al dio Lugh: Lugo, con la sua ferrovia che da Castel Bolognese portava a Ravenna fermandosi per Bagnacavallo.
Certi maligni insinuavano che quando Enrico Monterovere arrivava al lavoro fosse già completamente ubriaco.
In sua difesa "pro bono publico" diremo che la sua tendenza all'alcolismo era nota, ma solo negli ultimi anni raggiunse quelle proporzioni.

Restava comunque piuttosto nebulosa la natura dell'incarico di Enrico Monterovere presso la Stazione dei treni.
Nessuno lo aveva mai visto con una divisa o una paletta rossa e verde in mano.
Qualche malalingua, però, insinuava di averlo scorto con secchi d'acqua, stracci e scopone, che a volte passava all'ultimogenito Edoardo, mentre lui andava a fare "una pausa" al Caffè, e i soliti maligni dicono che si trattasse di un caffè corretto col Cognac.

Ma si trattava di malelingue, certamente ostili al fatto che un montanaro venuto da chissà dove fosse stato assunto, chissà per quale ragione, presso un'istituzione riverita e forte quale le Ferrovie dello Stato.
In ogni caso, né la moglie, né i figli decisero di indagare ulteriormente sulle mansioni del capofamiglia. 
In fondo un salario alla fine del mese arrivava, e per quanto non fosse gran che, valeva pur sempre il detto: pecunia non olet.