lunedì 1 dicembre 2025

Vite quasi parallele. Capitolo 3. Da Malalbergo alla Padusa. La "catabasi" dei Monterovere dalla Valle di Marmorta alla Palude Definitiva

  




Romano Monterovere osservava il paesaggio nebbioso da una delle finestre della lurida locanda di Malalbergo dove lui e i suoi fratelli maggiori erano alloggiati, nel novembre del 1928, mentre loro padre Enrico era alla ricerca di una nuova dimora per sé e famiglia, dopo aver lasciato definitivamente la loro residenza storica, a Querciagrossa di Pavullo.

La madre di Romano, Eleonora, era a Bologna, con i figli più piccoli, ospite di sua sorella Valentina, che aveva sposato un ricco commerciante, ma di figli non ne aveva avuti ed era ben felice di avere con sé la nuova generazione dei Monterovere.
Il viaggio a cavallo da Bologna a Malalbergo era stato deprimente: aveva diluviato per tutto il tempo, la strada era fangosa, il canale Navile, di fianco, era esondato, come al solito, e a nord c'era il rivale del Reno, che conteneva a malapena le acque minacciose del fiume ingrossato.
Malalbergo si trovava nella zona dove il Navile, le cui acque derivavano dal Reno stesso tramite un canale passante per Bologna, tornavano a confluire nel fiume, cosa piuttosto problematica perché ogni volta che pioveva per più di due giorni, il canale esondava nei campi.










Il nome Malabergo non era solo dovuto alla scarsa reputazione delle locande di quel crocevia tra il bolognese, il ravennate e il ferrarese.
Il vero motivo erano le inondazioni, le paludi, la nebbia d'inverno, le zanzare d'estate, la malaria, il colera, la tisi e le febbri tifoidali.

Il paesaggio odierno è ovviamente cambiato rispetto a quando i Monterovere vi sostarono durante la loro peregrinazione alla ricerca di un nuovo luogo dove vivere.
All'epoca alcune delle innumerevoli bonifiche non erano state ancora concluse, per cui il paesaggio complessivo della Bassa Padana era estremamente diverso da ciò che si può vedere ai giorni nostri.






Non erano state drenate soltanto le paludi salmastre ferraresi a nord-ovest delle Valli di Comacchio, ma anche buona parte dell'enorme, immensa palude Padusa che da tempo immemorabile si trovava al di sotto del Po di Primaro, che fu per molti secoli il ramo più meridionale del delta padano, dove tutti i fiumi dal Secchia in giù faticavano a confluire nelle acque del Primaro stesso e dunque si impaludavano.
La Padusa era così antica che ne parlava persino Plinio il Vecchio, descrivendo l'antico delta, e prima ancora persino Virgilio, che accennava al Po di Primaro chiamandolo "piscosus Amnis Padusae" che secondo la classificazione di Plinio era detto anche Messanico o Vatrenico (poiché vi confluiva il Vatrenus, che oggi si chiama Santerno) che era collegato a Ravenna e al Porto di Classe tramite la Fossa Augusta.





Non abbiamo a disposizione molte fonti per ricostruire la storia della Padusa nei tempi antichi, né per capire se fosse una palus putredinis, un locus orridus o un locus amoenus, ma i riferimenti e le mappe si fanno più numerosi in epoca rinascimentale.
Secondo la famosa biografia di Lucrezia Borgia scritta da Maria Bellonci, la bellissima figlia di papa Alessandro VI, per andare in sposa al Duca di Ferrara, Ercole d'Este, aveva percorso in barca tutto il tratto tra Bologna e la stessa capitale dello stato estense.

Sempre secondo la Bellonci, la duchessa Lucrezia era solita raggiungere Ostellato (all'epoca alle rive delle Valli del Mezzano, l'antico Messanicus), tramite il Po di Volano, dove la raggiungeva, passando tra lagune e canali, il cardinale veneziano Pietro Bembo, suo amante, nonché, illustre diplomatico, letterato e linguista, noto per aver gettato le basi della grammatica italiana nelle Prose della volgar lingua.

Fino a quando Ferrara rimase sotto il dominio estense, la situazione del Delta padano e della palude Padusa rimase invariata secondo uno schema che prevedeva due rami fondamentali del Po (da cui poi se ne distaccavano altri).

Il ramo fondamentale più a nord,  il Po di Venezia (detto anche Po Grande, perché era divenuto il maggiore dopo la rotta d'argine di Ficarolo, o Po di Goro perché sfociava, appunto, presso Goro).

L'altro era il Po di Ferrara, che a sua volta si separava in due rami: il settentionale era il Po di Volano, (l'antico Olana di Plinio, che sfocia al porto di Volano, e da cui si distaccava il Padovetere, detto Spinetico, poiché sfociava presso la città di Spina) nel mezzo delle Valli di Comacchio, canalizzato oggi fino a Porto Garibaldi), il meridionale, a cui abbiamo già accennato è il Po di Primaro, o Vatrenico, il ramo più a sud.






Quando però la linea primogenita degli Este si estinse, il Ducato di Ferrara divenne parte dello Stato Pontificio e da allora i papi iniziarono un ambizioso piano di bonifiche, cambiando il corso del Reno, che all'epoca sfociava nel Po di Primaro, e che venne artificialmente inalveato nel Cavo Benedettino, un canale voluto da papa Benedetto XIV (il bolognese Prospero Lambertini, 1740-1758) con l'intento di far defluire tramite questo nuovo corso del Reno (ormai disgiunto dal delta padano) molte acque della Padusa, che però continuava ad esistere.





Si cercò un ulteriore rimedio creando come scolo di drenaggio il Canale in Destra di Reno, che oggi sfocia a Casal Borsetti e si alimentava delle acque degli scoli a sud di Argenta.



A nord di Argenta e dell'Idice rimasero ancora le paludi e si possono ammirare ancor oggi, essendo divenute un'oasi protetta.
La Padusa quindi non fu mai sconfitta del tutto e la gente del luogo, ogni volta che pioveva troppo, vedeva ricrearsi gli ampi acquitrini e commentava: "Un giorno la palude si riprenderà tutto".
E nonostante si fosse creduto, fino ad alcuni anni fa, che questo fosse impossibile, in realtà le inondazioni e gli allagamenti sono tornati di recente, come sappiamo, anche a causa dell'estremizzazione di alcuni fenomeni climatici attuali.



E gli enormi pesci chiamati Siluri si sono moltiplicati diventando giganteschi, ridando vita ad antiche paure della tradizione orale, tra cui quelle della Borda, una specie di strega mostruosa che viveva nelle zone della Padusa e divorava chiunque incontrasse, specialmente i bambini.
Quando la nebbia calava sulla pianura, i genitori abbassavano la voce: "Non andare vicino all'acqua o al fosso, la Borda ti prenderà." Una semplice frase capace di far rientrare a casa anche il più avventuroso dei bambini.






Queste leggende erano ancora molto temute ai tempi della "Catabasi" dei Monterovere verso la Bassa ravennate.

Romano Monterovere era già spaventato dalle dicerie che si raccontavano nelle locande di Malalbergo, ma non poteva immaginare che suo padre Enrico avrebbe scelto di trasferirsi in una zona ancora più acquitrinosa, dalle parti di Argenta.

Era proprio in quella zona dove le ultime vestigia della Padusa continuavano ad esistere che Enrico Monterovere era riuscito a trovare un podere semi-diroccato con molta terra fangosa attorno, il cui unico pregio, determinante nella scelta, era il prezzo stracciato con cui lo si poteva acquistare.
E così, dimostrando un senso degli affari non molto brillante, Enrico Monterovere comprò proprio quel podere, che si trovava a Sud della Valle di Marmorta e delle Paludi di Argenta, tra il torrente Idice e il Sillaro, in quella che si può a buon diritto considerare la Palude Definitiva della Padusa, poiché esiste ancora come sua ultima rimanenza.



Al giorno d'oggi tutta questa zona è divenuta un vero e proprio Ecomuseo che fa parte del Parco Regionale del Po dell'Emilia-Romagna, così come le Paludi di Ravenna e ciò che resta della Valle Standiana e della Pineta di Classe alla foce del Bevano.
Tuttavia, un secolo prima, ai tempi in cui Enrico Monterovere acquistò quella proprietà, chiamata per ovvie ragioni "Il Podere del Pantano", quella zona era più che altro una torbiera ancora intrisa d'acqua che fino al Seicento era stata la palude B della Padusa, cioè la seconda dall'alto delle mappe.







Una parte di quelle terre era ancora selvaggia, con zone boscose che però non avevano nulla della magnificenza della Selva di Querciagrossa.
Osservando quel paesaggio, Enrico Monterovere rifletteva sulle sue decisioni, e si pentiva, adesso che era, come sempre, troppo tardi.

Gli mancava la sua casa, la sua terra, il suo lavoro.
Lui, sua moglie e i loro nove figli, erano partiti illudendosi di costruirsi una vita migliore in un posto migliore, senza aver programmato nulla se non la direzione del viaggio, verso la pianura, verso la Bassa.
Per secoli i Monterovere erano stati guardacaccia di una nobile famiglia, vicino a una foresta e ad un castello, in una "valle d'elfi e funghi fino al cono diafano della cima".
Guardacaccia e boscaioli, questo era sempre stato il loro ruolo, il loro posto nel mondo, e lassù, presso la selva di Querciagrossa e il castello di Montecuccolo, erano stati guardati con rispetto, per secoli, o almeno col timore reverenziale che si deve a chi è ritenuto discendente di un castellano e di una strega.
Ma già mentre erano in viaggio per la Bassa, avevano capito che al di fuori del piccolo mondo dove avevano sempre vissuto non erano più nessuno.
Niente, nessuno, in nessun luogo, mai.

L'unica cosa che quella terra poteva produrre erano due cose: torba e ghiaia.
Per questo Enrico acquistò anche un piccolo appezzamento di terreno chiamato Cava della Golena del Sillaro, e questo fu l'acquisto migliore perché nelle zone limitrofe si sarebbe espansa un giorno l'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere, che inizialmente fu solo una cava, ma ben presto divenne parte di un progetto più ampio, specie quando, quattro anni dopo, il Regio Decreto 215 del 13 febbraio 1933, "Nuove norme per la bonifica integrale", introdusse, appunto, il concetto di "bonifica integrale", ossia l'integrazione di tutte le opere fondiarie, di qualunque natura tecnica (idrauliche, stradali, edilizie, agricole, forestali), necessarie per adattare terra ed acqua a produzione più intensiva, superando il precedente e più restrittivo concetto di "bonifica idraulica".
Fu allora che, pur rimanendo segretamente antifascisti, i Monterovere vendettero l'anima al diavolo.
Ma tra il 1929 e il 1933 la loro vita fu davvero grama, tra miseria e sconforto.

La casa a due piani sembrava stare in piedi per miracolo. 
Il piano terra era alquanto umido, e la muffa un po' troppo resistente, il seminterrato tendeva ad allagarsi ad ogni temporale, mentre nelle stanze da letto al secondo piano avevano fatto il nido i piccioni.
Rendere abitabile quel tugurio non fu un'impresa da poco, ma in fondo i Monterovere non erano forse stati temprati dai rigori degli inverni appenninici?
Certo, per gente nata negli Appennini, trasferirsi nella Bassa ravennate era un po' come sprofondare nelle sabbie mobili, ma i nove figli di Enrico ed Eleonora, "venuti al mondo come conigli", ognuno a due anni di distanza dal precedente, reagirono a modo loro, in maniera rispettivamente diversa, ma riuscirono comunque ad adattarsi, cosa che invece non accadde per i genitori.

Eleonora, che era sempre stata considerata una donna forte e carismatica, durante il giorno riusciva a mantenere la consueta compostezza, ma di notte cadeva preda di incubi terribili dai quali si svegliava urlando.
Una notte l'incubo coincise con una forma di sonnambulismo che la portò a correre nella stanza dove dormivano le figlie minori, Maura e Renata, e si mise a gridare: "La fossa! Che ci fate voi nella fossa?".
All'epoca nessuno dette troppa importanza a quegli incubi, ma quando, pochi mesi dopo, Maura e Renata si ammalarono quasi contemporaneamente di una forma aggressiva di turbercolosi, il ricordo di quell'incubo risvegliò nei Monterovere la stessa forma di paura che li aveva portati a fuggire dalla selva di Querciagrossa.

Enrico alternava momenti di irascibilità con altri di cupa depressione.
Ad essere sinceri, Enrico Monterovere non era quel che si direbbe un infaticabile lavoratore nessuno, nemmeno sua moglie, era in grado di dire con esattezza di cosa si occupasse, almeno fino al 1934, quando arrivò la grande svolta nella sua vita, la Chiamata dal Sinai, ossia l'assunzione da parte delle Ferrovie dello Stato, presso la ridente stazione di Lugo, non molto vicino al "Podere del Pantano", per cui il patriarca doveva andarci in bicicletta (non era più il tempo dei viaggi a cavallo che furono letali a suo padre), ma un posto nelle Ferrovie valeva questo ed altro.
Infine, riuscì a rimediare una motocicletta scassata.
Il percorso prevedeva soste "di rinfresco" presso tutte le osterie dei vari paesini locali: Conselice, San Patrizio, Massa Lombarda (esistevano un tempo Lombardi in Emilia-Romagna, anche se quelli erano di epoca successiva ai loro antenati Longobardi o Gallo-Italici) e Sant'Agata sul Santerno, l'antico Vatrenus, sempre pronto a tracimare, fino ad arrivare alla città che i Galli Lingoni dedicarono al dio Lugh: Lugo, con la sua ferrovia che da Castel Bolognese portava a Ravenna fermandosi per Bagnacavallo.
Certi maligni insinuavano che quando Enrico Monterovere arrivava al lavoro fosse già completamente ubriaco.
In sua difesa "pro bono publico" diremo che la sua tendenza all'alcolismo era nota, ma solo negli ultimi anni raggiunse quelle proporzioni.

Restava comunque piuttosto nebulosa la natura dell'incarico di Enrico Monterovere presso la Stazione dei treni.
Nessuno lo aveva mai visto con una divisa o una paletta rossa e verde in mano.
Qualche malalingua, però, insinuava di averlo scorto con secchi d'acqua, stracci e scopone, che a volte passava all'ultimogenito Edoardo, mentre lui andava a fare "una pausa" al Caffè, e i soliti maligni dicono che si trattasse di un caffè corretto col Cognac.

Ma si trattava di malelingue, certamente ostili al fatto che un montanaro venuto da chissà dove fosse stato assunto, chissà per quale ragione, presso un'istituzione riverita e forte quale le Ferrovie dello Stato.
In ogni caso, né la moglie, né i figli decisero di indagare ulteriormente sulle mansioni del capofamiglia. 
In fondo un salario alla fine del mese arrivava, e per quanto non fosse gran che, valeva pur sempre il detto: pecunia non olet.












sabato 1 novembre 2025

Vite quasi parallele. Capitolo II. L' enigmatico mistero del nobile Bertoldo Orsini, primo Conte di Romagna, e della fondazione di Casemurate, nell'anno 1278, secondo le "Istorie casemuratensi" di Clara Torricelli da Forlì.

 



Secondo le "Istorie casemuratensi", edite nel 1928 dall'insegnante elementare Clara Torricelli da Forlì (1895-1985), discendente della famosa Eulalia di cui cantano i poeti e coniugata con l'irsuto Giorgio Ricci, detto "Zuarz", agricoltore di successo e uomo d'affari, i manuali di storia sbagliano nel collocare la Romagna sotto il Papato sin dai tempi di Carlo Magno, o addirittura dei genitori di lui, Pipino il Breve e la dama merovingia Bertrada di Laon, detta Berta dal Gran Pié (epiteto di discutibile finezza e appropriatezza). Da qui comincia l'analisi di donna Clara, con l'intento di dimostrare che "soltanto tra il 1278 e il 1509 le Romagne caddero sotto l'effettivo dominio del Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa".

Nella sua fin troppo minuziosa ricostruzione, la signora Ricci affrontava la questione partendo "alla lontana", poiché ogni indagine storiografica, a suo parere, andava condotta risalendo alle cause più remote, e dunque, sostanzialmente, "ab ovo".

"Erano i tempi in cui Berta filava..." recita il famoso incipit delle "Istorie", opera di grande scrupolosità, che tuttavia gli accademici non hanno mai preso troppo sul serio, pur riconoscendo il valore imprescindibile dell'altro saggio storico di Clara Ricci: la biografia della regina Amalasunta.






Venendo al nocciolo della questione, secondo donna Clara, la Promissio Carisiaca del 754 e le donazioni di Pipino il Breve e Carlo Magno rimasero puramente nominali, sulla carta, e non ci sono fonti sufficientemente chiare per stabilire con certezza chi detenesse la vera autorità nella Provincia Romandiolae, dopo la caduta dell'Esarcato bizantino ad opera del Regno Longobardo e dopo la conquista di quest'ultimo da parte del Regno dei Franchi.





Nelle "Istorie" si insiste particolarmente su un punto: molto potere era detenuto dall'Arcivescovo di Ravenna, che, durante la Lotta per le Investiture dei Vescovi, preferì essere alleato con l'Imperatore contro il Pontefice di Roma, di cui rifiutava di riconoscere il primato gerarchico, nonché la dignità di detentore della Sede Apostolica, come riaffermato nel 27 punti del Dictatus Papae di Gregorio VII, nell'Anno Domini 1075.

Quando poi nel 1125 la dignità imperiale passò alla dinastia degli Svevi di Waiblingen, detti Ghibellini, tutti i Comuni e le Signorie romagnole di fede imperiale, tra cui Forlì e Cesena (guidate dai ghibellini Ordelaffi), fecero riferimento prima al Barbarossa e poi a suo nipote, il grande "Stupor Mundi", figlio di Enrico VI e Costanza d'Altavilla, ossia l'imperatore Federico II von Hoenstaufen (1194-1250), duca di Svevia, ("il terzo vento di Suave l'ultima possanza" lo definisce il sommo Dante con la consueta efficacia), che aveva concentrato per eredità nella propria persona molte cariche ed onori: Imperator Romanorum, Rex Teutonicorum et Francorum Orientalium, Rex Langobardorum et Italicorum, et Rex utriusque Siciliae.

Come è noto, sotto il suo lungo regno il potere della fazione ghibellina raggiunse l'apogeo, ma dopo la morte dell'Imperatore, nel 1250, e dopo le sconfitte dei suoi eredi Corrado IV, Manfredi e Corradino, per anni la Germania e l'Italia furono in preda all'anarchia e alle guerre civili che lacerarono tutti i regni componenti il Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca.







Ed è proprio in questa delicata fase che le "Istorie casemuratensi" di donna Clara Torricelli inseriscono un dato essenziale per la nostra narrazione. 

Esse infatti sostengono che la data di fondazione del borgo romagnolo di Casemurate è da far coincidere con il trattato di pace stipulato nel 1278 da Rodolfo I d'Asburgo, Duca d'Austria, Stiria, Carinzia e Carniola, ed eletto dai principi tedeschi Rex Teutonicorum et Romanorum, col Sommo Pontefice Niccolò III Orsini, eletto dai nobili romani come compromesso tra le fazioni opposte dei Caetani e dei Colonna, poiché entrambe le dinastie erano legate per matrimonio con gli stessi Orsini.

Secondo tale patto l'Asburgo rinunciava alle pretese imperiali sulla Romagna, in cambio di una futura (e mai avvenuta) incoronazione imperiale a Roma, da parte di papa Orsini.






La Storia ci insegna che Niccolò III Orsini, per frenare le ambizioni temporali dell'Arcivescovo di Ravenna e assoggettare la provincia Romandiolae al Patrimonium Sancti Petri, come già era avvenuto per le Marche di Ancona e Fermo oltre che per il Ducato di Spoleto, nominò, nel 1278, Conte di Romagna e Governatore di Bologna suo nipote Bertoldo Orsini (1230-1319). 

Tale ingerenza da parte del Pontefice romano non piacque a molti cumuni romagnoli, specialmente alla ghibellina Forlì, ostile al governo degli Orsini e dei delegati papali, tanto che il Conte di Romagna mise la città ribelle sotto assedio da parte delle truppe pontificie con l'aiuto dei Francesi, eterni alleati del Papa.
Fu allora che il condottiero dei forlivesi, Guido da Montefeltro, con un'astuta mossa militare, finse la resa, per poi uccidere gli invasori, cogliendoli di sorpresa mente gozzovigliavano dentro le mura della città, episodio ricordato da Dante che si riferisce proprio a Forlì descrivendola come: "la terra che fe' già la lunga prova / e di Franceschi sanguinoso mucchio" (Inferno XXVI, 43-44).

Sempre Dante, osando collocare papa Niccolò III Orsini all'Inferno per simonia e nepotismo, gli fa dire: 

«...e veramente fui figliuol dell'orsa,
cupìdo sì per avanzar li orsatti,
che su l'avere, e qui me, misi in borsa
(Inf. XIX, 70-72)






Così dunque si esprimono la Grande Storia e la Poesia, ma le minuziose "Istorie casemuratensi" di donna Clara Ricci Torricelli, ci forniscono un dato ulteriore, ossia che il conte Bertoldo di Romagna aveva un parente, non è chiaro se fosse suo fratello minore o suo figlio, di nome Bernardo Orsini, che ebbe l'incarico di presidiare la Romagna centrale, all'epoca terra infida e paludosa, creando una fortificazione in un punto strategico.
Per ottenere la benedizione dell'Arcivescovo di Ravenna e quella del signore della città, Guido da Polenta, Bernardo si avvalse della collaborazione di un nobile ravennate, Rodolfo Spreti, e dell'appoggio diplomatico del cardinale Latino Malabranca Orsini, già Arcivescovo di Manfredonia e poi Legato Pontificio per pacificare la Provincia RomandiolaeAnche quest'ultimo era nipote di papa Niccolò III Orsini, ma tramite la sorella di lui, la potente donna Mabilia Orsini, sposa del senatore romano Angelo Malabranca. 

La scelta del luogo ove far sorgere questa fortezza non fu facile, considerando che la Romagna centrale, nel Medioevo, era tornata ad essere una terra acquitrinosa e selvaggiacon poche e malsicure vie di comunicazione, reliquia delle antiche strade costruite dai Romani secoli prima.

Nei pressi della Palude Standiana o Vallis Candiana (estremo lembo inferiore della Palude Padusa)esisteva un piccolo villaggio attorno all'incrocio di due strade di origine antichissima e cioè la Via Salaria (attuale Cervese di Forlì) e la Via Decumana (attuale Dismano) che collegava e ancor oggi collega Ravenna e Cesena. 





Secondo donna Clara Ricci e i documenti a lei forniti da Sua Signoria Achille Orsini, XVII Conte di Casemurate (1880-1961)furono Bernardo Orsini e Rodolfo Spreti a decidere di fondare in quel luogo, sul finire dell'anno 1278, una vera e propria fortezza, cingendo poi di mura un antico villaggio di cui non conosciamo neppure il nome,  che da quel momento fu chiamato Casa Murata o Case Murate, a seconda delle mappe che si consultano.

Fin dal principio si posero però alcuni problemi, tra cui principalmente la giurisdizione ecclesiastica e quella signorile del borgo fortificato di Case Murate.

La signoria territoriale spettò ai discendenti dei padri fondatori, gli Orsini da Roma ottennero le terre ad ovest del torrente Serachieda, che divideva già da allora il contado forlivese da quello ravennate, e fu per questa ragione che Bernardo Orsini, nell'ottobre del 1278, divenne il primo Conte di Casemurate, col consenso e la benedizione di Santa Romana Chiesa e del Sommo Pontefice, suo zio, e fu consacrato dal vescovo di Forlì, a cui rese omaggio feudale, alla presenza delle principali famiglie forlivesi. In quella circostanza gli fu donato l'anello comitale, che i Conti di Casemurate di Forlì si sono tramandati fino alla morte di Diana Orsini, l'ultima discendente, che donò l'anello al nipote Roberto Monterovere.

Allo stesso modo Rodolfo Spreti fu proclamato Marchese di Casemurate dall'Arcivescovo di Ravenna, che venne a patti con papa Niccolò III Orsini, concendendo alla rivale diocesi di Forlì la giurisdizione congiunta della Parrocchia di Casemurate, la cui Pieve fu dedicata a San Giovanni Battista . L'attuale chiesa, voluta dal vescovo di Ravenna Cristoforo Boncompagni, risale al 1591, e poi trasformata e restaurata nel 1830 a cura di Ludovico Orsini, XV Conte di Casemurate, e Vittoria Spreti, sua sposa che lì fu unita a lui nel sacro vincolo del matrimonio (dinastico).




Fu poi definitivamente stabilito che il confine occidentale la Contea di Casemurate di Forlì fosse segnato dal piccolo torrente Serachieda, affluente del Bevano, mentre Casemurate di Ravenna si trova ad oriente di quel misero fossato, che tutt'ora separa le province di Forlì e Ravenna.

E' motivo di ironia che tra la suddetta e limacciosa Serachieda e lo scolo del Dismano (altro tributario del Bevano, della cui importanza si parlerà in seguito), si trovi al giorno d'oggi l'importantissimo svincolo della Strada europea E45, un asse viario misto di classe A, che attraversa la dorsale europea nord/sud da Capo Nord alla Sicilia, e trova in Italia una importante tratta sulla linea Ravenna-Orte, che conduce a Roma attraverso la valle del Savio e quella del Tevere.



I marchesi Spreti costruirono l'omonima Villa fortificata con tanto di Torretta, immediatamente al fianco della Serachieda. Fino a qualche anno fa Villa Spreti si trovava in una condizione di abbandono, e il parco che la circondava era divenuto un fitto bosco.
Pare che però ci siano stato di recente un restauro dell'intera proprietà.






Morto Niccolò III e i suoi immediati successori, papa Clemente V, da Avignone dove aveva spostato la Santa Sede, affidò al cardinale Napoleone Orsini la carica di Legato Pontificio per la Provincia Romandiolae (1305-1314), il che rafforzò la posizione dei Conti Orsini di Casemurate.
Essi trovarono un buon accordo anche col successivo Legato, il cardinale Bertrando del Poggetto.
Va detto però che vi furono molti scontri per il dominio della Contea di Casemurate, che, per la sua posizione strategica, era bramata dagli Ordelaffi di Forlì, e dalle altre famiglie illustri come gli Sforza, i Medici, i Borgia, i Malatestagli Orsi-Mangelli, i Gagni di Montecscudo e i patrizi Zanetti Protonotari Campi.
E' noto che si ebbe un restauro della Fortezza e delle Mura di Casemurate nel 1412, per volontà Giorgio Ordelaffi, Signore di Forlì, a cui gli Orsini avevano reso omaggio feudale.
Gli Orsini di Casemurate, però, continuarono a godere dell'appoggio dei loro parenti romani, in particolare del cardinale Giovanni Battista Orsini (Roma, 1450 circa – Roma, 22 febbraio 1503), Legato Apostolico e Rettore della Provincia Romandiolæ tra il 1500 e il 1503, quando fu fatto giustiziare per ordine di Cesare Borgia. La successiva rivalità tra gli Orsini e i Borgia terminò con la caduta dei secondi, quando papa Alessando VI Borgia morì avvelenato per una congiura ordita dagli Orsini stessi e dai Della Rovere per vendicare la morte del cardinale e del cugino Paolo Orsini, anch'egli ucciso per ordine del Duca di Valentinois. Eliminati i Borgia, gli Orsini, i Della Rovere, i Medici e i Farnese strinsero un patto per dominare Roma e tutte le sue dipendenze. 
A consolidare definitivamente il potere dei Conti di Casemurate fu il cardinale Alessandro Orsini (Bracciano, 1592 – Bracciano, 22 agosto 1626), Legato apostolico per le Romagne.





I documenti probanti la maggior parte di tali eventi e deliberazioni, secondo la scrupolosa indagine di Clara Ricci, risultavano conservati nell'archivio privato di Achille Orsini, XVII Conte di Casemurate e diretto discendente del fondatore Bernardo.
Tali documenti erano così gelosamente custoditi che, escludendo il Conte e la maestra Clara Torricelli coniugata Ricci, non erano mai stati visti da anima viva e quando, molti anni dopo, a fronte dei dubbi sempre più insistenti riguardo agli eventi in questione, alimentati dai Marchesi Spreti nel tentativo di essere considerati gli unici veri fondatori di Casemurate, se ne chiese pubblica visione,
la vedova del Conte Achille, l'anziana Contessa Emilia, nata Paulucci di Calboli, dichiarò che tali documenti erano andati perduti durante l'ultima guerra, quando la Villa Orsini fu presa di mira sia dai bombardamenti anglo-americani, sia dall'occupazione militare tedesca che fece strame di quella avita dimora di campagna, costruita da Giuseppe Orsini, XVI Conte di Casemurate, per la moglie Adelaide Gagni di Montescudo (con i soldi che lei portò in dote)

Questa circostanza aveva suscitato le ironie di Lucrezia Spreti, eterna rivale di Diana Orsini, figlia del conte Achille e della contessa Emilia.

Lucrezia Spreti rinfacciava a Diana Orsini il fatto che le nobilissime origini dei Marchesi Spreti erano comprovate in maniera inoppugnabile, al contrario di quella dei Conti Orsini di Casemurate.

L'unico motivo per cui il contenuto delle Istorie Casemuratensi non fu messo in discussione dalla storiografia ufficiale potrebbe essere attribuito al numero piuttosto ristretto delle copie stampate, tenendo conto anche delle ristrettezze nelle quali la famiglia dei Conti di Casemurate era venuta a trovarsi e della presunta spilorceria del marito di Clara Torricelli, il suddetto "Zuarz" Ricci.

Nonostante questo, l'opera ebbe molti anni dopo una seconda edizione a cura del pronipote di donna Clara, l'eccentrico Roberto Monterovere, personaggio controverso, bizzoso, lunatico, misantropo e inattendibile da cui prendiamo moralmente le distanze, ma di cui riportiamo qui, un estratto della prefazione alla suddetta seconda edizione delle "Istorie" il cui unico interesse consiste nel riferimento alle voci di stregoneria nelle campagne casemuratensi, a cui si accenna per inciso:

All'epoca in cui la maestra Clara Torricelli incominciò le sue ricerche (intorno al 1910 circa), nella scuola elementare di Casemurate, in cui ella insegnava, c'era una bidella che incuteva timore a tutti, una certa vedova Luisa Bergantini, nata a Villa Inferno nel 1870, donna alta e corpulenta, sì che tutti la chiamavano "la Luisona", appellativo a cui lei non dava alcuna importanza. Ella risiedeva nella "Camaraza", un lurido seminterrato negli alloggi del personale di Villa Orsini, con le due figlie maggiori: Elvira e Iole.
Le altre figlie, Ionne, Ida, Irma ed Ermide, erano state beneficiarie della filantropia di Ludovico Orsini, XV Conte di Casemurate, tramite L'Opera Pia di "Confluentia", che offriva un pasto e un tetto "alle fanciulle disagiate e ai gatti randagi", sotto l'attenta sorveglianza di "anziane signore volenterose" che vivevano stabilmente in quel luogo, grazie ad un sussidio erogato dalla stessa famiglia Orsini, con i proventi ricavati da un'erboristeria che si trovava nei paraggi, gestita dalle stesse anziane, che le malelingue bollavano, non senza ragione, come "streghe".
I ruderi di quel luogo sono da lungo tempo andati distrutti dalle alluvioni, ma l'ubicazione è comunque facilmente reperibile, essendo il punto di confluenza della fossa Torricchia nel torrente Bevano.

(N.d.A. L'estratto completo è reperibile presso il seguente link:

Chi volesse cimentarsi in un molto più attendibile testo sulla storia di Casemurate non può prescindere dal validissimo saggio di Paola Bezzi.





Esiste inoltre una terza interpretazione riguardo alle origini di Casemurate, di cui parla Lucio Gambi, ne "La Casa Rurale nella Romagna" che è nostro dovere riportare:

"Antico e curioso toponimo già citato nella Descriptio Romadiolae del 1371.
Per la sua origine non dobbiamo pensare a punizioni o atti di forza, ma al fatto che, fino al periodo comunale la casa colonica era verosimilmente edificata in legno, ad assi e tronchi, spesso di forma circolare come ai tempi degli antichi Galli Senoni, e solo le fondamenta erano in muratura di sassi cementati con un impasto di terra. 

La rara casa murata, cioè realizzata completamente in muratura, era oggetto di attenzione, tanto che la sua presenza veniva specificata negli atti di compravendita o enfiteusi dei fondi agricoli. Una indicazione di tale genere diede forse origine al toponimo Casemurate, indistintamente dalla destinazione che tale edificio ebbe.
Lo stemma secentesco che troviamo sulla mappa del Coronelli è quello della dinastia Orsini, di origine romana, che qui si infeudò durante il Medioevo"




Ora che abbiamo fin troppo minuziosamente studiato le fonti storiche, la nostra narrazione si concentrerà sulla decadenza degli Orsini, che a causa delle eccessive spese dei conti Ludovico, Giuseppe e Achille, pareva inesorabilmente orientata verso la bancarotta, tanto che l'unico modo per evitare il disastro fu il ricorso alla florida condizione finanziaria della famiglia Ricci, di cui la maestra Clara Torricelli era la "mente" e passava il tempo tessendo in segreto una rete di alleanze e fidanzamenti strategici dei suoi numerosi figli con le declinanti famiglie nobili del contado.
Il marito di Clara, il suddetto e selvaggio "Zuarz" Ricci aveva saccumulato, grazie ai numerosi prestiti concessi al conte Achile, una considerevole quantità di diritti ipotecari sui terreni e persino sulla Villa dei Conti Orsini di Casemurate,  che si trovava nelle vicinanze della confluenza tra il torrente Torricchia e il torrente Bevano, che assorbiva tutte le acque della Romagna centrale.







Da sempre Clara Torricelli coniugata Ricci aveva sognato un'alleanza matrimoniale con gli Orsini di Casemurate, una sorta di patto dinastico volto ad elevare la famiglia Ricci, accogliendola nei "salotti buoni".
L'eterea e raffinata Donna Clara e il bestiale "Zuarz" Ricci si erano a loro volta sposati per un matrimonio combinato, al fine di salvare le sostanze dei Torricelli da Forlì, e, con grande stupore di tutti, quell'unione dettata dall'interesse aveva stranamente funzionato bene, grazie forse alle leggendarie doti amatorie di lui, e la coppia si era data molto da fare, mettendo al mondo molti figli dai nomi rispettabili e talvolta altisonati scelti da lei, tra cui Aristide, Alberico, Ettore, Caterina, Carolina, Adriana e Maria Teresa.

Il preferito di Donna Clara era senza dubbio Ettoreche aveva ereditato dal padre il bernoccolo per gli affari e dalla madre la sconfinata invidia (mista ad ammirazione) nei confronti della famiglia Orsini.

Ma non si trattava solo di una questione dinastica: da tempo Ettore Ricci aveva messo gli occhi addosso alla figlia primogenita del Conte Achille, la bella e raffinata Diana Orsini, che tuttavia, purtroppo, non ricambiava l'interesse del ricco corteggiatore.






Se ci è concessa una similitudine, Ettore Ricci era come il verghiano Mastro-Don Gesualdo, mentre Diana Orsini sembrava uscita da un romanzo di Jane Austin, Emily Bronte o Margaret Mitchell.

Date queste premesse, era già chiaro fin dall'inizio che le cose, per entrambi i giovani e le rispettive famiglie, per non parlare dell'intera Contea di Casemurate, avrebbero preso una brutta piega.

Ma il conte Achille era disperato e temeva di finire sul lastrico, mentre la fortuna della famiglia Ricci lo avrebbe salvato non solo finanziariamente, ma anche politicamente, poiché "Zuarz" Ricci era un fascistone della prima ora, che vantava un'amicizia personale e di antica data col Duce in persona, suo coetaneo e forlivese come lui.
Tali erano le referenze dei Ricci, ma erano gli Anni Trenta del XX secolo, quando certe frequentazioni costituivano motivo di vanto e di potere.

Riguardo tuttavia al progetto di fidanzare Ettore Ricci con Diana Orsini, la stessa contessa Emilia così si esprimeva:
 <<Potremmo riuscirci o non riuscirci, ma sinceramente non so cosa sia peggio>>.