Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
martedì 3 giugno 2014
Bellezza, moda, stile ed eleganza
Eleganza maschile: il trend della stagione
Altri trend della stagione
Bradley Cooper (nodo windsor doppio)
Tom Ford, alfiere del nodo Windsor
Classico trendy, un ossimoro possibile
Nodo Windsor per teen ager con skinny tie in lana
Blue navy outfit con cravatta di seta e nodo windsor
Bow tie
La Ville Lumière
Una rotonda sul mare
Outfit femminili
Eleganza estiva
Eleganza in ambiente floral fairy
Eleganza british country
Charlotte Casiraghi cavallerizza
Maria Elena Boschi da ragazza... irriconoscibile!
Ci sono alcune persone che con gli anni migliorano, una di queste è la più seducente ministra del governo Renzi, la leggiadra Maria Elena Boschi, che da adolescente, alla cresima, era decisamente meno affascinante di quanto è adesso, come la foto qui sopra dimostra in maniera inequivocabile!
Paffuta, tozza, mora, con un trucco pesante, pareva più una nipote di Rosy Bindi.
Ma si sa, il brutto anatroccolo molto spesso è destinato a diventare un cigno.
Qui sotto la vediamo nelle vesti di Maria in un Presepe vivente.
Insomma, per tutti c'è speranza di migliorare!
Mappe geopolitiche dell'Unione Euroasiatica
L'Unione eurasiatica è un' unione politica ed economica tra Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan e altri paesi ex-sovietici nata il 29 maggio 2014.
Membri | Bielorussia Kazakistan Russia |
---|---|
Osservatori | Kirghizistan Tagikistan |
Statistiche complessive | |
Superficie | 20 007 860 km² |
Popolazione | 169 669 400 |
Densità | 8,36 ab./km² |
Fusi orari | UTC+3 - UTC+12 |
Valute | Rublo bielorusso Rublo russo Tenge kazako |
L'idea, ispirata all'integrazione tra i paesi dell'Unione europea, è stata annunciata nell'ottobre 2011 dall'allora presidente russo Vladimir Putin, che riprese una proposta lanciata originariamente dal presidente kazako Nursultan Nazarbaev nel 1994. Il 18 novembre 2011 i presidenti di Bielorussia, Kazakistan e Russia hanno firmato un accordo che stabilisce l'obiettivo di fondare l'Unione eurasiatica entro il 2015.. L'accordo include piani per la futura integrazione e la creazione di una Commissione eurasiatica (modellata sulla base della Commissione europea) e di uno Spazio economico eurasiatico, entrato in vigore il 1º gennaio 2012.
La bandiera provvisoria dell'Unione Eurasiatica è rappresentata nell'immagine sottostante.
Con l'Unione Eurasiatica la Russia di Putin volta le spalle all'Europa e si rivolge verso le economie asiatiche, in particolare la Cina, l'India e l'Iran.
Mentre in Ucraina si continua a combattere e morire, i presidenti di Russia, Bielorussia e Kazakistan firmano il documento che permetterà all’Unione Eurasiatica di partire regolarmente da gennaio 2015.
C'è un legame tra il disastro ucraino e il faraonico progetto di cooperazione economica fortemente voluto dal presidente russo Vladimir Putin: il sangue che si sta versando a Kiev e dintorni ha preso a scorrere quando l’ex presidente ucraino Yanukovich ha rifiutato le proposte di associazione all’Unione Europea e lasciato intendere che prima o poi il paese avrebbe fatto parte dell’altra Unione - quella Eurasiatica, appunto.
Putin e gli altri leader ex sovietici - il bielorusso Lukashenko e il kazako Nazarbaev - avevano da sempre fatto la corte a Kiev affinché questa concentrasse le sue attenzioni verso Est, piuttosto che verso Ovest. Troppo importante l’apporto strategico e economico dell’Ucraina per poterne fare a meno.
Ai 170 milioni di persone, tra russi, bielorussi e kazaki che andranno a formare “un ponte commerciale” tra Europa e Asia (così lo ha pensato Putin) mancheranno i circa 46 milioni di ucraini (abitanti della Crimea esclusi) e la posizione strategica di un territorio dal quale passa gran parte delle condutture energetiche che dalla Russia viaggiano verso il Vecchio Continente.
Sarà comunque un cambiamento epocale, la "nuova realtà geopolitica del XXI secolo", rassicurava il leader del Cremlino dopo la firma del trattato il 29 maggio scorso. Il più grande mercato comune all’interno della Comunità degli Stati Indipendenti (Csi), al quale presto aderiranno anche l’Armenia, il Kirghizistan e il Tagikistan.
Un potente centro di sviluppo regionale - sempre secondo Putin -che prenderà il posto di quell’Unione Doganale che dal 2010 ha convinto, dati alla mano, della validità del progetto: negli ultimi 3 anni gli scambi commerciali tra i paesi membri sono cresciuti del 50% e arrivati a 66,2 miliardi di dollari alla fine del 2013.
I 3 paesi fondatori dell’Unione Eurasiatica possiedono riserve energetiche importanti, pari a 1/5 di quelle globali di gas e al 15% di quelle petrolifere. Un tesoro che attirerà, insieme alle altre potenzialità dei paesi membri, interessi da ogni parte: “La nostra posizione geografica”, assicura Putin, “ci permetterà di creare una rete di trasporti e percorsi logistici d'importanza non solo regionale ma globale, attirando enormi flussi commerciali sia dall’Europa sia dall’Asia.
Scambi, ma soprattutto investimenti esteri dei quali la Russia e gli altri paesi dell’Unione Eurasiatica hanno bisogno per costruire le infrastrutture necessarie a competere su scala internazionale e sviluppare un mercato orientale così ricco di prospettive.
La recente firma del contratto tra Russia e Cina, infatti, per una mega-fornitura di gas russo a Pechino è un primo ma importante segnale di come, anche a seguito degli avvenimenti ucraini, Putin abbia intenzione di spostare il baricentro degli interessi economici e strategici di Mosca dall’Europa verso l’eldorado della regione Asia-Pacifico.
Qui lo attende di nuovo lo scontro con gli Stati Uniti di Obama, decisi a fare della regione l’asse dei propri interessi negli anni a venire.
Per prepararsi alla battaglia il leader del Cremlino ha scelto le armi di un’alleanza finora soltanto “energetica” con la Cina e di una Unione Eurasiatica ancora tutta da valutare. Basteranno?
Mappa geopolitica del Medio Oriente dal primo dopoguerra ad oggi
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, con la caduta dell'Impero Ottomano, il Medio Oriente fu suddiviso in vari stati, ognuno nella sfera di influenza delle potenze vincitrici, nel rispetto degli accordi di Sykers-Picot. In particolare la Francia, che ebbe il mandato sulla Siria e il Libano, e la Gran Bretagna, che ebbe il mandato sulla Giordania, la Palestina e la Mesopotamia
La Siria, il Libano e l'Iraq si presentarono fin dall'inizio come un coacervo di diverse culture e religioni e questo fu all'origine delle numerose guerre che da oltre un secolo hanno caratterizzato l'instabilità mediorientale (insieme al conflitto israelo-palestinese).
Attualmente in Siria è in atto una guerra civile tra i fedeli del presidente Assad e i ribelli.
La guerra civile siriana ha visto una presa di posizione netta delle nazioni confinanti e delle potenze internazionali.
I principali alleati di Assad sono la Russia, l'Iran e l'Iraq, mentre gli altri paesi sono contrari al presidente siriano, così come gli Stati Uniti. L'Unione Europea ha svolto un ruolo di mediazione che ha impedito l'intervento militare di potenze esterne.
Si tratta quindi di un conflitto interno allo stesso mondo islamico, che vede una rivalità tra i due stati che se ne contendono la leadership e cioè l'Arabia Saudita e l'Iran.
Ritenere che in Libia il problema dell’ingovernabilità e della sicurezza possa essere semplificato attraverso la formula dello scontro tra i “cattivi islamisti” da una parte e i “buoni laici” dall’altra è un grossolano errore.
Ancora peggio, in conseguenza della banalizzazione di cui sopra, è considerare che i cattivi islamisti della Fratellanza Musulmana siano lo spin off di al Qaida in Libia, laddove i miliziani del generale Haftar - i "buoni laici" - siano arrivati per liberare il paese e la regione dalla piaga del terrorismo.
A quasi 13 anni dal fatidico 11 settembre 2001 che cambiò il mondo e la fisionomia del Medio Oriente, l’Occidente non si può più permettere di considerare ciò che è al di fuori della propria capacità di comprensione come un generico tutt’uno di radicalismo e terrorismo. Deve al contrario prendere coraggio e affrontare i nodi venuti al pettine delle relazioni con il Medio Oriente, facendo una seria riflessione su chi siano oggi gli amici e i nemici nella regione. Il caso della Libia offre un ottimo spunto per iniziare.
In Libia si ha a che fare con 2 golpe consecutivi, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Il 1° “golpe” sarebbe quello attuato il 5 maggio dalla Fratellanza Musulmana e dai suoi alleati islamisti nel parlamento, attraverso l’elezione Ahmed Maiteeq alla carica di premier, senza i necessari voti della maggioranza del Congresso, a danno del “moderato” Omar al Hassi. Il 2° è quello del 18 maggio, quando l’ex generale Haftar avrebbe liberato Tripoli dagli islamisti imponendo il volere delle forze armate e delle componenti laiche della politica libica.
Nessuno dei due episodi è successo come è stato descritto sopra, sebbene così sia stato riportato da buona parte della stampa.
Innanzitutto, né Maiteeq né al Hassi sono organici alla Fratellanza Musulmana, sebbene entrambi siano stati sostenuti da questa. La contestazione seguita all’elezione di Maiteeq - dovuta al fatto che non sarebbero stati raggiunti i 120 voti del Consiglio necessari per la sua proclamazione - è stata in primo luogo alimentata dalle forze islamiste, che fino a pochi giorni prima avevano ritenuto di individuare un punto d’incontro nella candidatura di al Hassi.
Stante il caos generale, non si è nemmeno chiarito se il conteggio dei voti abbia presentato errori o meno. Resta così pendente il giudizio sulla correttezza della tornata elettorale che ha consacrato Maiteeq primo ministro.
Men che meno quella di Haftar può essere considerata come la cacciata degli islamici fondamentalisti a opera dei laici promotori della democrazia. L’ex generale rappresenta poco più che se stesso, essendo alla testa di una milizia che di fatto non è ai suoi ordini. Soprattutto, non esiste nulla che in Libia oggi venga presentato come “laico”. La distinzione veramente importante è quella tra “islamista” e “non islamista”. Il problema è che ci ostiniamo a leggere le notizie che provengono dalla regione attraverso una lente interpretativa non solo errata, ma anche vecchia di quasi 2 decenni.
Khalifa Haftar è un ex generale dell’esercito di Gheddafi. Classe 1949, di lui si sentì parlare per la prima volta nel 1987, quando venne catturato dalle Forze armate ciadiane durante un combattimento alWadi Doum. Gheddafi l’aveva mandato già da 2 anni a combattere una guerra mai dichiarata contro il Ciad, che si protraeva per inerzia senza che nessuno potesse davvero vincere.
Quando cadde prigioniero, Haftar venne prontamente scaricato dal Colonnello, finendo in un limbo da cui riuscì a emergere passando dalla parte degli oppositori del regime e proponendo la creazione di una forza armata da abbinare all’azione del Fronte nazionale per la salvezza della Libia.
Raccogliendo attorno a sé alcuni militari defezionisti o prigionieri delle forze ciadiane, iniziò a operare sul fronte meridionale della Libia compiendo sporadiche azioni contro le forze di Tripoli, senza tuttavia conseguire risultati significativi sul campo di battaglia. Gheddafi aveva nel frattempo sapientemente fatto circolare informazioni sulla reputazione di Haftar, accusandolo di sevizie e torture sui prigionieri ciadiani prima e su quelli libici poi. Informazioni con ogni probabilità non corrispondenti al vero, in virtù anche della limitata azione bellica condotta, ma in grado in ogni caso di comprometterne la reputazione.
Haftar venne infatti nuovamente scaricato, questa volta dal presidente ciadiano Idriss Déby, all’indomani dell’uscita di scena di Hissène Habrè nel 1990, finendo costretto a un nuovo peregrinare nella regione, tra la Repubblica Centrafricana e lo Zaire. Da qui, con l’aiuto degli Stati Uniti, emigrò in Virginia, dove si ritirerà di fatto a vita privata, conducendo un moderato antagonismo al regime libico, essenzialmente fatto di proclami e insinuazioni.
Nel 2011, tuttavia, con l’inizio delle rivolte a Bengasi, Haftar riapparve all’improvviso in Cirenaica e si propose ai vertici delConsiglio nazionale transitorio come comandante in capo delle costituende forze armate del Cnt. Gli venne preferito il generale Abdul Fatah Younis, già comandante delle forze speciali e figura alquanto stimata tra i ribelli, cui si affiancò Omar Hariri come vice.Gli attacchi verbali anche violenti contro Younis portarono addirittura a includere Haftar nella lista dei sospettati per il suo omicidio, avvenuto a Bengasi nel luglio del 2011.
Nell’impossibilità di acquisire un ruolo politico di rilevo, Haftar ha vissuto in questi tre anni perlopiù a Bengasi cercando di coltivare un piccolo circolo di sostenitori di estrazione militare, progressivamente armatosi e trasformatosi in una della tante milizie che si spartiscono il controllo della Cirenaica. Da questa nuova - assai debole - posizione, Haftar lo scorso 14 febbraio ha annunciato di essere alla testa di una forza militare pronta a riprendere il controllo della situazione, scacciare il terrorismo islamico e ripristinare la legalità e la democrazia. Al proclama non ha fatto seguito alcuna azione sul terreno, tanto che gli stessi libici ironizzano definendolo il "golpe di san Valentino".
Intorno alla metà di maggio, invece, Haftar e i suoi sostenitori hanno ingaggiato un violento scontro con altre milizie di Bengasi - islamiste e non - provocando un centinaio di morti e dando avvio al tentativo del generale d'imporsi come leader della rivolta. Il 18 maggio una delle milizie di Zintan (la Qaqaa) ha dichiarato il proprio sostegno all’ex generale, muovendo verso Tripoli in direzione del Congresso, occupandolo e provocando la sospensione della seduta.
Le milizie entrate a Tripoli, tuttavia, non fanno parte di quelle che Haftar ha armato ed equipaggiato a Bengasi, che da lì non si sono mai mosse; si tratta invece delle milizie di Zintan (tra le quali i resti della 32° brigata delle forze speciali, un tempo al comando di Khamis Gheddafi), che hanno il loro riferimento politico in Mahmud Jibril, leader delle forze non islamiste in parlamento. Questi, in un temporaneo matrimonio di interessi con Haftar, ha colto l’opportunità di ritornare in campo nell’intento di porsi nuovamente alla guida di un esecutivo non islamista, senza riconoscere ad Haftar la supremazia politica della manovra contro le forze islamiste.
L’azione condotta a Tripoli, quindi, non è stata una vera e propria battaglia, ma semplicemente un esercizio muscolare delle milizie di Zintan che, muovendosi dalla loro zona di competenza in prossimità dell’aeroporto, si sono spinte nel centro della città, hanno provocato la fuga del Consiglio, per poi ritirarsi nuovamente sulle posizioni di partenza. Una mossa rapida e non definitivamente traumatica nella gestione degli equilibri di forza della capitale, condotta in modo da non provocare l’intervento a Tripoli delle milizie di Misurata, notoriamente più vicine alle forze politiche islamiste, che avrebbe provocato un bagno di sangue nelle vie della capitale.
Il generale Haftar non ha un proprio radicamento politico in Libia, soprattutto in conseguenza del lungo esilio durato quasi un quarto di secolo, che lo ha estromesso dalle dinamiche sociali di un paese isolato dall’esterno e refrattario sino al 2011 a qualsiasi tipo di influenza esogena. Haftar ha quindi costruito il suo ruolo grazie al sostegno di alcuni finanziatori del Golfo, che vedono in lui uno dei molteplici, possibili baluardi alla proliferazione degli interessi della Fratellanza Musulmana nella regione.
Ed è in questo ambito che viene a delimitarsi la natura dello scontro in atto in Libia – al pari di altri paesi del Medio Oriente. Non si tratta di uno scontro tra forze laico-democratiche da una parte e forze confessionali,radicali e terroristiche dall’altra, ma di una lotta senza quartiere nell’intera regione tra l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti da un lato e la Fratellanza Musulmana sul versante opposto. Quest’ultima con il sostegno più o meno palese del Qatar.
Non è in ballo né la democrazia, né l’interesse allo sviluppo e alla ricostruzione della Libia, ma solo il controllo regionale del predominio della fede islamica. Quest’ultima è sotto attacco - nell’ottica wahhabita - sia dall’eresia sciita sia dal pluralismo politico accettato dalla Fratellanza Musulmana. Si tratta di due modelli che rappresentano l’antitesi della visione dogmatica e ultra-conservatrice del wahhabismo saudita, risultando di conseguenza incompatibili col sistema politico che su questa dottrina poggia la propria legittimazione a Riyadh.
Dal 2011 a oggi tale scontro intra-islamico ha già insanguinato il Medio Oriente, dalla Siria al Bahrein, dallo Yemen all’Egitto: la Libia ela Tunisia sono i restanti due obiettivi da colpire per eliminare gli ultimi baluardi della Fratellanza Musulmana. Tali attacchi avvengono, chiaramente, col supporto del "laicissimo regime democratico" dei militari del Cairo, e di tutti coloro che, a distanza di oltre 10 anni dai disastri politici e militari iracheno e afghano, ancora vedono nell’interventismo militare contro la minaccia islamica la soluzione ai problemi della regione e del mondo.
Haftar rappresenta in Libia esattamente questo. L’illusione, a uso e consumo di un Occidente incapace di comprendere l’evoluzione della società mediorientale, di aver individuato un paladino della democrazia e della legalità, ma soprattutto un laico, nemico dei famigerati terroristi che insidiano il potere a Tripoli. Dalla sua parte la giustizia e la democrazia, dall’altra hic sunt leones.
Allo stato attuale è difficile formulare soluzioni che possano risolvere la pericolosa impasse in cui è piombato il paese all’indomani dell’ultima crisi politica. Come sempre, una soluzione interna sarebbe preferibile a qualsiasi ipotesi di ingerenza esterna. Il problema della Libia odierna, tuttavia, è quello della sicurezza e dell’arbitrarietà derivante dalla proliferazione di milizie e potentati che si spartiscono il territorio, senza alcun interesse a cedere posizioni o trovare formule di raccordo unitario in funzione dell’interesse nazionale.
Sarebbe di fondamentale importanza che la comunità internazionale agisse da mediatore. Essa dovrebbe cioè definire un tavolo negoziale attraverso il quale giungere a un accordo di unità nazionale, favorendo la costituzione di un governo e una road mappolitica condivisa da tutte le forze.
La Libia - dopo la dominazione coloniale, un breve periodo monarchico e oltre 40 anni di dittatura personale di Gheddafi - non deve essere ricostruita, ma costruita. Non esiste, di fatto, un’identità nazionale forte e capace di prevalere sui localismi e i personalismi; deve essere rifuggita in tal solco anche l’idea di una spartizione del territorio in zone d'influenza egiziane e algerine.
Questo è il compito che dovrebbe assolvere la comunità internazionale, dopo aver abbondantemente contribuito al collasso del paese nel 2011 alimentando spinte di disgregazione esterne al contesto sociale nazionale, di cui oggi i libici pagano il doloroso frutto.
Per approfondire: (Contro)rivoluzioni in corso
Nicola Pedde è il Direttore di IGS – Institute for Global Studies.
Karim Mezran è Senior Fellow al Rafik Hariri Center for the Middle East dell’Atlantic Council di Washington DC.
Mappa geopolitica dell'Europa e del Mediterraneo nel 2014
L'Eurozona, in blu, comprende attualmente anche la Lettonia.
I paesi in azzurro sono membri dell'Unione Europea, ma non hanno aderito all'unione monetaria e all'euro.
In rosa c'è la Federazione Russa, che ha annesso la Crimea e controlla varie zone del Caucaso formalmente appartenenti alla Georgia e all'Azerbaigian. La Russia, insieme alla Bielorussia e al Kazakistan ha dato vita all'Unione Economica Euroasiatica, un colosso che mira a ricreare l'area di influenza dell'Unione Sovietica.
In color malva ci sono i paesi balcanici, tra cui la Serbia, alleata storica della Russia.
In rosso c'è la Siria, alleata principale della Russia, in Medio Oriente. Altri alleati della Russia sono l'Armenia e l'Iran.
In arancione ci sono i paesi che si trovano attualmente in una condizione di guerra civile e cioè la Libia e l'Ucraina.
"La balcanizzazione non è più specialità esclusiva della penisola eponima.
Il suo spazio è in rapida dilatazione a partire dal quasi contemporaneo crollo dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia. Dal confine italo-sloveno a quello ucraino-russo, da Trieste a Kharkiv, dal Mare Adriatico al Mar Nero, cent’anni dopo il crollo degli imperi asburgico, ottomano e zarista non c’è quasi frontiera che non sia contestata o contesa.
Partendo dalla disputa fra Slovenia e Croazia sul Golfo di Pirano, che investe direttamente i nostri interessi, si può percorrere per un migliaio di chilometri in direzione est una via balcanica che fende senza soluzione di continuità territori oggetto di contenziosi sordi o vivissimi.
A cominciare da quelli di fatto aperti da Budapest con Slovacchia, Romania, Serbia e Ucraina in odio al trattato del Trianon (1920), di lì passando in Moldova, tanto cara agli apologeti della Grande Romania quanto a sua volta deprivata da Mosca e dalle sue mafie di riferimento della fascia transnistriana, sfociando nell’Ucraina contesa, già amputata della Crimea.
Sempre muovendo da Trieste è istruttivo percorrere la variante meridionale della via balcanica, lungo la dorsale che ci collega a Sarajevo, capitale di uno Stato inesistente, di qui dirigendo verso i contenziosi serboalbanesi, albano-greci, greco-turchi, curdo-turchi e turco-siriani, fino alla partita arabo-israeliana e oltre, verso il Nordafrica o il Medio Oriente.
Lì dove la caduta dell’impero ottomano ha prodotto cent’anni di conflitti permanenti, di cui quello siriano è oggi il più crudele".
La carta propone un quadro d'insieme sull'Europa, il Maghreb e il Medio Oriente nel quale la cifra comune è l'instabilità e la tensione, latente o esplicita. Ciò non soltanto nelle periferie, ma fin al cuore dell'Ue (in blu i paesi dell'Eurozona, in azzurro gli altri Stati membri dell'Ue). I tondi numerati indicano i separatismi: scozzese, basco, catalano, veneto.
Partendo da Trieste e percorrendo la via balcanica meridionale si incontrano altri focolai di tensione: la Bosnia-Erzegovina Stato fantasma (cerchio nero numero 2) e oggetto delle mire croate e serbe (freccia rossa); le mai sopite tensioni greco-albanesi (cerchio nero 3) e quelle greco-turche (circoli frecciati azzurri); i sogni della Grande Albania (trattini rossi); la questione turco-bulgara (cerchio nero 4) e il contenzioso israelo-palestinese (cerchio nero 5).
Il cerchio nero 1 indica la Crimea, propaggine meridionale della tensione che corre lungo la via balcanica orientale. Questa "via" è rappresentata come una linea che conduce da Trieste a Kharkiv, nell'Ucraina oggetto delle pressioni russe (frecce e semicerchi neri). Nel mezzo del percorso due tappe calde sono Budapest e Bucarest, in virtù rispettivamente della questione magiara (frecce gialle) e della pulsione romena verso la Moldova (freccia nera).
L'Ucraina e la Libia sono caratterizzate da una guerra civile a bassa intensità (tratteggio arancione). Attorno alla Libia si trovano l'incertezza algerina (giallo chiaro), la transizione costituzionale tunisina (arancione) e l'instabilità egiziana (giallo) che il neo-eletto presidente, generale al-Sisi, dovrà fronteggiare.
Completano la carta la guerra di Siria (in rosso), il Kurdistan informale (cerchio frecciato bianco) e i tre epicentri della cronica instabilità caucasica: l'Abkhazia (cerchio viola 1), l'Ossezia del Sud (cerchio viola 2) e il Nagorno-Karabakh (cerchio viola 3), conteso tra Armenia e Azerbaigian.
Carta e citazione tratte da "Sonnambuli di ieri e di oggi",
editoriale di 2014-1914: l'eredità dei grandi imperi
editoriale di 2014-1914: l'eredità dei grandi imperi
(3/06/2014)
Iscriviti a:
Post (Atom)