lunedì 28 giugno 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 142. Intanto, a Ravensbourne Mansion...







Lady Elena Richmond, nata Borromeo, Duchessa Vedova di Ravensbourne, era il tipo di donna che oggi alcuni definirebbero utilizzando l'acronimo "milf".
Essendosi sposata in età molto giovane, aveva all'incirca quarant'anni quando rimase vedova.
Il suo modo di portare il lutto era alquanto singolare, almeno a giudicare dai décolleté e dalle altre parti del corpo che si intravvedevano dietro ai tessuti neri di tulle.
In compenso, portava quasi sempre gli occhiali scuri e un foulard altrettanto scuro attorno al collo, nascondendo, con astuta mossa vedovile, i primi segni dell'età.
Quel giorno, lady Elena era profondamente contrariata a causa dell'imminente arrivo di alcuni ospiti, invitati da suo figlio Waldemar per trascorrere alcuni giorni, tra il 10 e il 16 agosto, presso Ravensbourne Mansion, la secolare dimora di famiglia.
Si trattava di un atto disdicevole per vari motivi: primo, il giovane duca Waldemar non aveva chiesto il permesso a lei, sua madre; secondo, era sconveniente fare inviti quando ancora non erano trascorsi neanche due mesi dalla morte del precedente Duca, lord Arthur; terzo, due di quegli ospiti le risultavano sgraditi e sgradevoli per varie ragioni che poi si vedranno.
Non che la cosa fosse una novità: il giovane Waldemar aveva sempre scelto amici discutibili e ambigui, ma quel professore universitario italiano era il più strano di tutti, almeno stando a quel poco che sapeva di lui.
Se fosse stato ancora vivo suo marito, il severissimo e inflessibile Lord Arthur, nessun ospite del genere sarebbe mai stato ricevuto e tanto meno ospitato nella Magione, ma ora che Lord Arthur era morto, il nuovo Duca, suo figlio, aveva ereditato la maggior parte del patrimonio, e lady Elena doveva scendere a patti con lui.
La stessa Ravensbourne Mansion era al 51% di proprietà di lord Waldemar, e dunque lei non poteva più mettere il veto sugli ospiti del figlio.

E dire che lady Elena aveva dedicato i suoi anni migliori alla difesa della Magione di famiglia da tutto il resto del mondo.
Si trattava di una battaglia persa in partenza, considerata l'infelice ubicazione della proprietà.
O meglio, era diventata infelice nel cinquantennio precedente, quando le periferie degradate della parte di Londra "a sud del Fiume", si erano estese a dismisura come "le metastasi di un cancro", diceva lei.

Per definizione, anzi per postulato, tutto ciò che, a Londra, si trovava a sud del Tamigi, era considerato socialmente inferiore, anzi infimo, tanto che ci si esprimeva dicendo "quella ragazza è nata dalla parte sbagliata del Fiume, non potrà mai sposare un uomo perbene".

Quando, cinque secoli prima, Ravensbourne Mansion era stata costruita, nei pressi di Keston, alle sorgenti del fiume Ravensbourne, nella scomparsa Contea del Middlesex (sostituita nel 1965 dalla regione metropolitana della Greatest London), era molto distante dalla capitale, considerando che in quei tempi remoti, l'unico sobborgo londinese a sud del Tamigi era quello di Southwark, e il resto era aperta campagna.

I Richmond, creati Cavalieri ereditari ai tempi di Enrico VII, divenuti Baroni di Holwood sotto Enrico VIII, avevano incominciato ad accumulare proprietà terriere e titoli nobiliari per la loro fedeltà alla Corona, qualunque fosse il sovrano regnante e così erano diventati anche Visconti di Keston sotto Edoardo VI, e successivamente Conti di Middlesex durante il regno Elisabetta I.
Riuscirono a conservare terre e titoli sotto la dominazione di Cromwell e divennero influenti, presso la Camera dei Lord, ai tempi di Carlo II e della regina Anna.
Non presero mai partito, mantenendosi equidistanti dai Whigs e dai Tories. Il loro voto era sempre a disposizione del migliore offerente, più o meno come quello dell'attuale Gruppo Misto del Senato italiano.
Ai tempi di Giorgio I, la loro devozione al Casato degli Hannover, era stati premiata con la "promozione" a Duchi di Ravensbourne, da intendersi come Signoria territoriale sull'intero bacino idrografico dell'omonimo fiume, affluente meridionale del Tamigi, nel quale si immette tra Deptford e Greenwich, col nome di Deptford Creek, nella giurisdizione di Lewisham, ora parte integrante di Londra, nella periferia di sud-est.







La Ravensbourne Mansion era un maestoso edificio in stile Tudor, costruito sulle rive del lago di Keston, detto Keston Pond.
La Magione si trovava inoltre al centro della foresta di Holwood, riserva di caccia della famiglia, così come il lago e il fiume erano riserve di pesca.
Oltre la foresta, un tempo, c'erano i campi coltivati di proprietà del Duca e tanti piccoli villaggi, tutti appartenenti all'ex contea di Middlesex, e cioè Hayes, Locksbotton, West Wicham, ognuno alla sorgente di un fiumiciattolo tributario del Ravensbourne, come gli abitanti del villaggio erano tributari dei Duchi-Conti, che ad ogni generazione ampliavano il loro maniero, facendolo diventare un palazzo vero e proprio.

L'edificio era stato ristrutturato in età vittoriana, creando una vera e propria delizia architettonica: la parte retrostante del palazzo, che già poggiava su un terrazzo di fronte al lago, vicino al punto dove attraccavano le barche, fu ampliata con due scalinate, ai due lati del terrazzo stesso, di cui una conduceva al porticciolo e l'altra a una lunga banchina che fiancheggiava il lago e poi il fiume Ravensbourne.






La Magione era composta dall'edificio centrale, a forma rettangolare, con ampio cortile interno, più altri edifici minori che erano stati costruiti più di recente.
Il tutto era circondato da un parco esterno, da una siepe e poi dalla foresta di Holswood, oltre la quale c'erano i campi coltivati.
Questo era il Ducato di lady Elena, e qui il mondo esterno non era mai arrivato tranne alcuni casi specifici: personale di servizio, ospiti, turisti a pagamento (ed era un cospicuo pagamento!) e guardie forestali.
Di spazio ce n'era, considerando che la Mansion, già enorme di per sé, aveva un grande cortile interno, con fontane, laghetti con pesci rossi e ninfee, e un vero e proprio giardino acquatico che rivaleggiava con quelli di Kensington Gardens e Hyde Park e costituiva, almeno nelle intenzioni, una Orangerie, ossia un giardino d'inverno, poiché molte delle sue piante, nel periodo invernale, venivano trasferite nella serra adiacente.
















L'acqua dei laghetti del giardino fluiva, oltre le fitte grate, in condutture sotterranee che la immettevano nel lago di Keston.
Un angolo conservava tracce di mura risalenti al Quattrocento, con alcune porte ogivali.
Quelle mura erano state integrate nell'ambito di strutture più recenti.
Una mirabile porta ogivale in stile gotico collegava il cortile interno col parco esterno.
Quest'ultimo aveva un aspetto più moderno, ma sempre intonato con il resto della Magione.
C'era una dependance vittoriana con elementi neogotici ed altri più recenti, man mano che tale edificio veniva ampliato.
La sua funzione era diventata, per volontà di lady Elena, quella di proteggere e affiancare un moderno "angolo piscina" comprendente un numero di vasche da far invidia a quelle di Maria Antonietta Visconti-Ordelaffi.
L'acqua clorata fuoriusciva con decisione da una grande vasca idromassaggio, per poi fluire verso una spirale molto bassa, adatta per i bambini piccoli.
Subito dopo c'era un'altra piscina lunga e stretta, a cui si accedeva con dei gradini, ed era lì che Waldemar aveva imparato a nuotare.
Nelle altre costruzioni che erano state affiancate alla dependance originaria, c'erano altre due piscine di tipo natural pool, una piccola e una grande più profonda, con acqua leggermente più fresca e un fondale di colore blu scuro.
L'enorme ricchezza dei Ravensbourne avrebbe potuto ambire a ben altro, ma lady Elena preferiva destinare le risorse negli impianti di sicurezza e nella protezione dei confini.









L'angolo piscina a sua volta confinava con un grande prato, attorniato da siepi ben curate, con cespugli, aiuole e panchine.
Da una scalinata si accedeva prima ad un boschetto ben curato, confinante con il lago e con il ruscello che lo alimentava e che costituiva il ramo originario del fiume Ravensbourne.
Seguendo controcorrente il corso del ruscello ci si inoltrava nella foresta e da lì si poteva raggiungere la sorgente del Ravensbourne.
Come tutte le sorgenti attuali, anche quella era stata modificata e "regimata" dall'intervento dell'uomo.
L'acqua proveniva dal basso, e un cerchio di pietre creava un laghetto intorno alla sorgiva, chiamato, piuttosto pomposamente, Caesar's Well (da non confondere con l'omonimo che si trova a Wimbledon).

Dal Pozzo di Cesare, l'acqua di sorgente era incanalata fuori dalla foresta, diventando un ruscello che entrava nel boschetto del parco attraverso una cascatella, per poi raggiungere il lago e fuoriuscirne come torrente destinato a diventare fiume.










Ma tutto questo, a Elena Richmond, nata Borromeo, Duchessa Vedova di Ravensbourne e Contessa Vedova di Middlesex, non bastava.
Non era una questione di ampiezza della Magione o delle sue proprietà annesse, no, era più che altro una questione d'onore, di prestigio, di gloria che doveva essere associata al Ducato di Ravensbourne.
Già il fatto che la proprietà si trovasse a sud del Tamigi non era mai stato motivo di vanto, persino nei tempi migliori, ma fino al Settecento non era stato nemmeno motivo di vergogna. 
A quell'epoca i nomi dei borghi e dei villaggi circostanti evocavano idilli agresti e pittoreschi, non certo periferie degradate o anonimi aggregati di New Towns.
Poi però Londra, "la Meretrice di Babilonia" (così si esprimeva lady Elena in toni apocalittici), aveva esteso i suoi tentacoli sempre più a sud.

Greenwich e Lewisham erano stati i primi borghi a sud del fiume ad essere inglobati nella capitale, "diventandone l'immondezzaio" (sono sempre parole della Duchessa Vedova).
Il degrado, in effetti, era stato inesorabile.
Poi era toccato al borgo di Bromley ad essere inglobato.
Il nome di quel luogo era diventato sinonimo di degrado, povertà e delinquenza.
Infine erano sorte le New Town, che avevano inglobato l'antico villaggio di Hayes (ad ovest) e quello di Lockbottom (ad est).
Quei tentacoli fatti di minuscole villette si erano insinuati sempre più a sud, ma qui avevano incontrato la resistenza della Duchessa di Ravensbourne.

Le notevoli ricchezze della famiglia le avevano permesso di mantenere il controllo dell'intera foresta di Holwood, del villaggio di Keston, dei boschi circostanti, e dei campi coltivati a sud della zona boschiva.
I confini di ciò che rimaneva del ducato di Ravensbourne erano presidiati da guardacaccia, ranger e guardie del corpo private.
Ma il rischio era che quei confini fossero col tempo destinati all'accerchiamento da parte della Greater London e delle sue New Town.
Fino a due mesi prima, l'autorità e l'autorevolezza del defunto Duca erano state sufficienti per evitare modifiche ai piani regolatori.
Ma ora che il Duca era morto e che il successore non era all'altezza del padre, la situazione era cambiata completamente.
La Duchessa Vedova era rimasta devastata da quella perdita così improvvisa e precoce.
Presto i pescicani dell'edilizia si sarebbero risvegliati e si sarebbero fatti beffe del giovane lord Waldemar Ravensbourne, un biondino effemminato e insicuro, troppo giovane per quel tipo di responsabilità, ma comunque maggiorenne.
Waldemar, la sua più grande speranza e la sua più grande delusione.

In quell'unico figlio che le era stato concesso dopo tanti aborti spontanei, lady Elena aveva concentrato tutte le sue attenzioni e tutte le sue ambizioni.
Ma fin dall'inizio si era visto che tali speranze erano malriposte: il bambino era nato prematuro, gracile e malaticcio, e tale era stato per tutta l'infanzia.
In considerazione di questo, lady Elena aveva scelto di educarlo e istruirlo privatamente, con una serie di istitutori che risiedettero nella Magione per tutti gli anni degli studi primari.
Considerando la salute malferma del bambino, aveva inoltre deciso di tenerlo lontano dalle asperità del mondo, e dunque, fino a 11 anni, Waldemar non aveva mai messo piede al di fuori dei confini delle terre dei Ravensbourne.

Tali terre erano ampie, vi si poteva camminare per giorni, anche nella foresta, respirando aria pura (o almeno più pura di quella di Londra) e i parchi, i laghi, il ruscello, le piscine, i cortili interni e tutto quel paradiso avrebbero forse potuto rendere felice e invidiabile l'infanzia di Waldemar Richmond, a cui all'epoca ci si rivolgeva col titolo di Visconte di Keston e Barone di Holwood.

E invece no: il piccolo Wald era continuamente rimproverato dal padre, il duca Arthur, che era il classico nobile inglese "vecchio stile": andava a caccia, a pesca, a cavallo, giocava a polo, a crickett, a golf, a tennis, alle corse di canottaggio e inoltre tirava di scherma, tirava con l'arco, frequentava il tiro a segno per le pistole, era un appassionato di armi in generale, fumava sigari pestilenziali, aveva un paio di irreprensibili baffoni alla Bismarck, i capelli rossicci, radi e corti, la fronte accigliata e corrucciata, lo sguardo spietato.




Sua Grazia lord Arthur Richmond, VIII Duca di Ravensbourne, aveva reso l'infanzia di suo figlio un vero inferno, perché il ragazzo osava avere idee e gusti diversi dai suoi.
Fortunatamente il Duca era sempre fuori casa per affari, per sport o per andare a donne.
Ci si potrebbe chiedere come mai Elena Borromeo, donna bellissima, bionda, occhi azzurri, fisico alto e snello, di aristocratica famiglia italiana, avesse sposato un simile Cerbero britannico.
Lei stessa faceva fatica a capirlo, nel senso che quel ricco inglese, incontrato durante una festa a casa di parenti del ramo principale (e ricco) dei Borromeo, cioè gli Arese Taverna, si era intestardito nel corteggiarla con grande decisione, approfittando del fatto che Elena parlava un inglese più raffinato di quello della regina Elisabetta.
Alla fine, l'idea di diventare Duchessa e soprattutto di diventare ricchissima, aveva spinto Elena ad accettare di sposarlo.
Eppure c'era qualcos'altro, nel senso che il duca Arthur non sembrava affatto innamorato: era solo intenzionato a sposarla a qualsiasi costo.
A questo punto, per evitare eccessive divagazioni, approfittiamo del nostro ruolo di narratori onniscienti, per dire che il Duca apparteneva all'Ordine degli Iniziati, e in particolare alla fazione del Serpente Rosso, quella dominata dal consigliere Fernando Albedo.
E questo deve bastare, per il momento.
La Duchessa non sapeva nulla degli Iniziati, non li aveva mai neanche sentiti nominare, per cui non poteva sapere che suo marito aveva una specie di doppia vita.
Non le sarebbe importato più di tanto: lei preferiva che il marito fosse fuori dai piedi, in modo da poter lasciare a lei l'educazione del povero Waldemar.
L'infanzia era stata catastrofica, ma l'adolescenza era stata ancora peggio.
All'esclusivo college di Eton, l'onorevole Waldemar Richmond, all'epoca Visconte di Holwood e Barone di Ketton, era stato bullizzato senza pietà dai compagni, a causa del suo aspetto effemminato.
Assomigliava molto a sua madre Elena, che era, lo ripetiamo, una bellissima donna, specie nei suoi anni migliori, ma c'era qualcosa, nel suo sguardo, che ricordava il piglio aristocratico e severo del padre, che forse dietro a quei baffoni bismarckiani, nascondeva una bocca altrettanto carnosa.
Probabilmente altri tratti paterni sarebbero emersi col tempo, e gli avrebbero conferito un aspetto meno vulnerabile, come forse gli Iniziati avevano previsto.





In ogni caso, qualunque cosa fosse accaduta al College, il ragazzo era riuscito a sopravviverne, ma i suoi rendimenti scolastici ne avevano risentito, con grande delusione dei genitori.
La Duchessa non riusciva proprio a farsene una ragione.
Il Duca era comunque riuscito a farlo entrare a Oxford, dove finalmente Waldemar aveva incominciato a star meglio.
La scelta di partecipare al progetto Erasmus, che all'epoca era in fase sperimentale, era stata favorita dal padre, perché in questo modo Waldemar avrebbe avuto la possibilità di studiare anche in Italia e il privilegio di diventare allievo del Maestro professor Lorenzo Monterovere, potente tra gli Iniziati, e ritenuto da molti il delfino del consigliere Albedo.
Questo evento era stato per il ragazzo una svolta fondamentale.
La Duchessa però non vedeva di buon occhio il rapporto troppo stretto tra Waldemar e il Maestro Monterovere.
A suo giudizio, anzi, il ragazzo era "peggiorato", diventando ancora più eccentrico e stravagante, una cosa disdicevole nella nobiltà britannica.
La morte del marito era piombata all'improvviso come una valanga: il Duca sembrava il ritratto della salute e nulla faceva sospettare che il suo cuore fosse sofferente.
L'autopsia non era stata chiara: arresto cardiaco per cause naturali. 
Se avesse saputo dell'esistenza degli Iniziati, forse la Duchessa Vedova avrebbe saputo dove indirizzare i sospetti.
Il turbamento di lady Elena era dovuto non tanto alla perdita di quel marito tirannico e fedifrago, quanto piuttosto al fatto che nel testamento lasciava metà delle sue ricchezze al figlio Waldemar, il IX Duca, che da quel momento poteva costringerla a negoziare su qualsiasi cosa.
E i motivi di contrasto non si erano fatti attendere.
L'altra tegola era giunta con l'improvviso fidanzamento del nuovo Duca con lady Jessica Burke-Roche, che non possedeva, agli occhi della futura suocera, alcuna attrattiva per avere l'onore di entrare nella sua famiglia: era bassa e bruttina, faceva battute taglienti e acide, non portava alcuna dote e soprattutto apparteneva a una famiglia caduta in disgrazia presso la Corona.
E siccome le brutte notizie non arrivano mai sole, lady Jessica avrebbe portato con sé, come ospite, proprio quel professore ambiguo, di cui diceva di avere letto tutti i libri.

Il sentimento che dominava la psiche di Elena Richmond, in quell'agosto del 1992, era la delusione.
Suo figlio l'aveva delusa in tutto.
Suo marito l'aveva delusa, morendo in un momento inopportuno e lasciando quasi tutto a loro figlio.
I soci di suo marito l'avevano delusa, alleandosi subito con Waldemar senza alcun motivo apparente.
Il reverendo anglicano l'aveva delusa, consigliandole di essere meno severa con suo figlio.
Il vescovo anglicano di Southwark l'aveva delusa, non pronunciando lodi del suo defunto marito.
L'arcivescovo di Canterbury l'aveva delusa, non avendo accettato di officiare di persona il funerale.
E a voler essere sinceri fino in fondo, persino Dio, a cui lei era sempre stata devota, l'aveva delusa, non avendo mai esaudito alcuna sua preghiera.

Questo era lo stato d'animo di lady Elena, quando arrivarono gli ospiti.
L'unico vantaggio era che almeno con loro poteva parlare in italiano, la sua madrelingua, ma era ben poca cosa rispetto al disprezzo che lei provava sia per Lorenzo Monterovere che per lady Jessica.
E i suoi pregiudizi si rafforzarono nel vedere l'abbigliamento di entrambi.
Il professor Monterovere era quasi interamente vestito di viola, una cosa che lady Elena non aveva mai visto in vita sua.
Il Maestro, con indubbia cortesia, si esibì in un perfetto baciamano, ma poi se ne uscì con una frase che lasciò interdetta la padrona di casa: 
<<Vostra Grazia, ho saputo del grave lutto che ha colpito la vostra famiglia. Ma non vorrei limitarmi a esprimere il mio dolore per la sua perdita con un'espressione di banali condoglianze. 
Mi permetta dunque di citare una frase di Tertulliano, il grande apologeta che lei certo conosce meglio di me: 
"Respice post te :  hominem te esse memento, memento mori">>

La Duchessa Vedova non aveva la minima idea di chi fosse Tertulliano e il suo ricordo del latino era molto sbiadito nel tempo, ma a occhio e croce, quella frase le suonava male.
<<Professore, lei presume troppo riguardo alle mie conoscenze, per cui la prego di tradurmi la frase di questo... Tertulliano>> e pronunciò il nome come se fosse una insulto.
Lorenzo, che si stava divertendo come un pazzo, obbedì ben volentieri:
<<Voltati indietro, ricordati che sei un essere umano, ricordati che morirai>>
Se avesse avuto gli attributi maschili, lady Elena se li sarebbe toccati all'istante, ma in mancanza di quelli toccò il ferro della maniglia della porta.
Era inorridita.
Ma guarda questo menagramo vestito di viola che piomba in casa mia per la prima volta e cosa mi dice: ricordati che devi morire?
Ma che vada...
Un'intera vita di cortesie formali le impedì di pronunciare le frasi che pensava, e la costrinse a rispondere con un'asciutta constatazione:
<<Be', professore, non so lei, ma io non ho alcuna fretta di accontentare il suo Tertulliano>>
Lorenzo sorrise, non senza una certa aria di divertita superiorità e di bonario scherno.
In quel momento, così ci disse Jessica molto tempo dopo, "mi ricordò Willy Wonka, quello della Fabbrica di cioccolato, nell'interpretazione da parte del mitico Gene Wilder, naturalmente"
Waldemar era altrettanto divertito, ma cercò di non darlo a vedere, anche perché il suo interesse era concentrato sulla fidanzata, che aveva scelto un look per lei insolito.

Lady Jessica sembrava quasi in tenuta da spiaggiacon un top a metà strada tra un bikini e una tovaglia, i blue jeans che non si accordavano con le scarpe col tacco a spillo, per non parlare dell'eccentrica borsetta, che aveva la forma di quelle della Regina, ma i colori e le decorazioni erano molto diversi.
Waldemar la trovò comunque molto attraente, quasi più di quando, al Savoy, si era vestita elegante per la cena col nipote del Maestro (personaggio strano quasi quanto suo zio) e la bellissima ragazza con cui era fidanzato.
La Duchessa Vedova, invece, non trovando niente da lodare, si limitò a chiedere:
<<Jessica, quegli orecchini abbinati con collana e braccialetto... sono perle o avorio?>>





<<No, Vostra Grazia, è bigiotteria. L'unico gioiello autentico è l'anello di fidanzamento. 
Per le perle e l'avorio aspetto i prossimi doni del nostro giovane Duca>>
Lorenzo e Waldemar risero.
Elena Richmond, nata Borromeo, avrebbe voluto schiaffeggiare quella insolente plebea, ma si costrinse a pensare che in fin dei conti, era comunque già tanto che suo figlio avesse scelto di fidanzarsi con una ragazza, fugando dicerie e dubbi sulle sue preferenze sessuali.

Per tutto il periodo in cui Waldemar era stato in Italia, la Duchessa aveva temuto il peggio, arrivando persino a sospettare che fosse diventato l'amante di Lorenzo Monterovere, considerato l'entusiasmo con cui, al telefono, parlava del suo venerato Maestro.

Almeno quell'ulteriore supplizio le era stato risparmiato, ma di fronte alla prospettiva di trascorrere (memore della sua infanzia italiana e cattolica)  il sacro periodo tra San Lorenzo e l'Assunzione, o Ferragosto che dir si voglia, in compagnia di quegli strani e ambigui personaggi, la Duchessa Vedova di Ravensbourne e Contessa Vedova di Middlesex, si chiese, come sempre senza risposta, quale giorno, quale ora, quale istante, quali decisioni, quali fatalità, quali assurde conincidenze l'avevano condotta a quell'esito, facendola cadere così in basso.

Era evidente, infatti, che agli occhi dei suoi ospiti, e anche a quelli di suo figlio, lei ormai non contava più nulla.
<<Allora metterò i miei gioielli in cassaforte, nel caso a mio figlio venisse in mente di farti un dono extra con la scusa: "Appartiene alla mia famiglia da secoli, lo portava mia madre e ora lei vuole che sia tu a portarlo". Se dice una cosa simile, sappi che sta mentendo>>
Jessica sorrise:
<<Vostra Grazia non deve preoccuparsi, mi limiterò a indicare al nostro Duca i nuovi gioielli di Cartier che sono in vetrina a Parigi. Non chiedo poi molto. Credo che mi accontenterò di qualche parure con diamanti e smeraldi, o zaffiri...  vedrà che le piaceranno molto>>
Il Duca e il Professore risero, mentre la Duchessa Vedova decise che ne aveva abbastanza, e disse che andava a preparare il tè, dimenticando di specificare che lo preparava solo ed esclusivamente per se stessa.

Dal momento che gran parte del personale di servizio era in ferie, e che il maggiordomo e la cameriera si erano eclissati, non si capiva bene chi avrebbe dovuto occuparsi della della pesantissima valigia viola del professore.
Naturalmente fu il giovane Duca a offrirsi di trasportare la valigia, ma Jessica lo bloccò:
<<Wald, quella valigia pesa più di te, sfideresti le leggi della fisica nel trasportarla, e sarebbe meglio evitare, almeno in agosto, che ti parta un'ernia o una coronaria o peggio.
Io preferirei che tu arrivassi vivo al giorno del nostro matrimonio>>
Lorenzo era entusiasta dei suoi allievi e li rassicurò:
<<Forse vi sembrerò decrepito, ma sono ancora in grado di portare a mano una valigia>> e la sollevò con insospettabile facilità.
Waldemar fece strada agli ospiti, continuando a parlare:
<<Io e Jessica abbiamo pensato di sposarci qui, all'aperto o nella cappella di famiglia, se dovesse piovere. Ravensbourne Mansion è un'ottima location. Assomiglia molto alla Euridge Manor, chiamata anche "the lost Orangerie".
I proprietari hanno fatto un ottimo lavoro, pur di non doverla lasciare al National Trust>>














Il parco in effetti era magnifico, specie la zona delle vecchie mura e quella del lago.
Percorrendo i corridoi della Mansion, il professor Lorenzo Monterovere pensò che era stata una saggia decisione, da parte del Consiglio Ristretto, quella di eliminare il precedente Duca, usando i veleni non identificabili, prodotti dall'azienda franco-australiana Tessier-Ashpool, quella ereditata da Jessica alla morte di sua madre.
Arthur Richmond ha mostrato un disdicevole eccesso di zelo, nel sottoporre suo figlio alla Prova del Dolore.
I genitori di Jessica, al contrario, si erano rifiutati di mettere a disposizione la Tessier-Ashpool per l'Ordine degli Iniziati, e anche questo aveva contribuito al loro mortale "incidente".
Jessica, con molta più saggezza della sua defunta madre, Marie Gabrielle Tessier-Ashpool, aveva donato l'azienda a Fernando Albedo, conquistandosi la sua protezione e quella dello stesso Lorenzo Monterovere, che considerava la ragazza come una figlia.
Tutti i miei studenti più cari sono come figli, per me. 
Molti di loro avevano avuto genitori spietati e oppressivi, oppure indifferenti e anaffettivi.
E che dire della madre di Waldemar? In confronto a Elena Richmond, persino la regina Elisabetta apparirebbe una madre modello, piena di affetto e premure.
Fortunatamente, il giovane Waldemar aveva superato la Prova senza troppi danni.
E' quasi pronto per l'Iniziazione. Jessica ha fatto un ottimo lavoro con lui. Ormai tutto è pronto per passare alla fase successiva.
Non dovevano esserci esitazioni, i segni dei tempi di stavano moltiplicando, e non si poteva tergiversare oltre con inutili dilemmi amletici.
Custos, quid noctis? Sentinella, a che punto è la notte?
La domanda, tratta dal libro del profeta Isaia, gli appariva attuale. La lunga notte dello Spirito stava per raggiungere il suo culmine, e tutti gli Iniziati erano chiamati a compiere il loro dovere, per propiziare l'avvento di una nuova alba.
E allora perché mi sembra di essere come Victor Frankenstein?
Obiettivamente, il suo piano prevedeva cose persino peggiori di quelle del personaggio creato da Mary Shelley.
Ma c'era un altro autore inglese che lo tormentava, nelle memorie ancestrali.
Era Milton, specialmente quando faceva dire ad Adamo una delle frasi più belle del Paradiso perduto:
"Ti ho forse chiesto io, Creatore, dal fango di farmi uomo?"
La risposta era no. E allora perché era accaduto? Era proprio necessario?
Gli sembrava di essere Beethoven negli ultimi anni, quando, privato dell'udito e logorato dalle malattie, si chiedeva, nel comporre il suo ultimo quartetto, se fosse il caso di procedere o meno, continuando a scrivere il quarto movimento, quello “Grave ma non troppo”. 
"Der schwer gefasste Entschluss. Muss es sein? Es muss sein!". La difficile decisione: deve essere? Sì, deve essere!
L'Ananke aveva parlato. La dea della Necessità. 
Non esistevano templi per questa dea: che senso avrebbe avuto fare sacrifici a una dea che non ascolta? Una dea che aveva già deciso tutto.
Ma Beethoven non spiegò mai il perché, lasciando nel dubbio tutti coloro che si trovarono quella frase scritta nello spartito e la ricollegarono a vari episodi biografici di un uomo che aveva subito dal destino il colpo più duro.
Si ricordò della famosa statua nel Ring di Vienna, divenuta una sorta di luogo comune: dopo Maria Teresa come Giunone pronuba, Sissi come Pallade Atena e l'immancabile Radetzky a cavallo, ecco infine Beethoven fulminato dal destino.
Beethoven che "medita sui misteri del cosmo, sopportandone il peso".
Ma Lorenzo era andato oltre: lui quei Misteri li aveva conosciuti.
Perché, allora? Perché devo far ricorso alle memorie ancestrali?
Forse lo sapeva chi scrisse:
"Denn die Todten reiten schnell". Perché i morti viaggiano veloci.
Ora che la parte più difficile del Grande Disegno si stava avvicinando, tutti i suoi dubbi gli si arrampicavano sulla schiena, come serpenti pronti a mordere.
Si sforzò di recitare mentalmente un mantra.
L'equilibrio è dentro di noi, oppure non è in nessun luogo. La persona che non è in pace con se stessa sarà in guerra col mondo intero.
Chi l'aveva detto? Gandhi? Non aveva importanza. 
Nel suo caso era diverso.
Non sono stato io a iniziare questa guerra.
Sentiva il bisogno di chiedere scusa a tutti coloro che stavano per essere travolti dalle sue decisioni.
Ma implorava pietà all'entità superiore a cui si era votato, sì, pietà anche per se stesso, perché nessun essere umano l'avrebbe perdonato.
Pietà per il partente e per chi arriva, pietà per chi raggiunge o ha già raggiunto, pietà per chi non sa che il tempo è giunto, pietà per chi lo sa, per chi lo dice, pietà per chi lo ignora, e brancola nel buio...











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