"Se non avessi mai amato, oggi sarei imperatore della galassia" scrisse Maurizio Maggiani, e certamente Roberto Monterovere, nella sua mezza età, ripensando agli anni della tarda adolescenza e della giovinezza, sarebbe giunto alla stessa conclusione, senza nemmeno la chiusura consolatoria del Maggiani, secondo cui "ne valeva la pena".
No, nel caso di Roberto non ne valeva affatto la pena, dal momento che i benefici che trasse dalle sue storie d'amore furono sempre molto minori rispetto alle devastazioni che quegli amori lasciarono dietro di sé.
Ed ora ci accingiamo a raccontare il primo di questi amori, e forse il più disastroso di tutti, perché le sue conseguenze erano destinate deviare irrimediabilmente verso il peggio la vita di coloro che ne furono coinvolti.
Invochiamo pertanto il sostegno delle Muse, affinché ci renda testimoni trasparenti e cronisti fedeli degli eventi mirabili e terribili che avvennero nell'anno Domini 1992, nella città di Forlì e in altri luoghi di cui è cosa saggia e misericordiosa tacere persino il nome.
Roberto aveva diciassette anni, un'età in cui i mutamenti sono visti come speranze, e il pensiero del futuro è fonte di gioia e non di paura o preoccupazione.
A quell'età, in genere, la salute e la bellezza raggiungono il loro culmine, e vengono ingenuamente considerate come attributi eterni e inalienabili.
Roberto aveva persino incominciato a fare sport (tennis, nuoto e palestra) e a curare meglio il proprio aspetto fisico. Il suo rendimento scolastico, nel terzo anno del Liceo Scientifico, era stato al di sopra di ogni aspettativa, in ogni materia, e questo sembrava aprirgli la strada verso chissà quali luminosi orizzonti.
Ma la vera grande novità consisteva nel fatto che si era innamorato sul serio e la fanciulla che gli aveva rubato il cuore sembrava ricambiare questo sentimento (anche se al riguardo le versioni sono discordanti e non esistono prove certe).
Naturalmente Roberto si era innamorato già altre volte, ma erano solo infatuazioni adolescenziali, che, in assenza dei social network di cui gli adolescenti attuali si avvalgono per il rituale del corteggiamento, non erano andati oltre a qualche bacio.
Ciò che invece accadde nel 1992 era molto diverso, perché il sentimento che nacque era molto più profondo e basato su una reale conoscenza e stima della persona amata, una ragazza era stata sua compagna di classe sia alle medie che alle superiori: si trattava di Aurora Visconti.
Avevamo già in precedenza accennato al fatto che sua madre Maria Antonietta era una lontana cugina di Silvia Ricci-Orsini e dunque vedeva di buon occhio l'amicizia tra Aurora e Roberto, sperando che si tramutasse in qualcosa di più.
Purtroppo, nella famiglia di Aurora Visconti, soltanto sua madre era ben disposta nei confronti di Roberto, mentre il padre, un ricco imprenditore di nobili origini, non era affatto entusiasta alla sola idea che sua figlia frequentasse il nipote di quell'Ettore Ricci che era morto in disgrazia.
Ma la perplessità di Bartolomeo Visconti non sarebbero state un ostacolo insuperabile, se non si fossero messi nel mezzo il cugino di lei, Felice Porcu, un zotico violento e malvagio, e naturalmente il solito Vittorio Braghiri, ex migliore amico di Roberto ed ora suo massimo rivale.
Ma prima di entrare nel merito di queste dinamiche, è necessario raccontare quali furono le circostanze che portarono Roberto Monterovere ad innamorarsi di Aurora Visconti.
Pur conoscendola da anni, si "accorse di lei" soltanto nel terzo anno delle superiori, il che era francamente incomprensibile, dal momento che la ragazza era molto bella e anche molto intelligente.
Il fatto era che Roberto, negli anni dello sviluppo, si era sentito attratto da ragazze più grandi, più mature, mentre la bellezza di Aurora era ancora un bocciolo di rosa in attesa di fiorire.
Ma la scusa ufficiale che il giovane Monterovere addusse all'epoca si limitava alla considerazione che lo studio assorbiva tutte le sue attenzioni ed energie.
La stessa Aurora, in seguito, gli disse: <<Mi hai snobbata per cinque anni, prima alle medie e poi al liceo. Io stavo nel banco dietro al tuo, e tu non ti sei voltato neanche una volta, neanche per chiedere in prestito una penna, perché tanto tu non avevi bisogno di niente e di nessuno. La scuola era solo un luogo di studio, dove prendere appunti in religioso silenzio. E adesso, improvvisamente, ti accorgi che esisto. Non so cosa pensare>>
Il fatto era che nemmeno Roberto sapeva cosa pensare riguardo a ciò che gli stava accadendo.
Non si trattava solo di una questione di attrazione fisica, era quel tipo di innamoramento stilnovistico che proprio quell'anno stava studiando in storia della letteratura italiana.
Guinizelli, Cavalcanti, Dante fino ad arrivare a Petrarca.
Ma prima di loro c'erano stati i latini, in particolare Catullo e i greci, in particolare Saffo, a descrivere i "sintomi" di tale innamoramento: tachicardia, acufeni, sbalzi di umore e di temperatura, insonnia, anoressia, ansia, pensieri ossessivi, sensazione di non poter vivere senza poter almeno vedere la persona che si ama.
Le neuroscienze hanno confermato ciò che i poeti avevano intuito più di duemila anni fa, e cioè che l'innamoramento è uno stato alterato della coscienza, per molti aspetti simile a certe forme psicopatologiche, quali il disturbo ossessivo-compulsivo o persino quello bipolare (in precedenza conosciuto come psicosi maniaco-depressiva).
Le innovative tecniche di brain-imaging ci mostrano come il sistema nervoso centrale di un innamorato presenti un'anomalia a livello di corteccia cerebrale, causata da uno squilibrio dei neurotrasmettitori, in primo luogo la serotonina, che presiede al sonno, all'appetito e soprattutto all'umore.
Ma Roberto, all'epoca, non sapeva assolutamente nulla di tutto questo e non c'era Wikipedia a fornire spiegazioni che, per quanto non del tutto esaurienti ed attendibili, gli avrebbero comunque fornito qualche utile indicazione.
E così accadde che, in un mattino di primavera del 1992, durante l'ora di italiano, mentre si svolgeva la lezione sull'immortale sonetto dantesco "Tanto gentile e tanto onesta pare", un raggio di sole inondò la classe, ed Aurora, che ne era circonfusa come un angelo del Paradiso, chiese a Roberto, che era più vicino alla finestra, di regolare le veneziane.
Il giovane Monterovere si accinse alla complessa operazione, riguardo alla quale, come in tutte le cose pratiche, era completamente negato.
Mentre armeggiava inutilmente tra fili e pendagli, la luce del sole, invece che diminuire, aumentò di potenza, finché Roberto, esasperato, si voltò verso i compagni in cerca di aiuto e in quel momento la vide.
Aurora pareva risplendere di luce propria, dai capelli dorati, dagli occhi di zaffiro, dal sorriso dolce e fresco come un frutto appena colto.
In quel momento ella gli parve davvero come la più celestiale delle creature dell'universo.
Per tutto il resto della sua vita, Roberto cercò di ricostruire mentalmente quella scena: il sonetto della Vita Nova, il sole che accarezzava il volto e la linea snella della silhouette di Aurora e di come quella sublime combinazione di elementi e di emozioni, suscitò in lui un sommovimento interiore che rasentava l'estasi mistica.
E mentre lui se ne stava lì, immobile come se un incantesimo lo avesse pietrificato, la voce della docente gli giunse come di lontano: <<Monterovere, è meglio che lasci stare quelle veneziane. Se per favore qualcuno può... ecco, Visconti, grazie e mentre passi risveglia Monterovere dal torpore, perché non mi sembra che stamattina sia del tutto presente a se stesso>>
La classe rise, ma Roberto non sentiva altro che un coro d'angeli che in excelsis cantava la bellezza di quella "cosa venuta di cielo in terra a miracol mostrare".
Aurora gli si accostò, e per la prima volta lui si accorse anche del delicato e raffinato profumo di cui lei, ogni mattina, si passava due gocce sul collo e sui polsi.
Poi lei gli passò una mano davanti agli occhi, come per svegliarlo dall'incantesimo e gli chiese: <<Sei sicuro di star bene?>>
Lui notò, sempre per la prima volta, il fatto che anche la voce di lei era di una dolcezza infinita, come un flauto o un oboe, accompagnati, in sottofondo, da un'arpa.
Annuì e pensò che non era mai stato meglio in vita sua.
Lo pensò, certo, ma non lo disse, perché quel giorno le emozioni erano già state fin troppe.
In quel momento, egli sentì che la sua vita era così vicina a quello che sarebbe dovuta essere, eppure così lontana...
Lontana perché fin dall'inizio Roberto si rese conto che Aurora era, per lui, un sogno irraggiungibile, un frutto proibito.
Ma in fin dei conti, non è forse vero che ciò che non possiamo avere finisce per diventare proprio quello che desideriamo di più?
Se avesse dato ascolto alla sua ragione, Roberto avrebbe lasciato perdere fin dall'inizio e avrebbe scacciato anche il solo pensiero di potersi in qualche modo avvicinare a lei.
Avrebbe evitato tantissimi guai e dolori e tormenti e tradimenti e tutto ciò che ne seguì e che rappresentò un ulteriore passo nella sua descensio ad inferos.
In fondo i segnali di pericolo c'erano tutti.
Aurora, per qualche ignota ragione, teneva in gran conto il parere di quella bestia feroce che era suo cugino, Felice Porcu, che già abbiamo descritto come "omni parte vitae detestabilis".
Porcu detestava a sua volta il giovane Monterovere, e sarebbe stato disposto a tutto pur di tenerlo lontano da sua cugina.
L'altro elemento era, ovviamente, l'interesse di Vittorio Braghiri nei confronti di Aurora Visconti.
Fino a quel momento il suddetto interesse era rimasto inespresso, sospeso nell'Iperuranio plantonico, come del resto tutte le emozioni e tutti i sentimenti dell'enigmatico figlio di Massimo Braghiri.
C'era però l'assoluta certezza che, nel momento stesso in cui Roberto Monterovere avesse manifestato il proprio interesse per Aurora, allora Vittorio sarebbe sceso in campo per sbarrare la strada al rivale.
Più difficile da prevedere era l'alleanza, in chiave anti-monteroveriana, di Vittorio Braghiri con Felice Porcu, dal momento che i due non avevano quasi nulla in comune, se non l'odio verso Roberto Monterovere.
Vittorio era perfido, sì, ma aveva stile.
Porcu invece era un violento allo stato puro, un teppista che si vantava di essere tale, confidando nella protezione della famiglia Visconti, che lo usava come "cane da guardia" e "buttafuori".
Ma c'era un terzo aspetto, del tutto imprevedibile, che era destinato a rivelarsi come uno degli eventi più catastrofici nella vita di Roberto, e cioè il coinvolgimento, nell'alleanza anti-monteroveriana, del docente di matematica, il viscido Malvolio Sarpenti, che da anni nutriva, in segreto, la paranoica convinzione che il collega Francesco Monterovere stesse complottando contro di lui.
Il vero complotto, invece, lo ordì proprio Sarpenti, offrendo a Vittorio Braghiri e a Felice Porcu la protezione e la forza dell'autorità costituita.
Avremo modo di narrare dettagliatamente gli eventi terribili che innescarono una crisi destinata a lasciare, nella vita di Roberto Monterovere, ferite mai del tutto cicatrizzate.
E così quella che per un po' di tempo sembrò essere la "primavera" della sua adolescenza, era destinata a diventare e ad essere ricordata come il suo contrario, ossia la "Falsa Primavera".
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