I Galli Boi, arrivati nella pianura padana dalla loro terra d'origine, che prese il nome di Boemia, alla fine del V secolo a.C., si stanziarono nelle zone dell'Emilia centrale, conquistando Felsina, la città etrusca che divenne poi Bononia (Bologna). I Boi, così come le altre etnie galliche che colonizzarono il territorio dell'attuale Emilia-Romagna, e cioè i Lingoni e i Senoni, crearono insediamenti stabili e indipendenti fino a quando, alcuni secoli dopo, furono sconfitti dai Romani duecentosettanta anni dopo, ridotti in condizioni servili, utilizzati dai nuovi coloni latini per i lavori di bonifica, come braccianti, come abili artigiani.
Da quel momento la Storia non parla più di loro.
Una dimenticanza che si pone nell'ambito delle scarse fonti letterarie che riguardano in generale la presenza dei Celti nella nostra penisola, frutto di più fattori concomitanti. Innanzitutto i Celti erano un popolo che tramandava le proprie tradizioni oralmente e limitava l'uso della scrittura ai soli druidi, per cui le fonti scritte della loro storia sono solo di storici romani e greci, per secoli loro acerrimi nemici; oggettivamente interessati a descriverli in termini spregiativi e ad occultare la memoria delle loro imprese e delle loro vittorie. Inoltre, a parte qualche tomba, vi sono scarse testimonianze archeologiche della loro presenza sul territorio: pochi i resti dei villaggi, perché costruivano le loro abitazioni in legno e altro materiale deperibile; non luoghi di culto, perché celebravano i loro riti sotto le grandi querce secolari. Grossi ha raccontato i risultati delle sue ricerche in tre quaderni: “I nostri Celti”, “Litana Silva, la selva svelata”, “La sosta. Annibale in Val d'Enza”. Avendo come fonti le cose dette e non dette dai grandi storici di epoca romana, acquistano grande importanza i toponimi, il substrato celtico rimaste nel dialetto gallo-italico e nelle credenze del mondo contadino. Nel primo quaderno si fa riferimento al fatto che furono i Galli a favorire la diffusione dell'allevamento dei maiali e delle mucche rosse della steppa, che le tribù dei Galli Boi avevano portato dalle loro terre d'origine, ricorda i nomi dei centri abitati della nostra provincia di origine boica. Ad esempio Boretto (guado dei Boi), Taneto (quercia, recinto sacro), Arceto (bosco ceduo), Reggio (luogo di incontro dei re); ma anche nomi di fiumi e monti, come ad esempio Crostolo (da Crosolos, il dio che sorre nell'infossato) e Appennino (dal nome del dio Pen, signore delle alture). Molte sono anche le parole di origine celtica rimaste nel dialetto reggiano, come rusc (patume), breghi (pantaloni), soga (corda), branchèr (afferrare), basèr (baciare). Retaggi celtici sono alcune tradizioni tramandate nei secoli, come l'arcaica danza pastorale detta “il ballo della piva”, e le figure magiche e simboliche, dette maldisiòun, che adornavano i carri agricoli. Nel secondo quaderno, avendo come fonti le opere degli storici antichi, documenti medioevali e leggende arcaiche tramandate di generazione in generazione, ha localizzato la “grande foresta chiamata Litàna dai Galli” dove nel 216 a.C. quattro legioni romane, comandate dal console Postumio, caddero in un agguato e furono sterminate dei guerrieri boici. Secondo Grossi il luogo dell'eccidio, non specificato dagli storici romani, è la selva del Monte Leto nell'alto Appennino reggiano. Nel terzo quaderno viene identificato in una zona della Val D'Enza il luogo dove il condottiero cartaginese Annibale Barca, dopo aver sconfitto i romani nelle battaglie del Ticino e della Trebbia, pose il suo campo invernale, dal dicembre del 218 a.C. all'aprile del 217 a.C., prima di riprendere la marcia verso l'Etruria. Tesi molto interessanti, ben argomentate e straordinariamente suggestive.
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